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I professionisti nuovi poveri, redditi sotto i 30mila euro

I professionisti nuovi poveri, redditi sotto i 30mila euro

Giuseppe Bottero e Marco Sodano – La Stampa

Studiate: conquisterete una posizione, la solidità economica. Potrete entrare nel mondo dei professionisti tra notai, architetti, avvocati, ingegneri. Poi la crisi che ha cambiato il mondo ha cambiato anche questo mondo e nel 2015 il reddito medio dei professionisti italiani si fermerà sotto i 30 mila euro, dopo essere già sceso, negli ultimi sette anni, del 15% con punte che arrivano al 24. Significa aver visto sfumare un quarto dei propri guadagni.

È il dramma parallelo a quello della disoccupazione: quello dei poveri che lavorano, le persone che guadagnano meno di 6,9 euro l’ora. E tra questi i professionisti giovani, che continuano a crescere – nel corso del 2013 gli iscritti agli ordini in Italia sono aumentati del 15,7% – ma guadagnano sempre di meno, sfiorano il limite della sussistenza. Per Andrea Camporese, segretario dell’Adepp «il sistema sta costruendo una grande platea di poveri, pensionati che non riusciranno a vivere. Non porsi questo tema oggi è molto grave». E in questo panorama preoccupa soprattutto l’ultima leva: gli incassi chi ha meno di quarant’anni sono inferiori del 48,4% rispetto a quelli dei colleghi over 40. Se i più anziani ed esperti già patiscono la crisi, chiaro che per i nuovi arrivati è il disastro. Giusto che la retribuzione premi l’esperienza, ma quando la distanza arriva ad allargarsi tanto è evidente che il sistema s’è incagliato. Ci sono senz’altro molti ex precari, nella nuova leva dei professionisti: sono stati i pilastri instabili della «generazione mille euro» poi sono messi in proprio, nella maggior parte dei casi più per necessità che per scelta.

I poveri che lavorano sono tanti e soprattutto sono in crescita: rappresentano l’11,7% del totale degli occupati. E la percentuale sale al 15,9% se si allarga l’insieme a quello che contiene le partite Iva. Si arriva alla cifra di 756 mila persone che, semplicemente, non ce la fanno. «A differenza del passato il fenomeno riguarda anche autonomi con dipendenti e i lavoratori più istruiti» racconta Silvia Spattini del centro studi Adapt. Intanto è facile prevedere che la battaglia per la sopravvivenza si farà ancora più dura perché nell’arena stanno entrando anche i cinquantenni usciti dal lavoro e pronti a mettersi in proprio, con un tesoretto in tasca e la possibilità di giocare sui prezzi, abbattendoli.

Ultima doccia gelata, il mancato stop all’aumento dei contributi Inps per gli iscritti alla gestione separata. Dal primo gennaio, infatti, supererà il 30 per cento e poi, gradualmente, raggiungerà il 33%. «I freelance sono l’unica categoria penalizzata, alla faccia del governo sensibile ai giovani e al lavoro del futuro», dice Anna Soru, presidente di Acta, sorta di sindacato di quella che il New York Times, ha ribattezzato “creative class”. Sono soddisfazioni.

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Tre assunti al prezzo di due, grazie ai contributi azzerati

Marco Sodano – La Stampa

Risparmiare quasi novemila euro su una busta paga che al lordo ne costa 22mila: ecco cosa vuol dire, tradotto in cifre, l’annunciato azzeramento dei contributi per i neoassunti. Un impresa che abbia programmato – poniamo – due assunzioni ne potrà fare, con gli stessi soldi, tre. Almeno, sempre stando all’annuncio dato dal premier Matteo Renzi, nei primi tre anni di lavoro dei nuovi arrivati. Il taglio complessivo del costo del lavoro arriverebbe al 35%. Cifre che lasciano prevedere un grande successo per il contratto a tutele crescenti che il governo si prepara a far diventare legge con il Jobs Act.

Certo, al momento degli annunci seguirà per forza di cose la fase della calibratura: probabile che l’azzeramento vero e proprio, fatti i conti, sia possibile solo per alcune fasce di reddito. Altre potrebbero avere sconti meno consistenti, ma la base è quella di un intervento davvero incisivo. Resta da capire se i numeri reggeranno alla prova della calibratura. Scettica Susanna Camusso: «La domanda è come verrà compensato l’azzeramento. Dire che non si pagano dei contributi significa dover governare una copertura previdenziale per questi lavoratori». Il ministro del Lavoro Poletti garantisce: «I contributi saranno pagati comunque, dallo Stato». Tuttavia, il segretario della Cigl sostiene che la cifra messa sul piatto, un miliardo e mezzo, sarebbe più efficace «se utilizzata in un piano di assunzioni e lavori da fare».

La Fondazione Hume ha provato a fare due conti (sia pure con gli elementi, non precisissimi, a disposizione), rifacendosi ai dati disponibili (anno 2013). I numeri del Ministero del Lavoro parlano di quasi 1,6 milioni di assunzioni, quelli dell’Istat che lo stipendio netto medio era di mille euro. A queste condizioni, applicare la decontribuzione a una platea così ampia costerebbe nove miliardi l’anno. Più che troppo. È però anche vero che qualcuno potrebbe aver trovato più di un lavoro: i dati parlano di assunzioni, non di persone. Considerando allora solo gli assunti a tempo indeterminato nel 2013 che nel 2014 non avevano cambiato o perso il lavoro il costo complessivo di una decontribuzione totale assomma a 3,7 miliardi l’anno.

Bisognerà infine valutare anche altre variabili: anzitutto, lo sconto sarà applicabile solo ai nuovi contratti a tutele crescenti, e quindi non prima che il Job Acts sia diventato legge, nei primi mesi dell’anno prossimo (e questo potrebbe voler dire che nel 2015 basteranno 700 milioni). In secondo luogo, che le cifre prese in considerazione dalla Fondazione Hume riguardano le assunzioni effettive del 2013. La decontribuzione è studiata per aumentare il numero dei neassunti. Più funziona più costa.

Col Tfr in busta paga mezzo stipendio l’anno in più per le famiglie

Col Tfr in busta paga mezzo stipendio l’anno in più per le famiglie

Marco Sodano – La Stampa

Il governo pensa di anticipare parte del Tfr in busta paga: quanto può valere?
Il Tfr (il trattamento di fine rapporto) accumulato equivale alla retribuzione annua divisa per 13,5. Si tratta, insomma, di una mensilità. Si è parlato di anticipare il 50% del Tfr maturato per un periodo di un anno almeno (valutando anche l’ipotesi di estendere l’anticipo per tre anni), mentre non è ancora chiaro se il governo ha intenzione di metterlo in busta spalmato sulle tredici mensilità oppure in una volta sola. Comunque sia, si tratta di una cifra che equivale grosso modo a metà dello stipendio.

Le imprese non sembrano entusiaste: perché?
Perché parte di quel denaro lo custodiscono loro e dovrebbero sborsarlo subito. Nelle pmi sotto i cinquanta dipendenti, il Tfr di chi non ha scelto un fondo pensione dopo la riforma del 2006 (ovvero la maggior parte dei lavoratori italiani) resta in azienda. Le imprese usano questo denaro per finanziarsi. L’ammontare totale annuo accumulato dagli italiani vale circa 24 miliardi (su 326 miliardi di retribuzioni). Di questi il 40% matura nelle pmi, 10,8 miliardi. Tornando all’ipotesi di mettere in busta metà della liquidazione, nelle casse – già esauste – delle piccole imprese si creerebbe un buco da 5 miliardi e mezzo. Così, se il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi è freddo e parla di «manovra molto complessa», le piccole imprese parlano di misura «impensabile. Per i lavoratori – ricorda il presidente di Rete Imprese Merletti – il Tfr è salario differito, per le imprese debito a lunga scadenza. Non si possono chiamare le imprese ad indebitarsi per sostenere i consumi dei propri dipendenti». Tanto più in un momento in cui ottenere credito è sempre meno facile.

Il premier ha parlato di usare i soldi della Bce per garantire il credito, però.
Vero: la liquidità garantita dalla Banca centrale europea deve andare alle imprese per definizione, un impiego del genere rispetterebbe lo spirito delle iniezioni decise dall’Eurotower. Bisognerà poi vedere, però, se il credito verrà concesso alle singole imprese, che andranno a chiedere il denaro in banca: visto com’è andata negli ultimi anni è legittimo che gli imprenditori abbiano qualche dubbio sugli strumenti che dovrebbero sconfiggere il credit crunch. Fino ad oggi hanno fallito tutti, nonostante ci abbiano provato in mezzo mondo.

Non è la prima volta che si parla di un anticipo del Tfr. Poi non se ne fece nulla: perché?
Nell’agosto del 2011 fu l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti sondò questa possibilità. Alla fine fu scartata perché troppo complicata: come fare con chi versa il Tfr in un fondo complementare per irrobustire la pensione? E gli Statali? Nel pubblico impiego chi è stato assunto prima del 2001 non riceve il Tfr ma il Tfs (trattamento di fine servizio): l’80% dell’ultima retribuzione moltiplicato per gli anni di servizio. Fino al pensionamento non è possibile sapere quanti soldi ha diritto di ricevere ogni lavoratore.

E i lavoratori? È un affare ricevere il Tfr in anticipo?
Dal 2007 – grazie a una riforma molto discussa – i lavoratori possono scegliere di non accumulare più il Tfr in azienda e di farlo confluire nei fondi pensione. Questo perché il passaggio dal sistema pensionistico retributivo (pensione calcolata sull’ultimo stipendio) a quello contributivo (calcolata su quanto accantonato nel corso della vita lavorativa), è diventato chiaro che chi è al lavoro adesso avrà pensioni molto più basse di quelle attuali: ai fondi toccherà il compito di integrare gli assegni. Un po’ di denaro disponibile subito fa comodo: ma bisogna avere ben chiaro che quei soldi non ci saranno più al momento del pensionamento. Insomma: non sono soldi in più, sono soldi in anticipo. Finiremmo con lo spendere oggi le ricchezze di cui dovremmo disporre domani: è lo stesso meccanismo del tanto vituperato debito.

Ma questi soldi in più come sarebbero tassati?
Anche qui per ora non è chiaro il meccanismo pensato dal governo: al ministero chiariscono che «non c’è ancora un piano». Sul Tfr si paga un’aliquota fiscale agevolata, più bassa di quella normale pagata sul reddito (sullo stipendio). Sull’anticipo si rischia di pagare di più: non è un affare. Tra l’altro non sarebbe neppure corretto pagare su questo denaro – che è frutto di un accumulo a scopo previdenziale – la parte di tasse che va alla previdenza.