Continuano a chiamarla competitività
Il Foglio
Dopo riunioni intense e lavori in notturna, è arrivato in Aula al Senato il decreto competitività su cui il governo ha posto la fiducia. Si tratta di un maxiemendamento che tocca gli argomenti più disparati, dall’Ilva all’anatocismo, dalle bollette ai debiti della Pa, il cui scopo è rilanciare la capacità di produrre ricchezza. Quanto però il paese sia resiliente al cambiamento e all’innovazione lo si vede non da ciò che nel decreto c’è ma da ciò che manca. Un esempio su tutti sono gli emendamenti bocciati in commissione che abbozzavano una leggera liberalizzazione nel settore del trasporto pubblico non di linea. Niente di rivoluzionario, solo la rimozione di qualche barriera anacronistica che differenzia il servizio taxi dal noleggio con conducente (Ncc). Non si tratta di ridisegnare il sistema sul modello di concorrenza assoluta perseguito da Trevis Kalanick, il fondatore di Uber che ama “distruggere i monopoli”, ma semplicemente, come ricorda in un recente studio sul tema l’Istituto Bruno Leoni, di seguire le proposte che da almeno un decennio segnala l’Antitrust: eliminare barriere all’ingresso, tariffe minime e distorsioni concorrenziali. «È necessario abolire gli elementi di discriminazione competitiva tra taxi e Ncc in una prospettiva di piena sostituibilità dei due servizi – scriveva pochi giorni fa l’Authority nella sua segnalazione annuale – anche in considerazione delle nuove possibilità offerte dall’innovazione tecnologica (leggi Uber, ndr) che consente un miglioramento dell’offerta in termini sia di qualità sia di prezzi». E invece si respinge l’innovazione e ignora la realtà. Pare il pensiero di un vecchio tassinaro.