Così la pressione fiscale brucerà l’ossigeno di Draghi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Senza una riduzione delle tasse il bazooka anticrisi di Mario Draghi sparerà a salve. È questo il senso di un’analisi condotta dal Centro studi Unimpresa sulla base della Nota di aggiornamento al Def. Il peso delle imposte sulle famiglie e imprese italiane tra il 2014 e il 2018 è atteso attestarsi sempre su una quota superiore al 43% del Pil, un valore decisamente incompatibile con qualsiasi prospettiva di rilancio.

Nei cinque anni dell’orizzonte previsionale del governo Renzi, l’aumento delle entrate tributarie dovrebbe attestarsi a oltre 45,7 miliardi di euro, portando il totale cumulato sopra i 2.540 miliardi. Quest’anno la pressione fiscale dovrebbe attestarsi al 43,4% del Pil (43,5% nel 2014) per raggiungere il picco del 43,6% l’anno prossimo, vista la scadenza delle clausole di salvaguardia su Iva e accise. Per poi registrare una impalpabile diminuzione: 43,3% nel 2017 e 43,2% nel 2018. Anche i valori assoluti fanno paura: la soglia dei 500 miliardi di entrate fiscali sarà avvicinata quest’anno (493,8 miliardi) per essere superata nel 2016 (508 miliardi). «La sola immissione di nuovo denaro in circolazione con il quantitative easing della Bce – spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi – non può bastare a superare la dura recessione dalla quale non si riesce a uscire». Parole da Cassandra? Volontà di smorzare l’ottimismo del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ieri, intervistato da Repubblica , ha preannunciato una revisione al rialzo delle stime di crescita del Pil 2015? Nulla di tutto questo.

I 1.140 miliardi che la Bce dovrebbe immettere nell’economia di Eurolandia da marzo fino a settembre 2016 avranno, infatti, un impatto limitato sull’economia reale. Confindustria ha accolto la misura positivamente e vede addirittura un incremento del Pil italiano dell’1,8% nel biennio 2015-2016. Gli economisti di Société Générale sono stati più prudenti e credono che quei mille miliardi potranno avere un impatto compreso tra lo 0,2% e lo 0,8% annuo, direttamente proporzionale ala maggiore inflazione che si dovrebbe creare. L’inflazione rende l’ambiente più favorevole a chi si indebita, mentre il quantitative easing contribuisce a mantenere basso il livello dei tassi di interesse, garantendo un flusso continuo di denaro verso gli operatori finanziari. Se a questo si aggiunge il deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, si può osservare il quadro economico con maggiore serenità.

Il problema è che per sfruttare i vantaggi offerti da una maggiore offerta di moneta (quella immessa dalla Bce con gli acquisti di titoli di Stato) bisogna essere nelle condizioni di potersi indebitare, ossia disporre di almeno un patrimonio minimo da rischiare. Ed è quello che in molti casi manca, perché la pressione fiscale mangia via le disponibilità residue di famiglie e imprese. Quello che ha scritto ieri Renato Brunetta nel suo intervento sul Giornale è solo la logica conseguenza di questo stato di cose: senza una «riduzione delle tasse, soprattutto sulla casa, e una liberalizzazione del mercato del lavoro» sarà difficile se non impossibile che lo stimolo di Mario Draghi si trasmetta all’economia reale. Molto più facile, di questo passo, che il prossimo futuro sia costituito da banche con i bilanci in ordine con poche richieste di prestiti da parte di aziende e cittadini. Cosa volete che cambi per il signor Rossi che vede il suo reddito annuo lordo di 24.500 euro ridursi a soli 11.929 euro, dopo tutte le tasse che è costretto pagare, che oggi il denaro costa zero? Come può pensare di investire odi consumare di più se deve barcamenarsi con 990 euro ogni mese? Renzi dovrà per forza tenerne conto.