Ferrovie e non solo, il discreto charme delle privatizzazioni
Giuseppe Pennisi – Formiche
Nell’ultimo mese, una serie di articoli su Formiche.net hanno cercato di fare il punto sulle privatizzazioni. È venuto il momento di arrivare ad alcune conclusioni. Almeno per ora, la materia è in rapida evoluzione e non è detto che non ci siamo svolte improvvise. In una direzione o in un’altra.
Per tre lustri, redigo il capitolo sulle privatizzazioni del Rapporto Annuale sulla Liberalizzazione della Società Italiana pubblicato dall’editore Rubbettino. Mi sono gradualmente convinto che in Italia le privatizzazioni hanno, come la borghesia del noto film di Bunuel, uno ‘charme discreto’: affascinano tutti ma quanto si arriva al dunque viene fatto molto meno di quanto sperato. Oppure – ancora peggio – si nazionalizza più di quanto non si privatizzi. A fine 2014, il più diffuso quotidiano italiano dedicava tre pagine alle privatizzazione in programma per il 2015, iniziato da poche settimane. Dimenticava, però, di dire che i Governi ed i Parlamenti succedutesi dal 2011 hanno portato a termine unicamente la privatizzazione dell’UNICI, l’unione degli ufficiali in congedo, in pratica un circolo ricreativo. È stata, invero, portata in Borsa Fincantieri ma ha ottenuto giusto i fondi (350 milioni) per sostenere il suo piano di sviluppo.
Cdp Reti – che ingloba le partecipazioni di controllo di Terna e Snam già in portafoglio di Cdp – ha fruttato 2,1 miliardi con la cessione del 35% alla State Grid of China, ma serviranno altri passaggi come un dividendo straordinario per far tornare quelle risorse ai soci. Dopo molti tentennamenti, ha varcato la porta di Palazzo Mezzanotte anche RaiWay, essenzialmente però per rendere possibile una riduzione dei contributi pubblici a quella Rai che, come si è visto nel primo di questi articoli, dovrebbe essere “la madre di tutte le privatizzazioni”, secondo un documento dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, organismo internazionale distinto e distante dalle nostre beghe.
Il Governo Renzi ha annunciato privatizzazioni per 11,2 miliardi all’anno fino al 2017, contro gli 8 miliardi fino al 2016, contemplati dal Governo Letta. Tuttavia, oggi è ancora meno chiara di dieci-quindici anni fa quella che gli economisti chiamano la funzione obiettivo delle privatizzazioni: in che misura vengono invocate per ‘fare cassa’ ed alleggerire il debito pubblico ed in che misura per rendere più efficiente il sistema complessivo ed aumentare la produttività multifattoriale. Allora la priorità della riduzione del debito pubblico era chiara ed iscritta nella normativa, tanto che i proventi delle privatizzazione venivano direttamente incanalati in un fondo speciale per alleggerire il fardello del debito. Adesso, anche ove in tre anni si privatizzasse per 33-34 miliardi, si scalfirebbe appena uno stock di debito pubblico attorno a 2.200 miliardi. A maggior ragione, quindi, occorre essere chiari sugli obiettivi. Altrimenti, lo charme discreto diventa come quella catenine d’argento che si regalano per i Battesimi, “così fini, così fini – diceva Petrolini – che non si vedono nemmeno”.
Inoltre, allo charme discreto delle privatizzazioni si contrappongono mani pubbliche sempre più tentacolari. È di questi giorni il ritorno alla grande del Tesoro come azionista del Monte dei Paschi di Siena. Aumentano le voci di una bad bank pubblica per alloggiare (sulle spalle dei contribuenti) le sofferenze di istituti di credito privati. È ormai scontato un intervento pubblico “temporaneo” per l’Ilva. È in fase avanzata il progetto di un fondo per l’ingresso anche esso ‘temporaneo’ nel capitale di aziende in crisi. Lo “charme” rischia di diventare troppo discreto.