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Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Raffaella Cantone – L’Occidentale

Brutte notizie per INPS. Secondo uno studio di ImpresaLavoro, la perdita di bilancio di INPS dal 2012 ammonterebbe a oltre 11 miliardi l’anno, da quando cioè l’istituto ha incorporato l’Enpals e Inpdap, perdita che secondo le stime dovrebbe registrarsi anche al termine del 2016. Il patrimonio netto di INPS, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, si sta quindi erodendo progressivamente, compresi i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite fatto negli anni scorsi.

Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, a fine 2016 i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori: negli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e, sempre secondo gli esperti di ImpresaLavoro, in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, comportando quindi un nuovo intervento di ripiano da parte dello Stato. Un costo che INPS continuerebbe a sottostimare è quello della svalutazione dei crediti, quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa.

Non si tratta solo di evasione, ma anche di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi, o ancora crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. La massa dei contributi non incassati, secondo le stime, dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese. Al momento i crediti non incassati corrisponderebbero a 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione. Due i parametri su cui si calcolano questi crediti, l’anno di riferimento e la gestione specifica a cui si riferisce.

ImpresaLavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

Secondo ImpresaLavoro le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

Leggi l’articolo sul sito de “L’Occidentale”

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Il Fatto Quotidiano – 3 aprile 2016

Dal 2012 l’Inps registra regolarmente una perdita di bilancio di oltre 11 miliardi l’anno che si attende sarà confermata anche per il 2016. Il suo patrimonio netto, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, è ormai diretto verso la completa erosione e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa. Il dato emerge da una analisi del Centro studi ImpresaLavoro. A fine anno i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

Uno degli aspetti più delicati, rileva Impresa Lavoro, è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo e minore è la probabilità di recuperarlo); il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre). Impresa Lavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione. Impresa Lavoro osserva infatti che le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

In particolare, c’è un costo che l’Inps ha finora sempre regolarmente sottostimato nei suoi bilanci preventivi: quello derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno – si legge nello studio – è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori, si va dal caso di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità a quello di crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (una tendenza ormai consolidata). Il loro ammontare esatto supererebbe quindi i 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Sul fronte dei dati previdenziali, in Italia ci sono oltre 474.000 pensioni liquidate prima del 1980, quindi in vigore da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Per le pensioni di vecchiaia l’età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l’età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne sposate con figli. L’Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico.

Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800.000 persone mentre altri 527.000 assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent’anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L’età media alla decorrenza era molto inferiore all’attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall’essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l’età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l’età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l’età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un’età media alla decorrenza di 73,89 anni.

Marin: “Al Senato una mozione a tutela di tutti i pensionati”

Marin: “Al Senato una mozione a tutela di tutti i pensionati”

di Marco Marin*

L’Inps ha evidenziato le condizioni drammatiche in cui vivono i pensionati italiani: 11,5 milioni di loro percepiscono infatti pensioni inferiori a 750 euro al mese. Una cifra, questa, ben al di sotto del livello minimo di sopravvivenza che un Paese civile dovrebbe garantire a chi ha lavorato una vita. Proprio per questo ho provveduto a depositare una mozione al Senato, a mia prima firma, insieme ai senatori del gruppo di Forza Italia, per tutelare i pensionati. Ricordando bene come il governo Renzi non lo abbia invece fatto quando si è trattato di dare la giusta rivalutazione alle loro pensioni. Lo dichiara il senatore di Forza Italia Marco Marin. La nostra mozione vuole impegnare infatti il Governo a dare piena attuazione alla sentenza 70/2015 della Corte Costituzionale, prevedendo il rimborso completo di tutti i pensionati. Chiediamo inoltre che le modifiche annunciate per favorire la flessibilità in uscita avvengano senza penalizzare i lavoratori con riduzioni del trattamento pensionistico e l’aumento delle pensioni per i soggetti disagiati. Infine, riteniamo doveroso ridurre il livello di tassazione sulle pensioni, che è tra le più alte d’Europa. A differenza del premier abusivo, noi pensiamo alle cose concrete nell’interesse degli Italiani.

*Senatore di Forza Italia, vicepresidente della Commissione Istruzione pubblica e Beni culturali

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

di Cesare Damiano*

Il nostro obiettivo è cambiare la riforma Fornero. E il tema essenziale è quello della flessibilità in uscita: la nostra parola d’ordine è “agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”. Il sistema previdenziale ha bisogno di molte correzioni, in parte dovute a veri e propri errori, come nel caso delle ricongiunzioni, causato da una scelta sbagliata del Governo Berlusconi. Modifiche vanno anche apportate per quanto riguarda i lavori usuranti e i lavoratori precoci, riconoscendo che le attività manuali e più faticose hanno bisogno di un riconoscimento particolare perché la loro aspettativa di vita è mediamente più breve.

Nel prossimo Documento di Economia e Finanza che verrà presentato dal Governo ad aprile, dovrà esserci traccia del tema della previdenza: in caso contrario sarebbe disatteso l’impegno del premier Renzi di fare del 2016 l’anno della flessibilità.

*Presidente della Commissione Lavoro della Camera

Furlan: “Sistema sostenibile, ora rivedere la Fornero”

Furlan: “Sistema sostenibile, ora rivedere la Fornero”

di Annamaria Furlan*

Cambiare la legge Fornero sulle pensioni è oggi una priorità se vogliamo davvero dare lavoro ai giovani ed aprire una prospettiva nuova nel paese. Per questo occorre uscire da un dibattito astratto, fatto di annunci e promesse di intervento, aprendo un tavolo serio di confronto tra il Governo e le parti sociali, poprio per evitare  che questo tema così delicato diventi terreno di populismi e strumentalizzazioni politiche. È indispensabile ripristinare una flessibilità nell’accesso alla pensione, a partire dall’età minima di 62 anni, oppure attraverso la possibilità di combinare età e contributi. Si tratta di una esigenza urgente che riguarda migliaia di persone, soprattutto chi fa un lavoro usurante e faticoso, con una aspettativa di vita purtroppo differente rispetto ad altre professioni. Se pensiamo poi alle donne, sono state profondamente penalizzate dalla riforma, sia nel settore pubblico che in quello privato, visto che non si è tenuto in minimo conto il lavoro di cura e di assistenza anche ai familiari disabili che tante donne nel nostro paese svolgono nell’arco della loro vita.

I lavori non sono tutti uguali. Questo è stato l’errore grave della riforma Monti-Fornero che con un colpo di accetta ha azzerato il futuro di tanti lavoratori e pensionati. Noi conosciamo la situazione difficile dei conti pubblici. Tuttavia non è vero che non ci sono le risorse per ristabilire i criteri di equità, solidarietà e flessibilità. Nel periodo che va dal 2013 al 2020 circa 80 miliardi di euro entreranno nelle casse dello Stato. Una cifra enorme che è stata, di fatto, prelevata dalle tasche dei contribuenti senza alcuna giustificazione visto che il sistema previdenziale italiano era stato giudicato sostenibile da tutte le istituzioni nazionali ed internazionali. Perché allora mantenere tutta questa rigidità? Perché questo accanimento contro i lavoratori? Si potrebbe utilizzare una parte di queste risorse per consentire il pensionamento anticipato a chi ha tanti contributi, senza penalizzazioni o collegamenti con l’attesa di vita. Ma dobbiamo anche chiudere le salvaguardie per i lavoratori “esodati” con una soluzione strutturale che garantisca a quei lavoratori il diritto pensione. Così come bisogna assicurare un trattamento pensionistico adeguato e dignitoso ai giovani, a chi svolge lavori saltuari, precari o discontinui, con retribuzioni, tra l’altro, basse.

Anche la gestione separata Inps va ripensata perché accorda tutele diverse e minori agli iscritti, rispetto alla generalità dei lavoratori. L’Italia è il paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile ed al contempo quello con il sistema pensionistico più rigido. È un cane che si morde la coda. Per questo noi proponiamo che sia incentivato anche il part-time fra i lavoratori anziani negli ultimi anni della carriera lavorativa, collegandolo all’assunzione dei giovani preparati all’uso delle nuove tecnologie, per un necessario turn-over nelle aziende e nella Pubblica Amministrazione. È inaccettabile anche la penalizzazione che si è fatta della previdenza integrativa e dei fondi pensione che invece andrebbero sostenuti ed estesi anche nel settore pubblico. Per questo bisognerebbe riportare ‪all’11‬ per cento l’imposta sostitutiva che oggi è al 20 per cento per una malintesa idea di equiparazione con le rendite finanziarie.

Il nostro paese è di fronte ad un bivio: come difendere il potere d’acquisto delle pensioni visto che su esse grava una tassazione doppia rispetto alla media europea. Come si può salvaguardare il valore degli assegni pensionistici, senza una rivalutazione annuale? Questi sono i nodi da affrontare, trovando le soluzioni giuste, perchè è in gioco il destino di tante famiglie italiane. Bisogna pensare ad una diversa politica fiscale che sostenga i redditi dei pensionati, realizzando la completa equiparazione della no-tax area con i lavoratori dipendenti. Ecco le ragioni della nostra mobilitazione sindacale di sabato : vogliamo cambiare radicalmente il sistema previdenziale nel segno della equità, della sostenibilità finanziaria e della giustizia sociale. Far sentire la voce di tanti lavoratori, pensionati, donne e giovani che chiedono maggiore rispetto ed un futuro più dignitoso.

*Segretaria Generale Cisl

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

di Gianni Zorzi

Più di undici miliardi all’anno è la perdita di bilancio che l’Inps subisce regolarmente dal 2012 (anno in cui ha incorporato l’Enpals e soprattutto l’ex Inpdap), e che stima di registrare anche al termine del 2016. Il patrimonio netto che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro è ormai diretto verso la completa erosione, e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa.

Il conto a fine anno potrebbe essere ancora peggiore, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

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C’è un costo in particolare che l’Inps ha sempre regolarmente sottostimato fino ad ora nei suoi bilanci preventivi: il costo derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori si va dal caso di debitori falliti o liquidati, oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità, a quello di crediti caduti in prescrizione, o per i quali ne viene accertata l’insussistenza.

Per il 2016 l’accantonamento preventivato a conto economico sfiora gli 8 miliardi: un valore ben più allineato a quanto rilevato a consuntivo negli ultimi anni, anche in considerazione – riporta testualmente il bilancio Inps – della “vetustà dei residui attivi” e della “presunta probabilità di effettivo realizzo degli stessi”. Per l’anno appena chiuso invece le previsioni assestate contengono accantonamenti per 5,7 miliardi a fronte di meno di un miliardo messo in preventivo.

Concettualmente il problema è analogo a quello che affrontano le banche: i mancati incassi si accumulano nei bilanci (soprattutto in anni di crisi) e diventano a tutti gli effetti crediti deteriorati. Una parte di questi viene efficacemente recuperata mentre la restante quota perde progressivamente la probabilità di un recupero fino a essere soggetta a definitiva svalutazione.

Anche la gestione dei crediti e del loro recupero, del resto, è un’attività che richiede risorse e che può essere condotta in modo più o meno efficace ed efficiente. Talvolta può risultare conveniente delegarla a terzi attraverso strumenti quali la cartolarizzazione o la cessione del credito a operatori qualificati (in questo caso può effettuarsi con uno sconto, anche molto elevato, rispetto al loro valore nominale).

Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei cento miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (è una tendenza ormai consolidata da anni). Il conto esatto sarebbe di oltre 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Uno degli aspetti più delicati è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo è peggiore la probabilità di recuperarlo) e il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre).

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Si scopre dunque che questi criteri sono stati rivisti al ribasso proprio negli ultimi bilanci. I crediti risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici.

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Per il triennio successivo (mancano informazioni aggiornate ma per il 2010-2012 è arduo stimarli in meno di 20 miliardi), la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente, anche se manca una relazione apposita in bilancio, il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione.

Inoltre, le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono – non sorprendentemente – quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

La preoccupazione (lecita) è dunque già riferita al presente: sono sufficienti e realistiche le svalutazioni sinora effettuate dall’ente oppure sono ancora ottimistiche? È sufficientemente strutturata ed efficace l’attività di recupero dell’Inps, specialmente su volumi in consistente crescita? Si può affrontare il problema con strumenti migliori e, in tal caso, quanto può costare non attivarli per tempo?

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Alcuni strumenti come la cessione dei crediti e la cartolarizzazione (sempre che si dimostrino più efficienti per il recupero degli incassi) richiedono appositi strumenti normativi. Le ultime operazioni di trasferimento – delle quali l’esito non è reso chiaro – risalgono ormai al 2005: sappiamo solo che di 26 miliardi di crediti residui ben 11 sono insorti prima del nuovo millennio, e il 10% non risulta ancora svalutato.

I pur nutriti rendiconti dell’Inps (l’ultimo consuntivo misura complessivamente 3883 pagine) non brillano per esaustività con riguardo a questi aspetti. Nemmeno gli schemi sintetici (quelli più fruibili da una platea di non addetti ai lavori) riescono a descrivere con esattezza le dimensioni del problema, che nel dibattito nazionale è rimasto – salvo qualche eccezione e nonostante le sue crescenti proporzioni – sinora sorprendentemente sottaciuto.

 

 

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

di Giuseppe Pennisi

L’Inps dovrebbe inoltre fare chiarezza su due questioni sulle quali il suo sito non fornisce alcun dato preciso. La prima è quella sul flusso annuale delle ‘pensioni lunghe’ godute da una vastissima platea di uomini e donne che, in virtù di norme speciali, hanno iniziato a riscuotere assegni di anzianità quando non erano nemmeno quarantenni. Quante sono? Si vocifera di più di 80mila casi e quel che è certo è che non si tratta di pensioni correlate ai contributi versati. L’altra questione su cui vige una “congiura del silenzio” è quella – si permetta il gioco di parole – dei ‘silenti’: quanti sono e quanto è il ‘montante’ dei contributi di coloro che hanno effettuato versamenti senza poterne fruire perché non hanno raggiunto il minimo di anni contributivi o perché deceduti o perché emigrati? È in queste voci che si devono cercare risorse, non in quelle su pensioni di reversibilità a vedove ed orfani.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Ricetta liberista senza esitazioni

Ricetta liberista senza esitazioni

Massimo Blasoni – Metro

Mentre la teoria keynesiana ha sempre privilegiato il consumo secondo logiche sostanzialmente meccanicistiche (illudendosi che fosse sufficiente elargire risorse per mettere in moto lo sviluppo), gli economisti liberali – da Jean-Baptiste Say fino a Joseph Schumpeter e Israel Kirzner – hanno insistito correttamente a più riprese sul ruolo imprescindibile dell’iniziativa imprenditoriale. Questa economia dell’offerta, basata sull’idea che senza produzione e senza una produzione ispirata dalla ricerca della soddisfazione del pubblico non ci può essere crescita né sviluppo, fu anche alla base della rivoluzione reaganiana degli anni Ottanta. Senza la cosiddetta supply-side economics, che valorizzava appunto il ruolo delle imprese e della creatività del lavoro, non ci sarebbe stata, ad esempio, la Silicon Valley e tutto quello sviluppo di informatica e telematica che ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere e produrre.

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“La Buona Spesa”: il primo libro di ImpresaLavoro

“La Buona Spesa”: il primo libro di ImpresaLavoro

cop_buonaspesaSpending review è un termine anglosassone di cui fino a poco tempo fa ignoravamo perfino l’esistenza. Non c’è da stupirsi, visto che dalle nostre parti la spesa pubblica è sempre aumentata in maniera allegra e incontrollata. I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno però recentemente costretto ad accoglierla nel lessico corrente. Peccato però che al suo sempre più vasto e gratuito utilizzo non siano poi seguiti risultati concreti apprezzabili, nonostante le altissime aspettative suscitate dalla nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e ora Yoram Gutgeld. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora largamente insufficiente. Per questo il nostro Centro studi ha deciso in questi giorni di pubblicare “La Buona Spesa”, una guida operativa elaborata da Giuseppe Pennisi (economista di vaglia internazionale e presidente del nostro board scientifico) e Stefano Maiolo (componente del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio). Il suo obiettivo dichiarato è quello di diffondere – grazie a un linguaggio semplice e accessibile a tutti – la conoscenza dei corretti metodi di valutazione della spesa pubblica.

Disponibile su Amazon in versione sia cartacea sia digitale, questo testo tiene conto dei metodi più avanzati per la valutazione delle opere pubbliche ed è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione, che non può più restare una “riserva di caccia” per esperti. Più che di un nuovo manuale tecnico si tratta insomma di uno strumento di lavoro utilizzabile da chiunque. A differenza di altri testi in commercio (nati per corsi universitari e post-universitari), questo lavoro parte infatti della premessa implicita che gli italiani in generale e soprattutto i dirigenti e funzionari della Pa che prendono le decisioni di spesa quasi mai sono tecnicamente attrezzati per effettuare in prima persona valutazioni economiche quantitative. Spesso, infatti, il loro compito si limita a prendere atto di quanto suggeriscono loro consulenti ed esperti. Un limite che va superato.

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Massimo Blasoni a MattinoCinque – Canale 5

Massimo Blasoni a MattinoCinque – Canale 5

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è intervenuto a “MattinoCinque”, su Canale 5. In studio, insieme a lui, Alessandro Cecchi Paone.

Trovare un posto di lavoro non è facile né per i giovani né per chi, magari a 50 anni, l’ha purtroppo perso. Si…

Posted by Massimo Blasoni on Wednesday, March 30, 2016