»

Parte sotto della home

Fisco, al macero 700 mld di ruoli (e l’Inps triplica gli incassi delle Entrate)

Fisco, al macero 700 mld di ruoli (e l’Inps triplica gli incassi delle Entrate)

di Mino Rossi

A pochi giorni dalla pubblicazione dei due dossier sulle criticità di funzionamento del Fisco italiano, a cura delle massime istituzioni internazionali (Ocse-Fmi – vedasi qui), tornano assai preziosi i dati pubblicati il 23 giugno scorso  dalla benemerita “nostra” Corte dei Conti (vedasi qui Rendiconto generale dello Stato  per il 2015, vol. I).

Dati che ci aiutano in primis a capire, fra le altre criticità, un’anomalia, tutta italiana, riferita al comparto delle Entrate. Incrementatasi, col passaparola, a partire dai primi anni 2000, e che ha raggiunto oggi le dimensioni di una zavorra annua fatta di ruoli per qualche decina di miliardi. I quali nascono inesigibili in partenza, poiché riferiti ad accertamenti intestati o a persone nullatenenti o a società fantasma (parliamo di circa il 40% del carico lordo).

Dimensioni e gravità del fenomeno erano già note, grazie ad alcuni  dossier elaborati in passato dalla Corte dei Conti. Ma il documento di recente pubblicato conferma che il problema è  ancora lì, irrisolto. E lo rivela un dettaglio non da poco: nel 2015, infatti,  sono stati circa 90mila, su un totale di 300mila, gli accertamenti lavorati e notificati dalle Entrate nella indifferenza dei loro destinatari. I quali non hanno né impugnato, né pagato alcunché. Il valore della relativa imposta evasa accertata, al netto delle sanzioni, è stato pari a 7,6 mld (vedasi qui Rendiconto generale 2015 vol. I, pagine 37 e 38, Tavole 2.11 e 2.12).

Ma la novità più grande si rinviene incrociando questi ultimi dati con quelli comunicati il 9 febbraio 2016 alla Commissione Finanze del Senato, nella Audizione resa dall’amministratore delegato di Equitalia. Nella Tabella da noi elaborata sono stati messi a confronto fra loro gli esiti della riscossione coattiva: quella su mandato della Agenzia delle Entrate, e quella ad opera dell’Inps (insieme, i due Enti coprono l’89% del totale di 1.051 mld di ruoli consegnati a Equitalia).

equitalia

La Tabella è molto eloquente. Perché, non solo conferma che il carico iniziale delle Entrate è  davvero stratosferico (800 mld di euro, in quindici anni). Ma, anche perché, essa dimostra che la quota Entrate del “magazzino insoluti”, ovvero la parte ufficialmente destinata al macero, ad oggi “pesa” 700 mld, l’87% della cifra iniziale (cifra che in futuro può solo amentare). Inoltre, al confronto con l’Agenzia fiscale, l’Inps (che di certo non è l’Ente più virtuoso al mondo) sembra la Scandinavia. Con una percentuale di 20,8 punti in meno del magazzino insoluti.  E incassi del 15,8 per cento, che triplicano, quasi, il 4,4 delle Entrate. Vale a dire che se i crediti partoriti dall’Agenzia fiscale avessero ottenuto lo stesso tasso di riscossione (più 11,4%) lo Stato avrebbe introitato fino a oggi 90 mld di euro in più.

Il combinato disposto di dati così univoci e convergenti, dunque, costituisce prova del fatto che la prima emergenza da affrontare nel Fisco italiano è il dilagare incontrollato (e incontrollabile, a normativa vigente) della cosiddetta evasione da riscossione. Fenomeno delinquenziale diffusissimo, oramai, preordinato con sistematicità da abili colletti bianchi capaci di blindare a monte la propria impunità patrimoniale, neutralizzando ogni futura azione esecutiva di Equitalia.

Il tutto nascondendosi dietro grappoli di società fittizie – del tipo “apri e chiudi” – che solo momentaneamente appaiono in regola. E che si passano tra loro il testimone, dopo pochi mesi di vita, prima di scomparire nel nulla (magari spostando la sede legale in un paradiso fiscale). Nel mentre, gli sconosciuti burattinai (destinati quasi sempre a rimanere anonimi) ci sguazzano per davvero, affogando nella enorme liquidità illecita loro consentita dalle vendite commerciali esentasse. Vendite effettuate camaleonticamente alla pari, nel mercato legale, dove però tutte le altre aziende, quelle sane, sono spinte fuori mercato poiché esse i contributi Inps non li compensano certo con crediti d’imposta fasulli, mentre l’Iva, l’Ires, l’Irap e le addizionali, li versano fino all’ultimo euro. Puntualmente.

Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno

Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno

di Giuseppe Pennisi*

Vi ricordate perché e come nacque l’unione monetaria? Alla caduta del muro di Berlino, vennero preconizzate enormi spese pubbliche tedesche per evitare che i Länder orientali diventassero un nuovo Mezzogiorno.

I centri studi basati a Bruxelles pubblicarono paper su paper tratteggiando questa tesi ed anzi dipingendola ancora più fosca: per evitare il ‘”Mezzogiorno d’Europa” ai confini con la Polonia e per impedire un’ondata d’inflazione, la Germania avrebbe avuto forti deficit di bilancio e la Bundesbank alti tassi d’interesse. Tramite gli alti tassi d’interesse, avremmo pagato tutti noi parte del costo dell’unificazione tedesca. Oppure, sarebbe andato a carte quarantotto la rete di accordi europei sui cambi (in gergo giornalistico chiamata Sistema Monetario Europeo, SME).

Tale prospettiva faceva paura soprattutto alla Francia che aveva ricorso a “cambiamenti di parità” (termini elegante per voler dire “svalutazioni” in un salotto con signore di buona famiglia) e che, quasi con la stessa frequenza, cambiava Repubblica. Proprio per questa ragione (smetterla con le svalutazioni ed i cambiamenti di Repubblica), dopo una seria spending review, il 22 febbraio 1987, la Francia aveva firmato con la Germania il patto del Louvre, in base al quale la parità del franco francese con il marco tedesco sarebbe stata fissa e, in pratica,la politica monetaria della Francia sarebbe stata dettata dalla Bundesbank. Proprio nel tentativo di impedire un forte rialzo dei tassi tedeschi per sterilizzare le spese per il previsto Mezzogiorno dell’Est, la Francia propose un percorso a tappe, con parametri oggettivamente verificabili, per dare vita ad un’unione monetarie facendo diventare collegiali le decisioni di politica monetaria.

Molte voci si alzarono contro questo approccio (Alesina, Feldstein, Mundell, tra gli altri) ma quasi nessuno contro la prospettiva del Mezzogiorno dell’Est. Solamente Andrea Boltho del Magdalen College dell’Università di Oxford, Wendy Carlin dell’University College di Londra, e Pasquale Scaramozzino allora all’University College di Londra ed ora alla Università di Roma, Tor Vergata. Contro il coro a cappella (come si diceva allora) o “i gufi” (come si dice oggi), sostennero in un saggio pubblicato nel 1977 sul Journal of Comparative Economics del 1997 che non c’erano le premesse istituzionali, sociali e storiche perché i Länder orientali diventassero un nuovo Mezzogiorno.

Sono tornati sul tema con il paper Why East Germany Did Not Become a New Mezzogiorno pubblicato la settimana scorsa come CEPR Discussion Paper No. Dp 11266. Nel lavoro riesaminano la loro ipotesi alla luce dei dati di 25 dalla unificazione tedesca. Mentre in Italia in termini di reddito pro-capite non c’è stata alcuna convergenza tra il Sud e le Isole, da un lato, ed il centro-nord dall’altro (anzi la divergenza si è accentuata), nello stesso periodo i redditi medi dei Länder orientali tedeschi si sono molto avvicinati a quelli dei Länder occidentali. Le determinanti delle differenze di risultati nei due Paesi dipendono – sostengono i tre economisti – non solo da ragioni storico istituzionali, ma in diversità significative in materia di rendimento degli investimenti, flessibilità del mercato del lavoro e dello sviluppo di settori produttivi competitivi sui mercati internazionali.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Immigrazione, governo pigro

Immigrazione, governo pigro

di Massimo Blasoni – Panorama*

Per frenare i flussi diretti nel nostro continente correttamente la Commissione Europea ha correttamente proposto iniziative di sviluppo nei Paesi di origine dei migranti. Resta però una grande incertezza sui tempi e sull’entità dei finanziamenti e per il momento continuano gli sbarchi sulle nostre coste. Bloccata o quasi la rotta balcanica, in questa fase siamo la porta di accesso all’Europa. Ma quanto ci costa l’emergenza? Una stima per il 2016, prudenziale, è contenuta nel Def, il Documento di ecoomia e finanza proposto dal governo e approvato dal Parlamento. Secondo il governo il costo è di 4 miliardi e 115 milioni, cioè un miliardo e mezzo in più rispetto a quanto abbiamo speso l’anno scorso. Gli importi si dividono tra soccorso in mare, spese di accoglienza, sanità e istruzione a cui si aggiungono gli altri costi dei ministeri degli Interni e della Giustizia.

La solidarietà è lodevole e spesso necessaria, nulla da dire, tuttavia camminando per le nostre città è difficile non avere la sensazione che i profughi siano davvero molti, in prevalenza giovani maschi e forse non tutti in fuga da una guerra. È evidente che l’emergenza non è stata gestita bene ed è diventata dopo dieci anni un fenomeno ormai strutturale. Le fotosegnalazioni sono troppo lente ed è infinita la prassi che consente ai richiedenti asilo di fermarsi nel Paese anche in caso di diniego e sino agli esiti dell’appello. Tutto ciò con spese legali e mantenimento a carico della collettività. Non va dimenticato poi che il numero dei profughi sbarcati è nettamente superiore a quello degli oltre 100mila presenti nelle strutture di accoglienza. È un fatto: quelli che non risiedono nei vari Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e Cas (Centri di accoglienza straordinaria) o sono andati all’estero o si sono “persi” nel nostro Paese. Ben pochi per il momento si sono visti riconosciuto il diritto d’asilo, un po’ per la lentezza della nostra burocrazia, un po’ perché obbiettivamente non ne avevano diritto essendo migranti economici e non profughi.

L’Europa non si è dimostrata particolarmente solidale con il nostro Paese nella gestione della crisi. Sia chiaro, la concessione al nostro governo di maggiore flessibilità di bilancio per questi fini da parte di Bruxelles rappresenta semplicemente l’autorizzazione a spendere i nostri denari. Il concreto contributo europeo all’Italia è stato unicamente di 120 milioni nel 2015 e le previsioni per il 2016 sono in linea. Una cifra irrisoria se pensiamo che i costi superano i 4 miliardi. Non è così per tutti. Per la Turchia sono stati stanziati 3 miliardi di euro per gestire l’emergenza siriani. Di questi uno è a carico del bilancio europeo, il resto a carico degli Stati membri. Fatti due conti il nostro apporto supera i 300 milioni. Il fatto è che nel nostro Paese non solo aumentano gli sbarchi ma in assenza di rimpatri il numero dei migranti fisicamente presenti cresce senza un freno. Le soluzioni ovviamente non sono facili ma non è nemmeno accettabile rinviare ogni azione ad iniziative tutte ancora da definire sui territori di provenienza dei migranti. Ci sono in Europa governi pigri ed altri più autorevoli. Difficile non ascrivere il nostro alla prima categoria.

* Da “Panorama” del 21 luglio 2016

Perché assumere è vietato

Perché assumere è vietato

Massimo Blasoni – Metro

«Divieto di assumere»: non si tratta di un paradosso ma del tentativo di spiegare il comune sentire percepito da imprese e lavoratori nel nostro Paese. I licenziamenti e le mancate assunzioni di questi anni non sono solo – giova ribadirlo – la conseguenza di una strutturale crisi economica, né possono essere semplicemente imputati all’aggressività delle imprese. Sono, anzi, il frutto di un sistema antiquato, barocco e fortemente burocratizzato che pone in capo a chi deve assumere e creare occupazione un quesito amletico: mi conviene o è meglio rinunciare? Non si assume essenzialmente perché le leggi che regolano i rapporti di lavoro sono eccessivamente rigide e, oltre al costo economico, vi è un costo normativo ormai insostenibile. A tal punto che il divorzio tra datore di lavoro e dipendente risulta ormai più difficile e oneroso di quello tra coniugi.

Continua a leggere sul sito di Metro

Crisi. Pil pro capite: l’Italia non riparte. Dal 2007 cala dell’11,1%, pari a 3.200 euro a cittadino

Crisi. Pil pro capite: l’Italia non riparte. Dal 2007 cala dell’11,1%, pari a 3.200 euro a cittadino

L’Italia ha un Pil pro capite inferiore sia a quello dell’Area Euro che a quello delle media dei paesi dell’Unione Europea. Con € 25.500 a cittadino residente, infatti, il nostro Pil è superiore a quello della Spagna (€ 23.100) ma inferiore a quello di tutte le grandi economie: Regno Unito (€ 30.900), Francia (€ 31.500) e Germania (€ 34.100). È quanto emerge dallo studio del Centro Studi ImpresaLavoro realizzato per la Confimprenditori.

PIL_1

Analizzando i dati concatenati con valore di riferimento il 2010, ci si accorge di come il dato risenta molto di quanto accaduto durante la Grande Crisi che ha colpito il continente europeo nel 2008 e della crisi finanziaria del 2011. Nel 2007, infatti, il nostro Prodotto Interno Lordo pro-capite era di poco inferiore a quello dell’Area Euro e superiore a quello dell’Unione a 28.

PIL_2

Dal 2007 ad oggi l’Italia ha perso l’11,1% del suo Pil pro-capite, passando dai € 28.700 del periodo pre-crisi agli attuali € 25.500. Peggio di noi fanno solo Cipro e Grecia, mentre tutte le altre grandi economie o perdono meno di noi (Spagna -5,7%) o addirittura sono già ritornate ai livelli prima della crisi. La Germania ha oggi un Pil pro capite superiore del 6,2% rispetto a quello del 2007, il Regno Unito dell’1,3% mentre la Francia ha oggi lo stesso Pil pro capite di allora.

PIL_3

Il miglioramento dell’economia nell’ultimo anno ha contribuito solo marginalmente al recupero della ricchezza persa dal 2007 ad oggi. In Italia il Pil pro capite cresce, infatti, dello 0,79% pari in valore assoluto a € 200 sui € 3.200 persi rispetto al 2007. “Anche in questo caso il nostro paese fa registrare performance inferiori a quelle dell’Area Euro e della media degli altri paesi dell’Unione – spiega il presidente della Confimprenditori, Stefano Ruvolo – con tutte le grandi economie continentali come Germania, Spagna, Francia e Regno Unito, che fanno segnare tassi di crescita del Pil pro capite sensibilmente superiori ai nostri”.

PIL_4

Ragionare di dati nazionali nel nostro paese è sempre molto complesso. I numeri riferiti all’Italia scontano, infatti, le grandi differenze che esistono a livello regionale e tra macroaree”. Dal 2007 al 2014, secondo i dati elaborati dal database Istat e con valori concatenati aventi come anno di riferimento il 2010, permangono differenze molto marcate tra le varie regioni. In Campania il Pil pro capite rispetto al 2007 è arretrato di 17,63 punti percentuali, facendo segnare il dato peggiore di tutto il paese. Una diminuzione della ricchezza prodotta che è tre volte quella fatta segnare in Valle d’Aosta (-4,89%) e in Trentino Alto Adige (-5,09%). Va meno peggio della media nazionale anche la Lombardia, dove il Pil pro capite è calato in questi anni del 9,33%, un dato molto simile a quello della Sardegna (-9,61%), della Toscana (-9,66%) e dell’Abruzzo (-9,81%).

Non sono solo le regioni del Sud ad andare male: il secondo peggior dato nazionale è, infatti, quello dell’Umbria che perde dal 2007 al 2014 il 17,42% della ricchezza prodotta pro capite. Male anche il Lazio (-15,75%), le Marche (-15,02%) e sorprendentemente tre regioni del Nord come il Piemonte (-15,02%), il Friuli Venezia Giulia (-14,98%) e la Liguria (-14,58%). Concludono la classifica Puglia (-11,02%), Basilicata (-11,49%), Emilia Romagna (-11,72%), Veneto (-12,24%), Molise (-13,77%), Sicilia (-13,88%) e Calabria (-14,46%).

PIL_5

Il confronto tra i valori assoluti del Pil pro capite regionale rende ancor meglio l’idea del vero e proprio solco che separa le economie più avanzate da quelle strutturalmente arretrate. Nell’ultimo anno reso disponibile dall’Istat il Pil della Calabria (€ 15.256) e della Campania (€ 15.909) è meno della metà di quello di Valle d’Aosta (€ 36.779), Trentino Alto Adige (€ 34.856) e Lombardia (€ 33.272).

Questo significa che già oggi la Lombardia ha valori di Pil pro capite in linea con quelli tedeschi e superiori a quelli di Francia, Regno Unito e della media di Area Euro e Unione Europea. Per converso Calabria e Campania finirebbero in coda alle classifiche europee con una ricchezza prodotto in linea con quella di Portogallo e Repubblica Ceca.

PIL_6

L’età della pensione: riflessioni internazionali

L’età della pensione: riflessioni internazionali

di Giuseppe Pennisi*

L’età “ottimale” della pensione è tema già affrontato in questa rubrica. In un’ottica libera e con un sistema previdenziale essenzialmente pubblico a ripartizione ma in cui le spettanze sono calcolate secondo un metodo contributivo figurativo (come quello italiano), la decisione di lasciare il lavoro e di percepire la pensione, dovrebbe essere lasciata all’individuo. Naturalmente, di solito, quanto prima si “va in pensione”, tanto più basso è il “montante” accumulato e tanto minori sono le spettanze annuali o mensili per una data aspettative di vita. Tuttavia, il mondo non è così semplice. Dove esiste una previdenza pubblica, occorre porre dei “paletti” in termini di età in cui cominciare e percepire le spettanze al fine di evitare che il sistema venga messo a repentaglio da “bracconieri” che andando in pensione troppo presto (nella speranza che anche ove si esaurisse la pensione basata sul montante ci sarebbe comunque un sostegno sociale).

La Yale Law School ha in corso di pubblicazione un volume che tratta i problemi della terza età , dal titolo “New Deal for Old Age”. I singoli capitoli vengono pubblicati in via telematica, prima di essere finalizzati, come “Yale Law School Public Law Reserch Paper”. Il numero 566 di questi Paper è un saggio di Anne Alstott (luminare di diritto pubblico di Yale) proprio su questo tema.  

Anne Alstott parte dalla premessa che un coro di economisti e giuristi americani chiede una revisione al rialzo dell’età per poter percepite la Social Security, pilastro di base del sistema previdenziale federale americano (spesso i pensioni americani contano su tre pilastri: una pensione “professionale” derivante dalla contrazione ed una frutto di fondi pensioni privati). Attualmente l’età per accedere alla Social Security è 66 anni. Tuttavia, a questo coro si contrappongono, a mò di contrappunto, voci  secondo le quali, alzare i requisiti di accesso, pur avvantaggiando i giovani, penalizza i poveri e coloro che vengono espulsi dal mercato del lavoro prima di raggiungere la vecchiaia. Tra l’altro, i poveri, coloro che guadagnano poco e gli espulsi hanno statisticamente un’aspettativa di inferiore a quella di coloro che hanno redditi medio-alti. Quindi si pone un problema di fondo di politica previdenziale: come giungere ad un equilibrio tra equità intergenerazionale ed equità infragenerazionale.

Anne Alsott sottolinea che l’età è una “categoria contingente” il cui significato fisico e sociale varia. Invece di “partire dall’età” occorre esaminare in profondità gli obiettivi della politica previdenziale. Il saggio mostra come sia, tecnicamente e politicamente, possibile mantenere la possibilità di andare in pensione relativamente presto per i lavoratori che ne hanno effettiva esigenza e, al tempo stesso, mettere in atto un sistema di incentivi per i lavoratori che vogliono e possono lavorare di ritardare l’età in cui cominciare a percepire la Social Security.

È una lettura da cui si traggono lezioni anche per temi su cui sta tribolando l’Italia.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

di Giuseppe Pennisi – Formiche

La crisi di alcuni istituti di credito italiani (grandi e piccoli) è sparita da circa una settimana dalle prime pagine dei giornali. Ad esempio, su Il Sole-24 Ore del 17 luglio solo una (quasi invisibile) breve a p. 17 riportava un comunicato dell’ufficio dell’alto rappresentate per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Federica Mogherini, secondo cui ‘il Governo italiano e le autorità europee stanno lavorando positivamente’. Comunicato poco utile perché era da supporsi che le parti in causa stessero lavorando e da auspicarsi che stessero operando ‘positivamente’ verso un accordo.
In effetti, è in corso un negoziato la cui conclusione è tecnicamente semplice, sotto il profilo giuridico (basterebbe un’interpretazione estensiva per un periodo determinato – ad esempio sino al termine del 2016 – per l’applicazione di alcune regole delle direttiva sui dissesti bancari), ma politicamente molto difficile.

In primo luogo, il Governo italiano è stato oggettivamente indebolito dai risultati delle elezione amministrative, è alle prese con la riapertura del dibattito sulla legge elettorale, sta perdendo quota nei sondaggi di un referendum per il quale non è stata ancora stabilita una data ed ha la necessità di giungere ad un accordo ‘bancario’ con l’Ue nel più breve tempo possibile. Tanto il Governo italiano quanto quelli del resto dell’Ue e la stessa Commissione europea (Ce) sanno che le famiglie italiane hanno nei loro portafogli 200 miliardi di euro che, in mancanza di soluzione positiva dei negoziati con l’Ue, verrebbero triturati dal bail in, rendendo ancora più forti le opposizioni all’attuale Esecutivo.

In secondo luogo, la Ce vorrebbe dare una mano al Governo italiano (anche perché non vede alternative all’orizzonte) ma perderebbe di brutto la faccia (dopo la ha già persa giù un paio di volte negli ultimi mesi) se regole appena introdotte con la ratifica di tutte le parti in causa venissero applicate in modo lasco alla loro prima prova per favorire uno ‘degli Stati fondatori’ subito dopo la Brexit.

In terzo luogo – come spiega bene David Schäfer della London School of Economics nel saggio pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies – ‘unione bancaria’ si basa sull’’ordoliberalismo’ (il liberalismo delle regole) proprio con il fine (più volte ribadito da Berlino) ‘di rompere il circolo vizioso tra Stati e sistema bancario’. Poco importa se in passato i Länder della Confederazione – non le autorità federali- siano intervenute in aiuto di casse di risparmio e di banche di cui i Länder sono azionisti di riferimento: è un problema di ciascun singolo Land non del Governo federale. Per tale motivo si tratta di istituti non soggetti alla vigilanza della Banca centrale europea ed in gran misura al di fuori dell’unione bancaria.

In quarto luogo, nonostante la buona volontà ai piani alti della Ce e nonostante la disponibilità della Germania a stendere una mano pietosa all’Italia, siamo alla prese con un accordo inter-governativo in cui , salvo fare un ricorso alla Corte di Giustizia Europea (ed avere una sentenza definitiva tra tre-cinque anni), pesa anche il parere degli altri firmatari. Non pochi di loro leggendo i rapporti dalle loro ambasciate a Roma, oppure i giornali italiani ed alcuni quotidiani internazionali, non hanno fiducia in un Governo ed in Parlamento che alla firma ed alla ratifica del trattato di Maastricht si sono impegnati a portare il rapporto debito pubblico: Pil dal 105% al 60% entro un tempo ragionevole e venticinque anni dopo supera il 130% . Un debito pubblico molto elevato in rapporto al prodotto nazionale lordo – è noto- è un nemico della stabilità finanziaria , elemento essenziale per un buon funzionamento del sistema bancario. Infine, non pochi Stati del club dell’unione bancaria, notano che i flebili segni di ripresa in Italia si sono smorzati e si chiedono come possa il sistema bancario riprendere a funzionare bene in un’economia che ristagna o scivola in stagflazione.

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

Udine20 

“Sold out” per l’incontro di ieri sera a palazzo Kechler dal titolo “Estate 2016: opinioni su economia, lavoro, Tv e giornali” . Oltre duecento persone erano presenti al convegno organizzato dal Centro Studi “ImpresaLavoro” che ha visto protagonisti il Presidente di “Impresalavoro”, l’imprenditore udinese Massimo Blasoni e il conduttore televisivo NIcola Porro, vicedirettore de Il Giornale e reduce dalla fortunata esperienza alla guida di Virus, in prima serata su Rai2. Introdotti dal direttore del Centro Studi, Simone Bressan, i due protagonisti sono stati incalzati dalle domande del giornalista Vittorio Pezzuto. Blasoni e Porro si sono confrontati in un acceso dibattito sull’attualità economica e sui principali temi in agenda in queste settimane: dalla Brexit alla crisi delle banche, dall’emergenza profughi al futuro delle pensioni.

In apertura, Nicola Porro ha raccontato i retroscena della sua dipartita dalla RAI parlando di “mano forte della censura televisiva”. Con una versione “politically correct”, la RAI ha dato il benservito al giornalista motivando una volontà di “trovare nuovi linguaggi televisivi”. “in un contesto storico così delicato mi hanno voluto imbrigliare, togliere la possibilità di parlare dimostrando una debolezza politica scollegata alla realtà”, ha sottolineato Porro.

Numerosi i temi di grande attualità affrontati durante la serata. Dall’immigrazione, della quale Blasoni ha evidenziato i costi, 4 miliardi di cui soltanto 120 i milioni di aiuti provenienti dall’Europa, alla Brexit e le conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dallo scacchiere dell’UE. Continuando con il terrorismo per il quale Porro definisce “inaccettabile il senso di colpa occidentale” e le riforme costituzionali. Blasoni si è soffermato sulla presenza pervasiva dello Stato, definendo “troppo ampio il perimetro di azione” e ponendo l’accento sugli eccessi e sui difetti. Eccessi in quanto ”troppe persone vogliono vivere di politica”, difetti identificati nella “poca capacità degli amministratori”. Per Blasoni “bisogna ridurre la burocrazia e ridare speranza perché non sarà lo Stato a rilanciare il paese, ma le imprese”. Blasoni, imprenditore di prima generazione, in conclusione ha volutamente lanciato una provocazione: la proposta di una legge che preveda un’esperienza lavorativa di almeno 5 anni per accedere alle massime cariche politiche.

“ImpresaLavoro” è un centro studi di ispirazione liberale che promuove sul panorama nazionale studi e ricerche sui temi dell’economia e del lavoro. L’attività di ricerca è coordinata da un board scientifico presieduto dall’economista Giuseppe Pennisi, ex dirigente della Banca Mondiale e attuale consigliere del Cnel, e composto da Salvatore Zecchini (Presidente Commissione Ocse sulle Pmi), Luciano Pellicani (sociologo e professore alla LUISS) e Cesare Gottardo (professore di materie economiche). Recentemente il centro, che ha una sede anche a Roma, ha pubblicato il suo report annuale sulla Libertà Fiscale in Europa e un articolato rapporto sulla sanità digitale in Italia, realizzato in collaborazione con il Censis.

Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti

Fisco di massa, servono i controlli non gli accertamenti

di Mino Rossi

Gli incassi veri, in proporzione, sono da guardare al microscopio. Dal 2000 al 2015 l’Agenzia delle Entrate ha consegnato a Equitalia addebiti da riscuotere, gravanti su famiglie e imprese, per la cifra monstre di 795 miliardi di euro.

Tuttavia, dopo contenziosi, cartelle, pignoramenti e notifiche, la riscossione ha fruttato, in sedici anni, incassi pari a 35 miliardi (praticamente, il 4,4 per cento). Sono questi i dati recentemente diramati dalla Corte dei Conti (Rendiconto generale dello Stato per il 2015 del 23 giugno 2016 – volume I pagina 30, Tavola 1.7 – vedi qui).

Inoltre, la quota del “magazzino insoluti” che Equitalia stessa valuta come non più riscuotibile – a causa di pignoramenti andati a vuoto, sgravi, fallimenti, ditte cessate, nullatenenti, eccetera – ad oggi è pari a 694 miliardi (cifra che in futuro potrà ulteriormente aumentare). Il dato risulta a tabella 3 allegata al testo della Audizione del 9 febbraio 2016 presso la Commissione Finanze del Senato dell’amministratore delegato di Equitalia (vedi qui). Una cifra pazzesca, quindi! Destinare al macero quasi il 90% del carico iniziale da riscuotere significa che tutta la macchina del contrasto è tutt’altro che affidabile e gira a vuoto.

Inoltre, stando alle intenzioni trapelate di recente, in Equitalia non ci sarà nessuno che certifichi l’inesistenza, fra i crediti inesigibili cestinati, di soggetti in realtà ricchi e possidenti. E questo, soprattutto di fronte a una cifra così ingente, sarebbe un fatto assolutamente inammissibile.

E’ indubbio, tuttavia, che questi numeri incredibili sono la spia di una gravissima crisi di funzionamento di un sistema che già da un pezzo è oltre la soglia del collasso.

Una delle principali anomalie che sono alla base di tutto questo, è nel fatto che la macchina di contrasto all’evasione di massa, anziché dedicarsi ai controlli, soprattutto negli ultimi lustri si è concentrata solo sugli accertamenti, la maggior parte dei quali basati su cifre ipotetiche, per legge calcolate presuntivamente.

I due concetti, però (accertamento e controllo), non sono la stessa cosa. Per funzionare, sono indispensabili entrambe le fasi: il controllo che è attività contestuale (che sorveglia e previene), e l’accertamento che invece è attività postuma (che punisce e reprime).

Quando si dice “l’Agenzia delle Entrate ha fatto 302mila controlli” (è questo il dato 2015), non è vero. Si tratta di 302mila accertamenti, eseguiti, al contrario, in assenza di qualunque controllo “in flagrante”. E, per questo, strutturalmente inficiati, nella maggior parte dei casi, da un inconveniente non da poco. E cioè di essere un tantino approssimativi nel quantum (trattandosi di accertamenti presuntivi).

Il Fisco italiano, inoltre, è l’unico in cui la macchina di contrasto è fuorviata dalla ossessione diffusa – purtroppo ingannevole e anche assai controproducente per le casse erariali – dei cosiddetti recuperi da evasione. Destinando però agli accertamenti il cento per cento delle risorse dedicate, esso dimentica che siamo in un sistema basato sull’autotassazione, per cui il suo compito primo è solo di fare controlli (non incassi).

Dal punto di vista di chi presiede alla governance, peraltro, si può dire che il controllo è “fatica” (con pochi poteri), mentre l’accertamento è “potere”, potere di presumere, quando il Fisco non è stato in grado di provare la cifra evasa (ciò che avviene nella maggior parte dei casi).

La metafora del calcio può aiutare. Per far funzionare questo sport servono sì le squalifiche in differita e a tavolino (fase della repressione). Ma, prima ancora di questo, serve in campo un arbitro che faccia l’arbitro (fase della prevenzione). In altre parole, serve una persona che corre e suda dietro il pallone e che fotografa da due passi i fatti di gioco (dove i margini di discrezionalità sono minimi). Per poi trasferire questa fotografia nelle mani di colui che, in presenza di fatti gravi oggettivamente provati – deciderà chi e come squalificare (avvalendosi solo a questo punto – ma in via eccezionale – di poteri discrezionali praticamente illimitati).

Nel Fisco italiano, invece, succede da sempre che la partita si gioca senza arbitro. Il controllore (l’Agenzia delle Entrate) o non c’è proprio (97% dei casi), oppure, quando c’è (3%), osserva la partita lontano dal campo di gioco (il riferimento è agli accertamenti emessi in differita di alcuni anni). Eppure, non è difficile rendersi conto che quando non c’è nessuno che sorveglia, le partite (quasi tutte le partite) non possono che finire in rissa.

Ecco perché si può dire, fuor di metafora, che in un sistema così architettato l’aumento della evasione di massa è garantito a vita, essendo esso la precondizione necessaria senza la quale un meccanismo così non può esistere.

Nessuna ripresa con un fisco così duro

Nessuna ripresa con un fisco così duro

Una delle ragioni cruciali della nostra crisi (e della crisi europea in cui si colloca) va individuata nell’espansione del prelievo fiscale. Se non si riuscirà a invertire il processo in atto, questo crescente spostamento di risorse dal settore privato al settore pubblico è destinato a mettere in grave crisi l’intera società occidentale. Nel corso della storia sono numerose le società fallite a causa di una tassazione abnorme: deve allora farci riflettere il fatto che nel corso del ventesimo secolo, nonostante il massiccio ricorso all’indebitamento e all’espansione monetaria, la tassazione abbia raggiunto livelli sempre più alti e sia aumentata mediamente di cinque volte nella maggior parte dei Paesi occidentali.

Continua a leggere su Metro