stefano maiolo

Presentazione La Buona Spesa a Tor Vergata

Presentazione La Buona Spesa a Tor Vergata

Presentazione del volume “La Buona Spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa” di G. Pennisi e S. Maiolo

29 settembre 2016 – ore 16:00

Biblioteca “Vilfredo Pareto”
Università di Roma “Tor Vergata” – Macroarea di Economia

Introduce
Simone Bressan (Direttore Centro Studi ImpresaLavoro)

Intervengono
Sergio Cherubini (Università di Roma “Tor Vergata”)
Pierluigi Coppola (Università di Roma “Tor Vergata”, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti)
Mario Sebastiani (Università “Tor Vergata”, Società Italiana di Politica dei Trasporti e della Logistica)
Giovanni Trovato (Università di Roma “Tor Vergata”)
Salvatore Zecchini (Comitato Ocse Piccole e Medie Imprese)

Concludono
Giuseppe Pennisi (CNEL e ImpresaLavoro)
Stefano Maiolo (Nucleo di Valutazione degli Investimenti Pubblici della Regione Lazio)

Dopo la Brexit e verso la Legge di Bilancio: quale Spending Review?

Dopo la Brexit e verso la Legge di Bilancio: quale Spending Review?

L’Associazione BuonaCultura e il Centro Studi ImpresaLavoro invitano al Convegno

DOPO LA BREXIT E VERSO LA LEGGE DI BILANCIO: QUALE SPENDING REVIEW?

Sulle linee del libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo
La Buona spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review

Giovedì 14 luglio 2016 – ore 18:00
CHORUS CAFE’ – Auditorium Conciliazione
Via della Conciliazione, 4 – ROMA

Introducono
Valerio Toniolo, Presidente Associazione Buonacultura
Simone Bressan, Direttore Centro Studi ImpresaLavoro

Intervengono
Giuseppe De Rita, Presidente Fondazione Censis
Michel Del Buono, Banca Mondiale, Nazioni Unite
Vincenzo Russo, Università di Roma La Sapienza
Salvatore Zecchini, Presidente Comitato Ocse Pmi

Concludono
Giuseppe Pennisi, Cnel, ImpresaLavoro
Stefano Maiolo, Nucleo di Valutazione Regione Lazio

R.S.V.P.
info.buonacultura@gmail.com
info@impresalavoro.org

Come fare sul serio la revisione della spesa pubblica

Come fare sul serio la revisione della spesa pubblica

Vincenzo Russo* – Publius

Il prof. Vincenzo Russo recensisce il libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo, La buona spesa. Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa, Edizioni Biblioteca Impresalavoro, Roma, 2016.

Il lavoro è ben costruito e scritto in maniera brillante. Evita le complicazioni analitiche. Non è testo destinato agli specialisti o agli accademici; può o dovrebbe essere letto e studiato da dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni e/o da cittadini senza una formazione specialistica in materie economiche e finanziarie ma interessati a capire come dovrebbero essere fatte le scelte pubbliche da politici che abbiano a cuore il bene comune.

Come sostengono a ragione gli stessi autori, il libro, da un lato, «è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione. Da un altro, è il frutto di dieci anni di corsi in questi campi tenuti presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa, ora Sna scuola nazionale di amministrazione), Istituti di formazione regionale, Università italiane e straniere, nonché della direzione o partecipazione a Nuclei di valutazione ed ad attività di valutatori indipendenti per conto di enti quali la Banca Mondiale, la Banca interamericana di sviluppo, la Commissione europea. Da un altro lato ancora, è l’esito di ricerche recenti sulla comunicazione della valutazione». Gli autori dimostrano una forte capacità di sintesi dal momento che in sole 180 paginette hanno saputo riassumere analisi empiriche e teoriche da migliaia di pagine senza trascurare i passaggi teorici più difficili.

Nel lavoro, gli autori comprendono un breve excursus storico sulle esperienze a partire dalle prime maturate in Mesopotamia e nell’antico Egitto. Più recentemente citano l’esperienza italiana di lunga data quanto meno in termini di prime sperimentazioni e di affinamento delle metodologie che la dice lunga sui più recenti fallimenti e sulla cultura della classe politica che preferisce scegliere spese e progetti innanzitutto per favorire le proprie clientele politiche. Negli anni passati quando si valutavano i diversi modi di finanziare le spese pubbliche si ricorreva sempre al tesoretto dell’evasione fiscale da recuperare, oggi si ricorre al tesoretto della spesa pubblica “tagliata”. Si tratta di un miglioramento? Dipende dal punto di vista dell’osservatore e/o analista. Intanto bisogna dire che i tagli di spesa sono maggiormente fattibili dei recuperi di evasione fiscale. In secondo luogo, bisogna capire che una nuova spesa finanziata con una vecchia spesa non cambia l’incidenza della spesa pubblica sul PIL, a parità di reddito nazionale; non aumenta la pressione tributaria come avviene invece se c’è recupero di evasione fiscale.

Perché ho detto che dipende dal punto di vista? Perché fin qui tagli di spesa e nuove spese sono operate per lo più alla cieca, ossia, senza un’analisi ex post della vecchia spesa né ex ante della nuova che si propone. In fatto, negli ultimi anni in Italia si è scelto il metodo degli tagli lineari (orizzontali, cross section) proprio perché non c’è alcuna Acb o di altro tipo per le nuove spese di trasformazione né per i trasferimenti erano disponibili valutazioni e perché i politici italiani non accolgono l’idea che le valutazioni degli effetti delle politiche pubbliche dovrebbero essere attività di routine e preferiscono intervenire in situazioni di emergenza. Perché nell’emergenza si mettono in seconda linea le responsabilità del passato salvo poi a lamentarsi della magistratura quando poi le accerta. Se tagli solo gli sprechi in senso tecnico si utilizzano meglio le risorse scarse e residuano risorse per produrre altri servizi o fare altri trasferimenti. Ma se insieme agli “sprechi” tagli quantità e qualità dei servizi prodotti come sta succedendo nella sanità – da quanto raccontano i giornali ogni giorno – allora aumenta l’insoddisfazione dei cittadini.
A questo riguardo vale un’ altra considerazione di metodo. Quando si parla di tagliare questa o quella spesa nessuno presenta preliminarmente una indagine campionaria sulla soddisfazione dei cittadini su questo o su quel servizio. Si producono statistiche comparate tra diversi Paesi membri o non membri della UE o dell’OCSE per concludere che questo o quel paese spende di più di un altro paese. Ma le preferenze dei consumatori contribuenti dove stanno? In pratica si assume il modello del programmatore onnisciente che conosce perfettamente le preferenze dei cittadini. Il che significa che, a monte della valutazione dei singoli progetti e delle singole spese, l’analisi sia inserita in un contesto di programmazione come cultura e metodo di governo. In contesti di area vasta come l’UE fortemente centralizzati ma caratterizzati da forti squilibri economici e sociali certi metodi di valutazione possono portare a decisioni dispotiche e/o arroganti come sottolineano gli autori a p. 30. Allo stesso tempo, in contesti decentralizzati o di governi multilivello, si pongono complessi problemi di ricondurre a logica unitaria valutazioni per progetti assunte senza un quadro programmatico generale. En passant, il metodo degli effetti presuppone un quadro programmatorio ben definito di tutta l’economia mentre l’Acb nelle diverse forme è più flessibili e lascia al mercato il ruolo fondamentale dell’allocazione delle risorse.

Come noto, da 40 anni a questa parte, la programmazione dell’economia da parte dell’operatore pubblico è stata sostanzialmente messa da parte e allora le organizzazioni internazionali preferiscono sviluppare le Acb e parlare di best practises. Ma chi lo ha detto che quelle della Svezia vanno bene anche per l’Italia o per la Spagna? Ma c’è di peggio. FMI, Banca Mondiale, OCSE, Unido che certamente hanno contribuito ad elaborare le migliori metodologie di analisi costi e benefici, di analisi finanziarie e quanto altro, in fatto, negli ultimi 40 anni, perseguono dichiaratamente la riduzione della spesa pubblica nell’assunto che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato, ossia perseguono con pervicacia la riduzione del perimetro dell’intervento dello Stato strumentalizzando la questione della pressione delle tasse. Il loro lavoro è facilitato dal fatto che, non di rado, i cittadini contribuenti non percepiscono correttamente il legame necessario tra disponibilità di beni e servizi pubblici e finanziamento degli stessi attraverso imposte e tasse e pensano che loro hanno diritto a godere dei servizi pubblici ma che a pagarli devono essere solo gli altri. Tutti dicono di volere la riduzione delle imposte ma senza ridurre la spesa pubblica. Per altro verso, a causa della scarsa cultura economica e finanziaria, è illusorio pensare che l’efficienza e l’efficacia dei servizi e dei trasferimenti siano sempre gratis o che addirittura possano essere conseguite solo con i tagli. Certo ridurre le risorse disponibili per l’operatore pubblico può migliorare il loro utilizzo ma oltre all’efficienza bisogna guardare anche all’efficacia.

Il grado di soddisfazione dei bisogni pubblici è ragionevole e confrontabile con quello che altre giurisdizioni assicurano ai loro residenti? C’è una questione fondamentale di democrazia, come avvertono gli autori del saggio. Sono i cittadini liberi e consapevoli che devono scegliere la composizione più appropriata tra beni pubblici e privati e non le organizzazioni internazionali specializzate che sono per lo più autoreferenziali. Emblematica l’analisi sulla base dello schema call and put che gli autori fanno delle 6-7 riforme pensionistiche che i governi italiani hanno fatto negli ultimi 24 anni. Ora ci stiamo avvicinando all’ottava ma pochi sanno veramente di che cosa si sta parlando. Le riforme pensionistiche implicano sempre complessi problemi redistributivi e di equilibrio e/o equità intergenerazionale. Emblematica, per altro verso, la decisione del governo Renzi sul c.d. bonus cultura, ossia 500 euro ai giovani che compiono 18 anni nel 2016. Esempio di mecenatismo, di materiale captatio benevolentiae o addirittura di corruzione? Visto che tanti parlano di merito, perché non utilizzare gli stessi fondi per aumentare le borse di studio agli studenti capaci, meritevoli e bisognosi a tutti i livelli secondo le prescrizioni dell’art. 34 Cost.? A mio parere sarebbe stata una decisione sicuramente più efficiente e più equa.

Di certo le tecniche di valutazione come l’Acb nelle sue varie forme estesa, con valutazione delle opzione reali, con la individuazione degli stakeholders o il metodo degli effetti (o impatti) non risolvono tutti i problemi dell’allocazione più efficiente delle risorse scarse in contesti caratterizzati da forte incertezza come sono quelli che discendono dall’interagire di variabili esogene e endogene in continuo cambiamento per via dell’accelerazione della globalizzazione e dello sviluppo delle tecnologie Ict; non risolvono tutte le difficoltà della massimizzazione della funzione del benessere sociale in termini di first best in un contesto di economia aperta, globalizzata e preferenze eterogenee. Resta il fatto che le migliori tecniche di valutazione adattate alle diverse situazioni economiche e sociali sono comunque necessarie per perseguire soluzioni di second best ma condivise. Non a caso, gli Autori citano Albert Hirschman e la sua «proposta di costruire una coalizione di riformatori sulla base di una ‘valutazione economica condivisa’». Come detto sopra, le alternative peggiori sono certamente decisioni alla cieca e/o quelle che favoriscono le clientele dei politici che massimizzano il loro potere in un’ottica di breve termine.

*professore ordinario di Scienza delle Finanze all’Università La Sapienza di Roma

Aggredire la spesa pubblica si può. Il saggio di Pennisi e Maiolo

Aggredire la spesa pubblica si può. Il saggio di Pennisi e Maiolo

di Daniele Capezzone – Giuditta’s Files

Tutto come previsto. Dopo il sostanziale via libera da parte della Commissione Ue sui conti dell’Italia (sia pure con doppia riserva: sul deficit e sul debito), il Governo si è lasciato andare a un trionfalismo francamente fuori luogo. Primo: perché i 14 miliardi di margine concessi andranno pari pari a disinnescare le clausole di salvaguardia (aumenti Iva) che altrimenti scatterebbero alla fine di quest’anno (quindi, per tagliare un euro di tasse, non si potrà contare su quel margine, ma occorrerà tagliare davvero un po’ di spesa). Secondo: perché, come ripeto da tempo, l’Italia si sta contendendo un’umiliante “maglia nera” della crescita europea con Grecia e Finlandia. E non mi sembra un motivo per caroselli e festeggiamenti: non dispiaccia al nocciolo etrusco che guida l’Esecutivo.

Comunque, a questo punto,almeno per 48-72 ore il reality-tv show della politica italiana fingerà di occuparsi del taglio della spesa pubblica: il Governo, per dire che sta già facendo una serissima spending review (il che, purtroppo, non è vero, avendo Renzi-Padoan respinto nelle ultime due leggi di stabilità emendamenti per un simultaneo taglio di spesa e tasse di 48 miliardi); le forze di opposizione, per dire in modo stentoreo ciò che andrebbe realizzato, ma dimenticando di non averlo fatto negli anni in cui erano in maggioranza.

Logomachie (e batracomiomachie…) a parte, per chi invece fosse davvero interessato al tema e alle soluzioni (non alle slides e agli alibi), una lettura obbligata è il recente bel saggio (per la Biblioteca del Centro Studi Impresa Lavoro) curato da Giuseppe Pennisi con Stefano Maiolo, dal titolo La buona spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa . Giuseppe Pennisi non ha davvero bisogno di presentazioni: dalla Banca Mondiale alle sue docenze italiane, dalla sua attività di saggista agli interventi sulla carta stampata, da decenni offre soluzioni concrete ispirate a limpidi principi liberali e pro-mercato.

Stavolta, insieme a Maiolo, Pennisi ha scelto di realizzare una vera e propria guida operativa, che ha come interlocutori ideali i dirigenti delle amministrazioni dello Stato, delle Regioni, degli altri enti locali, indicando in dettaglio metodi e tecniche per la valutazione della spesa e delle opere pubbliche. Dall’analisi dei costi e dei benefici (imposta nel 1981 da Reagan a tutti i settori del governo e a tutte le agenzie pubbliche, prima di varare qualunque intervento di spesa) alla valutazione degli impatti, dall’analisi del rischio in fasi di incertezza in contesti dinamici al valore della comunicazione (quindi, la procedura di valutazione come un approccio sistematico di informazione e di decisione informata), il volume di Pennisi e Maiolo è davvero uno strumento di lavoro, per chi questo lavoro voglia intraprenderlo sul serio…

Badate. Non si tratta di un’opera per “ragionieri”, per aridi contabili, o per freddi tagliatori di spesa sociale. C’è, al fondo, un punto di assoluto rilievo umano, e – vorrei dire- di profonda etica della responsabilità. Pennisi sottolinea che troppe volte, nelle decisioni politiche di spesa, si privilegiano gli interessi delle generazioni correnti (legittimi, per carità) rispetto a quelli delle generazioni future. Il piccolo “dettaglio” è che le generazioni future, per evidenti ragioni, sono senza voce, perché – oggi – non votano, non scioperano, non vanno nei talk show. C’è qualcuno disponibile a una battaglia politica in nome di chi oggi non ha diritto di parola? Pennisi e Maiolo citano un’eloquente (e direi terrificante) analisi di uno dei maggiori specialisti Usa di finanza pubblica, Alan Auerbach: per conservare intatto l’attuale livello di stato sociale italiano (quindi: ammortizzatori, sanità, pensioni, ecc), la prossima generazione dovrebbe pagare, nella propria vita, tasse e imposte pari a cinque volte quelle pagate dalla generazione oggi anziana. Ogni commento è superfluo.

Come fare il tagliando alla spesa pubblica

Come fare il tagliando alla spesa pubblica

Marco Girardo – Avvenire

La spesa pubblica oggi è pari al 51% del Pil. Senza una sua riduzione, sarà impossibile raggiungere i parametri europei in materia di debito. E anche se il Patto di Stabilità venisse modificato, sarebbero comunque prima o poi i mercati a punirci. I tentativi di fare un “tagliando” alla spesa si susseguono oramai da decenni. Con il medesimo – e mai centrato – obiettivo: mantenere quella di alta utilità e ridurre quella inefficiente e cioè gli sprechi. Al Tesoro la sfida è stata affrontata prima dalla Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, fra il 1986 e il 2005, e poi, per due anni, dalla Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica. Entrambe sono state disciolte e i risultati sono stati inferiori alle aspettative: l’irresistibile ascesa della spesa pubblica soprattutto di parte corrente è proseguita. È iniziata quindi la stagione dei “commissari”, ma gli esiti- quelli visibili, almeno – non sono stati migliori. È solo colpa dei politici?

Il libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo «La Buona Spesa: Dalle Opere Pubbliche alla Spending Review – Una Guida Operativa» (Centro Studi Impresa Lavoro, 2016) prova a fornire una risposta e suggerire una terapia. In primo luogo, nei Paesi dove la spending review è stata efficace (Usa, Gran Bretagna, Francia), la “revisione” non si presentava come compito ad hoc di breve respiro, ma quale principale attività istituzionale – permanente, quindi – dell’organo dello Stato incaricato della formazione, della valutazione e del monitoraggio del bilancio (in Italia la Ragioneria Generale). In secondo luogo, dove funziona, la revisione si basa su metodologie standardizzate adottate a livello internazionale. Da un lato figlie di una teoria economica forte, dall’altro facilmente comprensibili non solo ai tecnici ma anche all’uomo della strada. In terzo luogo, la revisione deve essere partecipativa: i cittadini, le famiglie, le imprese devono essere in grado di comprendere perché si vuole ridurre una voce di spesa o accentuarne un’altra. Per questo motivo, la Guida è redatta in una prosa accessibile a chi abbia i rudimenti di economia domestica e include un capitolo dedicato al come comunicare le valutazioni sulla spesa pubblica.

Il manuale per tagliare gli sprechi dello Stato

Il manuale per tagliare gli sprechi dello Stato

cop_pennisi_def2Gianfranco Fabi – Il Sussidiario

Si sente sempre più spesso ripetere, anche da parte di illustri esperti di economia, che l’attuale crisi economica è il frutto di un liberalismo senza limiti e di quello che viene chiamato il fallimento del capitalismo. Una tesi certamente affascinante anche basata su di una visione strettamente ideologica più che fattuale. Infatti, prima di accettare supinamente questa analisi, ci potremmo chiedere in primo luogo se l’Italia sia un Paese a economia di mercato e in secondo luogo se i capitali possono fare veramente il bello e il cattivo tempo. E allora si potrebbe osservare che la metà più uno (il 51%) del Pil italiano è puramente e semplicemente intermediato dallo Stato e che la moneta sia nella sua quantità, sia nel suo prezzo (il tasso di interesse) è totalmente controllata da una entità extra-nazionale come la Banca centrale europea.

Se quindi è certamente vero che una finanza fuori controllo ha innescato negli Stati Uniti quella progressiva sfiducia che ha bloccato le decisioni economiche, è altrettanto vero che in Italia il sistema finanziario ha tenuto testa alla crisi e ha trovato e trova la sue maggiori difficoltà non nella corsa ai derivati e ai titoli speculativi, ma nel rallentamento dell’economia reale. Sono state infatti le difficoltà e talvolta purtroppo i fallimenti delle imprese a far aumentare oltre il livello di guardia le sofferenze bancarie. In questa realtà allora il ruolo dello Stato appare fondamentale. In primo luogo, come regolatore, perché se i mercati non funzionano spesso è più colpa delle regole che non frenano gli abusi e non colpiscono gli speculatori. In secondo luogo, perché attraverso la spesa pubblica, come insegnava il grande Keynes, si può tentare di accelerare nei momenti di difficoltà attraverso la leva degli investimenti.

Se sulle regole bisogna tener conto che molto ormai dipende dalle esigenze di armonizzazione dell’Unione europea, sul fronte della spesa pubblica la responsabilità è quasi completamente nazionale. E qui l’Italia ha molte colpe da farsi perdonare. Sia per il livello della spesa, sempre più destinata alla copertura degli impegni correnti e sempre meno al finanziamento degli investimenti, sia per la qualità degli interventi, spesso decisi al di fuori da una razionale procedura di valutazione sulla loro valenza economica e sull’efficienza dal profilo del miglioramento della dotazione di infrastrutture del Paese.

La dimostrazione sta tutta nel libro “La buona spesa, guida operativa dalle opere pubbliche alla spending review” di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo (Ed. Centro studi ImpresaLavoro, pagg. 194). Pennisi, economista con una lunga esperienza all’estero e collaboratore, tra l’altro, de “Il Sussidiario” e Maiolo, anch’esso economista, docente a Tor Vergata, compiono un viaggio attraverso norme, procedure e regolamenti per mettere a fuoco una realtà disarmante: “Nel nostro Paese  – come si afferma nell’introduzione – imprese, lavoratori, cittadini sono penalizzati a ragione del pessimo stato delle infrastrutture e dalla mancanza d finanziamenti per realizzarle, nonché dalla carenza di strumenti operativi per valutarne effetti e redditività finanziaria e sociale”.

Una Buona Spesa. Ecco quello che manca

Una Buona Spesa. Ecco quello che manca

Massimo Blasoni – Metro

I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno costretto ad accogliere nel nostro lessico il termine anglosassone di spending review. Ad oggi manca però ancora una sua concreta attuazione nonostante la nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora insufficiente. Lo dimostra ad esempio la scarsa attenzione che la politica italiana ha a suo tempo prestato al programma quinquennale di spending review presentato a Westminster dal Cancelliere dello scacchiere George Osborne. Alla sua base c’è il concetto liberale di Enabling State, che permette di attuare una spending review che non sia una caccia a politici e funzionari “spreconi”, ma che fornisca una base forte che può essere declinata anche in parametri quantitativi.

Continua a leggere sul sito di Metro

“La Buona Spesa”: il primo libro di ImpresaLavoro

“La Buona Spesa”: il primo libro di ImpresaLavoro

cop_buonaspesaSpending review è un termine anglosassone di cui fino a poco tempo fa ignoravamo perfino l’esistenza. Non c’è da stupirsi, visto che dalle nostre parti la spesa pubblica è sempre aumentata in maniera allegra e incontrollata. I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno però recentemente costretto ad accoglierla nel lessico corrente. Peccato però che al suo sempre più vasto e gratuito utilizzo non siano poi seguiti risultati concreti apprezzabili, nonostante le altissime aspettative suscitate dalla nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e ora Yoram Gutgeld. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora largamente insufficiente. Per questo il nostro Centro studi ha deciso in questi giorni di pubblicare “La Buona Spesa”, una guida operativa elaborata da Giuseppe Pennisi (economista di vaglia internazionale e presidente del nostro board scientifico) e Stefano Maiolo (componente del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio). Il suo obiettivo dichiarato è quello di diffondere – grazie a un linguaggio semplice e accessibile a tutti – la conoscenza dei corretti metodi di valutazione della spesa pubblica.

Disponibile su Amazon in versione sia cartacea sia digitale, questo testo tiene conto dei metodi più avanzati per la valutazione delle opere pubbliche ed è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione, che non può più restare una “riserva di caccia” per esperti. Più che di un nuovo manuale tecnico si tratta insomma di uno strumento di lavoro utilizzabile da chiunque. A differenza di altri testi in commercio (nati per corsi universitari e post-universitari), questo lavoro parte infatti della premessa implicita che gli italiani in generale e soprattutto i dirigenti e funzionari della Pa che prendono le decisioni di spesa quasi mai sono tecnicamente attrezzati per effettuare in prima persona valutazioni economiche quantitative. Spesso, infatti, il loro compito si limita a prendere atto di quanto suggeriscono loro consulenti ed esperti. Un limite che va superato.

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