concorrenza

Povera Italia, Paese senza mercato per Costituzione

Povera Italia, Paese senza mercato per Costituzione

di Massimo Blasoni – Il Giornale 

“Servizio pubblico” e “concorrenza”: due parole su cui molto si è detto nel nostro Paese. La prima viene declinata come un mantra ogniqualvolta la politica mette mano a settori cruciali: ad esempio trasporti, rifiuti, approvvigionamento idrico e informazione. Peccato che la loro gestione pubblica, utilissima ad assicurare riserve di voti clientelari, spesso risulti ben poco efficiente. Il fatto che alcuni servizi siano di interesse collettivo e vadano tutelati non significa che la loro concreta gestione debba essere per forza pubblica. L’unico risultato che conta è la soddisfazione del cliente del cittadino e non è frutto di un ordine necessario che lo stato debba gestire in prima persona acqua, istruzione o sanità; soprattutto se lo fa con risultati modesti quanto a qualità e costi. Meno Municipalizzate, consigli di amministrazione e partecipate talora inventate ad uso e consumo dei loro amministratori? È possibile: si, privatizzando i servizi e sottoponendo gli attori a rigorosi controlli. Se non lo si fa è solo perché non conviene a pochi e noti, ma così insistendo a pagarne il conto siamo noi tutti.

La seconda parola che non si riesce a inverare nella realtà italiana, “concorrenza”, a molti suona ancora come una bestemmia. Lo dimostra l’estenuante iter parlamentare del ddl che dovrebbe spezzare i lacci più robusti che imbrigliano molte attività economiche. Anche questa volta la montagna di emendamenti partorirà un innocuo topolino, incapace di rosicchiare incrostazioni corporative e rendite di posizione. Passano i decenni ma il riflesso del legislatore resta lo stesso, purtroppo. Lo dimostra l’ennesimo stop deciso dal Parlamento alla multinazionale Flixbus. Un’azienda innovativa che in pochi mesi ha creato in Italia centinaia di posti di lavoro e che si contende il mercato del trasporto su gomma offrendo un servizio di qualità e competitivo. Ha successo, i consumatori la premiano, vive di concorrenza. Andava quindi punita.

I governi non fabbricano soldi (al massimo si indebitano): a creare ricchezza sono le imprese private, che andrebbero lasciate libere di crescere e investire. Invece di assecondare chi rischia in proprio con norme chiare e ben mirate, la politica considera un suo diritto entrare a gamba tesa nell’attività di un’azienda e molto spesso decide sostituirsi ad essa. D’altronde lo stesso articolo 41 della Costituzione (“L’iniziativa economica privata è libera”) recita al terzo comma che: “La legge determina i programmi e i controlli (…) perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Un principio ideologico che, negando la molla del profitto, giustifica un esiziale eccesso di regole e burocrazia.

Legge concorrenza ancora in stand by: le lobby frenano

Legge concorrenza ancora in stand by: le lobby frenano

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Una legge attesa dal 2009 è ancora ferma ai box. Per la presentazione del provvedimento annuale sulla concorrenza, un obbligo che ricade sul governo fin dalla legge sviluppo 99/2009, non si possono presumere date senza rischiare di essere smentiti. Si sa di certo, però, che le lobby sono partite all’attacco già al solo comparire delle primissime bozze frutto del lavoro dei tecnici dei vari ministeri. Ormai da qualche mese un susseguirsi di dichiarazioni allarmate e proteste preventive arrivate ufficiosamente sui tavoli dell’esecutivo sta accompagnando silenziosamente – e probabilmente frenando – la stesura del disegno di legge. Gestori di carburanti, carrozzieri, avvocati, notai, farmacisti sono solo alcune delle categorie che potrebbero essere interessate dalla legge e le cui reazioni sono particolarmente considerate o in alcuni casi temute dall’esecutivo. Le bozze del testo, coordinato dal ministero dello Sviluppo economico, recepiscono molte delle indicazioni contenute nell’ultima relazione inviata dall’Antitrust a governo e Parlamento.

Messi insieme, se arrivassero al Consiglio dei ministri indenni di fronte alle pressioni delle lobby e superassero senza ripercussioni l’iter parlamentare, gli interventi di liberalizzazione dei mercati potrebbero rappresentare un pacchetto significativo perl a competitività favorendo anche l’afflusso di investimenti dall’estero. Nei giorni scorsi un gruppo di 9 senatori del Pd – il partito del premier – ha presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere una rapida redazione della legge, citando anche i richiami della Ue. In particolare, a giugno, nel documento di valutazione del Programma nazionale di riforma (Pnr) e del programma di stabilità 2014 dell’Italia, la Commissione europea, ricordando che il Pnr prevedeva l’adozione della legge annuale entro il settembre 2014, definiva il provvedimento «un importante passo avanti» che avrebbe messo «inoltre in moto un meccanismo positivo per il futuro».

Il lavoro tecnico procede. Ma per ora il governo sembra intenzionato a tenere un profilo basso, per non pubblicizzare troppo le misure e non accendere ulteriormente gli animi delle categorie interessate. Non si puo escludere dunque che, passata l’emergenza della legge di Stabilità, il disegno di legge venga varato a “sorpresa” da Palazzo Chigi. Sulla carta gli interventi esaminati, anche alla luce di segnalazioni di Authority diverse dall’Antitrust, coinvolgerebbero una ventina di settori. Ampio spazio viene dato all’Rc auto, con l’obiettivo di recuperare le norme di un precedente disegno di legge rimasto impantanato ma va fronteggiata l’opposizione dei carrozzieri alle nuove norme sui risarcimenti.I gestori dei carburanti frenano su misure per la liberalizzazione delle forme contrattuali che contrastino con il tavolo di lavoro avviato giada tempo con il ministero. Troppo «dirompente» poi, secondo ambienti di governo, l’idea pur valutata di trasformare l`attuale numero massimo di farmacie in numero minimo.

Delicatissimo anche il capitolo sulle professioni. Esaminato un pacchetto di ipotesi per aumentare la concorrenza tra i notai, anche con la previsione che ad ogni posto notarile corrisponda non «una popolazione di almeno 7mila abitanti» ma «una popolazione al massimo di 7mila abitanti». Ma l’esecutivo, nei documenti interni, non nasconde «la probabile opposizione dei notai», ipotizzando come alternativa un’autorizzazione agli avvocati perché svolgano compiti oggi riservati ai notai. Un altro tipo di considerazioni, invece, impatta sulla possibile deregulation nel settore postale (ad esempio con l’eliminazione della riserva postale sulle notifiche degli atti giudiziari). In questo caso, nelle valutazioni ministeriali, sono finiti i possibili «effetti e la compatibilità con l’operazione di privatizzazione» delle Poste.

La concorrenza che serve

La concorrenza che serve

Alessandro De Nicola – La Repubblica

Chi avesse seguito un po’ distrattamente la storia degli ultimi anni, sarebbe sorpreso di sentire quanto l’Italia sia bisognosa di liberalizzare l’economia. Ma come? Le norme europee, le authority, la legge antitrust, le lenzuolate di Bersani, le liberalizzazioni di Monti, i vari decreti Salva e Sblocca Italia: non ce n’è abbastanza? No, per niente. Soprattutto in tempi recenti la politica degli annunci ha sopravanzato le riforme concrete e le forze della reazione sono in agguato: basta vedere gli sforzi in Parlamento e nei consigli regionali per limitare gli orari di apertura degli esercizi commerciali.

Ecco perché è bene analizzare la prossima legge annuale sulla concorrenza, che dovrebbe recepire gran parte delle raccomandazioni difuse in luglio dall’Autorità Antitrust: da lì si potrà capire se il Paese è intenzionato ad uscire dalla palude burocratica e corporativa che ne ostacola la crescita. Dalle indiscrezioni che circolano si può dedurre che il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, intende mantenersi fedele ai suggerimenti dell’Autorità, non rinunciando ad aggiungerci del suo.

Vediamo di capirci qualcosa cominciando dalle professioni liberali, alcune delle quali, in particolare notai ed avvocati, hanno finora respinto i tentativi di cambiamento. In effetti il Mise fa buone proposte quali l’abolizione del divieto di ingresso di soci di capitali nelle associazioni professionali (legittimando anche quelle multidisciplinari), la possibilità per gli avvocati di partecipare a più studi legali, la rimozione della proibizione del patto di quota-lite. Altre richieste, quali la soppressione dei parametri di riferimento per determinare il compenso in caso di disaccordo col cliente, hanno vantaggi ma anche svantaggi, in quanto i parametri, se non obbligatori e solo residuali, abbattono i costi di transazione ed evitano disparità di valutazione a seconda del giudice competente.

Per i notai si vuole dare la possibilità agli avvocati di sopperire ad alcune delle funzioni dei primi. Ottima idea: per liberalizzare bisogna creare anche dei conflitti di interesse, anzi, allargherei pure ai commercialisti e ai magistrati in pensione la possibilità, ad esempio, di certificare la firma. Inoltre è giusto incoraggiare la concorrenza tra notari attraverso l’uso di pubblicità e procacciatori d’affari. Chi invoca inorridito la dignitas della professione si dimentica che nulla è più dignitoso che ampliare l’offerta e abbassare i premi per i clienti.

Bene anche l’abolizione del limite di titolarità di massimo 4 farmacie per soggetto: chi riuscirà a gestirne 20 o 40 porterà un beneficio ai consumatori. La sostituzione di un numero massimo di farmacie per area territoriale con un numero minimo, invece, non è convincente. La burocrazia non è in grado di programmare alcunché, quindi meglio lasciare libertà di apertura senza contingentamento e sarà il mercato a decidere. L’alternativa proposta dal Mise, vale a dire la possibilità di vendita di tutti i farmaci di fascia C in qualsiasi esercizio presidiato da un farmacista sembra preferibile. A completamento, l’eliminazione di alcuni passaggi burocratici per la commercializzazione dei farmaci generici va altresì nella giusta direzione.

Ma se questi appena citati sono interventi dovuti anche per il loro carattere simbolico, ve ne sono altri che potrebbero avere un impatto economico notevole. Mi riferisco alla riforma del sistema di accreditamento delle strutture private all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, eliminando il criterio di assegnazione del budget sulla base della spesa storica (che elimina ogni incentivo all’efficienza) e facilitando l’ingresso di nuovi operatori. Si introdurrebbe così una concorrenza virtuosa tra pubblico e privato lasciando a medici e pazienti la possibilità di scelta della struttura senza aggravi per loStato, grazie anche ad un sistema di trasparenza per la comparazione della performance dell’attività medica e della qualità del servizio erogato.

Ficcanti sono poi le proposte in tema di trasporto pubblico locale. Si favorisce l’ingresso di nuovi operatori persino in sovrapposizione alle linee già esistenti, liberandoli dal pagamento di oscure ‘compensazioni aggiuntive’ all’ente pubblico. Si vuole inoltre non solo abrogare la possibilità di affidamento diretto del servizio di trasporto locale. ma anche premiare le Regioni che procederanno a gare competitive. Infine, potenzialmente più esplosiva del Tfr, è la previsione della portabilità dei fondi pensione chiusi da parte del lavoratore, il quale sarebbe libero, nel caso in cui non fosse contento del rendimento, di spostare il patrimonio accumulato verso altri fondi più redditizi, chiusi o aperti. Questa riforma scardinerebbe rendite di posizione e farebbe fruttare meglio il denaro dei lavoratori.

Sono presenti altre proposte sulla separazione tra banche e fondazioni, sul governo societario delle banche popolari, sulla portabilità dei conti correnti, e sui contratti di assicurazione e di distribuzione del carburante. Una certa timidezza la si riserva alla liberalizzazione delle Poste e, benché sia spiegabile al fine di non ‘disturbare’ la privatizzazione, è secondo me un errore. Le eventuali conseguenze patrimoniali di una maggiore concorrenza verrebbero così scaricate sui risparmiatori e si ritarderebbero i benefici sistemici di un contesto più competitivo. Ciò detto, bisognerà seguire con attenzione l’evolversi della situazione: Lobby Continua è sempre occhiuta in questi casi e a volte il Ministero, con l’ansia di imporre la liberalizzazione, introduce solo nuova regolamentazone. Insomma, speriamo sulla determinazione del governo, ma contiamo sulla vigilanza dell’opinione pubblica.

Continuano a chiamarla competitività

Continuano a chiamarla competitività

Il Foglio

Dopo riunioni intense e lavori in notturna, è arrivato in Aula al Senato il decreto competitività su cui il governo ha posto la fiducia. Si tratta di un maxiemendamento che tocca gli argomenti più disparati, dall’Ilva all’anatocismo, dalle bollette ai debiti della Pa, il cui scopo è rilanciare la capacità di produrre ricchezza. Quanto però il paese sia resiliente al cambiamento e all’innovazione lo si vede non da ciò che nel decreto c’è ma da ciò che manca. Un esempio su tutti sono gli emendamenti bocciati in commissione che abbozzavano una leggera liberalizzazione nel settore del trasporto pubblico non di linea. Niente di rivoluzionario, solo la rimozione di qualche barriera anacronistica che differenzia il servizio taxi dal noleggio con conducente (Ncc). Non si tratta di ridisegnare il sistema sul modello di concorrenza assoluta perseguito da Trevis Kalanick, il fondatore di Uber che ama “distruggere i monopoli”, ma semplicemente, come ricorda in un recente studio sul tema l’Istituto Bruno Leoni, di seguire le proposte che da almeno un decennio segnala l’Antitrust: eliminare barriere all’ingresso, tariffe minime e distorsioni concorrenziali. «È necessario abolire gli elementi di discriminazione competitiva tra taxi e Ncc in una prospettiva di piena sostituibilità dei due servizi – scriveva pochi giorni fa l’Authority nella sua segnalazione annuale – anche in considerazione delle nuove possibilità offerte dall’innovazione tecnologica (leggi Uber, ndr) che consente un miglioramento dell’offerta in termini sia di qualità sia di prezzi». E invece si respinge l’innovazione e ignora la realtà. Pare il pensiero di un vecchio tassinaro.

Il supplizio di Italo

Il supplizio di Italo

Il Foglio

Antonello Perricone, presidente della società privata che gestisce Italo, treno ad alta velocità, è un manager a cui certamente non mancano grande garbo e grande equilibrio. Ma l’altra sera, dopo aver ascoltato la relazione annuale dell’Autorità dei trasporti, ricca di buoni propositi e di puntuali raccomandazioni al governo, ha abbandonato per un momento il suo tradizionale aplomb e ha dettato alle agenzie di stampa una dichiarazione durissima: «A parole, in sede elettorale, tutti sono sempre a favore della concorrenza, quando però occorre dimostrarlo nei fatti arrivano i problemi». Un richiamo pesantissimo non tanto all’Authority appena istituita ma a quanti nelle istituzioni dovrebbero garantire libertà di impresa e di mercato. E come dargli torto?

La storia di Ntv, società che vede tra i principali azionisti Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, è la storia di una lotta impari tra la concorrenza e il monopolio, tra chi ha investito un miliardo di euro per creare una nuova occasione di sviluppo e di occupazione e chi invece vuole mantenere le cose come stanno, senza nulla rischiare e nulla creare, tanto i cittadini non hanno scelta e se i bilanci traballano c’è sempre una misericordiosa mano pubblica pronta a tappare buchi e voragini, a ripianare deficit e storture.

La storia di Ntv, di fatto, è la storia di un supplizio. In due anni di vita, anziché ricevere agevolazioni e incoraggiamenti, i treni nati per sfidare sul mercato le Frecce rosse hanno dovuto superare ostacoli addirittura grotteschi, come il cancello della stazione Ostiense con il quale le Ferrovie dello Stato impedivano ai passeggeri in partenza da Roma di raggiungere i convogli targati Italo. Uno stillicidio di norme controvento che purtroppo non accenna a fermarsi. Anzi. L’ultima pena è legata all’aumento della bolletta elettrica, previsto dall’articolo 29 del decreto sulla competitività. Un aggravio di 1,20 euro per ogni chilometro percorso che, fatti i dovuti calcoli, significa per Italo una batosta pari a 20 milioni di euro l’anno. Un colpo alla nuca per la società e per gli oltre mille giovani che in questa impresa hanno trovato lavoro. Perricone non ha dubbi: se la norma non cambia, il governo di Matteo Renzi «si assume una responsabilità gravissima: cambiare, in corsa e in peggio, le regole del gioco e aprire le porte al ritorno di una situazione di monopolio». Un pessimo esempio per tutti quegli investitori stranieri ai quali chiediamo continuamente di considerare l’Italia un paese moderno, agile e produttivo.