La crescita che non c’è
Giuseppe Turani – La Nazione
I senza lavoro sono tantissimi: più del 12 per cento in totale e più del 43 per cento fra i giovani. E già questa è una situazione drammatica. Ma bisogna aggiungere due altre considerazioni. In realtà i senza lavoro sono molti di più perché molti sono così scoraggiati che non lo cercano nemmeno più e provano ad arrangiarsi in qualche modo. La seconda considerazione viene dal Cnel che prima di chiudere i battenti ha avuto uno slancio di sincerità: è possibile che non si torni mai più ai livelli di occupazione che avevamo prima della crisi con meno del 7 per cento di disoccupati. Questa cupa previsione, purtroppo, non è campata per aria. In questo paese la crescita non c’è e non ci sarà ancora per lungo tempo, se non cambia davvero qualcosa (ma che cosa?).
Allo stato attuale dell’arte (si diceva una volta) la situazione è questa: da qui al 2017 si crescerà in media dello 0,4 per cento l’anno, dal 2018 al 2022 la crescita sara dell’l,2 per cento (previsioni Oxford Economics). Nel 2022, data molto lontana, i senza lavoro in Italia saranno ancora poco meno del 10 per cento. D’altra parte questa previsione non deve stupire. C’è talmente poca crescita che è impossibile immaginare una forte ripresa dell’occupazione. Se la gente gente non consuma e se le aziende non sanno a chi vendere i loro prodotti e i loro servizi, perché mai dovrebbero assumere delle altre persone, oltre a quelle che hanno già? Una volta si sosteneva che per avere un aumento dei posti di lavoro bisognava puntare su una crescita almeno del 3 per cento. Ma qui siamo lontanissimi da questo traguardo. Da qui al 2022 non c’è un solo anno in cui sia previsto di andare non al 3 per cento, ma almeno all’1,5, cioè la metà: siamo sempre poco al di sopra dell’1 per cento o poco al di sotto.
La conclusione alla quale si arriva (che poi è la stessa del Cnel) è che in Italia la disoccupazione è ormai diventata un fatto strutturale, cioè stabile, come il Colosseo e la buona cucina. Siamo un paese bloccato. Anche facendo tutte le cose giuste e per benino, più in là di tanto non andiamo. Servirebbe una vera rivoluzione: via tre quarti della burocrazia e briglie molto lunghe sul collo delle imprese purché si diano da fare. Una rivoluzione, insomma. Invece siamo qui impantanati nella discussione attorno a un’anticaglia come l’articolo 18, come se fosse il confine fra il bene e il male. Il male, invece, è molto più vasto: è in un paese bloccato per sua stessa scelta.