Se per alcuni anni sono sembrati rappresentare anche in Italia una novità di successo e un movimento con il veto in poppa, da tempo gli ecologisti sono in crisi di prospettive e visibilità. In sostanza, quel che resta del movimento verde fa ormai da stampella alla sinistra di Niki Vendola, ma in una posizione sostanzialmente subordinata.
L’eclisse dei verdi come partito, però, non sembra essere accompagnata da un accantonamento della loro ideologia, che anzi è stata abbracciata un po’ da tutti: a destra come a sinistra. Il guaio è che lo statalismo ecologista non rappresenta una risposta adeguata dinanzi alle difficoltà su cui richiama l’attenzione e anzi, in molti casi – anche al di là delle intenzioni – esso finisce perfino per aggravare i problemi.
Si tratta allora di immaginare un altro ambientalismo; ed è interessante rilevare come nel corso degli ultimi quindici anni l’editoria italiana abbia iniziato a dare spazio a quell’ecologia di mercato che affronta quei temi senza sacrificare la libertà individuale e il progresso economico sull’altare di una presunta sacralità della natura.
La prima cosa che uscì fu una piccola antologia, curata da Guglielmo Piombini e dal sottoscritto (Privatizziamo il chiaro di luna!, pubblicata nel 2001 da Leonardo Facco Editore), ma in seguito questa biblioteca controcorrente si è allargata sempre più. Un volume di straordinario interesse che da alcuni anni è pure disponibile in italiano è quello scritto dagli americani Terry L. Anderson e Donald R. Leal: L’ecologia di mercato. Una via liberale alla tutela dell’ambiente (edito nel 2008 da Lindau). Impegnati nell’applicazione di soluzioni innovative ai problemi ambientali, gli autori si focalizzano sulla necessità di definire e proteggere titoli di proprietà commerciabili. La tesi di Anderson e Leal è che se l’ambiente è di tutti (e quindi di nessuno), mancheranno gli incentivi a prendersene cura. I due studiosi non si limitano allora a mostrare i fallimenti dell’ecologismo, ma al tempo stesso sottolineano l’esigenza di responsabilizzare sempre più i comportamenti dei singoli, usando la proprietà per proteggere la natura stessa. La ricerca illustra molti casi concreti all’interno dei quali si è adottata una logica imprenditoriale ed è proprio dall’esame di queste esperienze che l’ecologia di mercato si rivela uno strumento fondamentale.
Per un lungo periodo, però, anni, la letteratura liberale sull’ambiente si è mossa soprattutto sulla difensiva: cercando di limitare le conseguenze più nefaste di una propaganda basata su nozioni equivoche come “sviluppo sostenibile”, “diritti delle generazioni future” e “principio di precauzione”. Lo stesso volume del danese Bjørn Lomborg (L’ambientalista scettico, pubblicato da Mondadori nel 2010) ha rappresentato più una dura requisitoria verso ogni allarmismo ingiustificato che non una proposta alternativa.
Lo studio di Anderson e Leal ci dice invece che oggi è possibile essere propositivi anche in questioni che fino a poco fa erano veri e propri tabù. La situazione sta insomma iniziando a mutare, a riprova che si più imbrogliare molta gente per un breve periodo di tempo, e anche un piccolo gruppo di persone per molto tempo, ma è difficile che una serie di sciocchezze vengano accettate da un gran numero di persone e per molti anni.
In questo senso va segnalato anche il volume di Henry I. Miller e Gregory Conko, Il cibo di Frankenstein. La rivoluzione biotecnologica tra politica e protesta (edito sempre da Lindau e pubblicato nel 2008), in cui i due studiosi dissolvono i pregiudizi che ostacolano l’utilizzo delle biotecnologie in ambito agricolo, impedendoci di trarre beneficio dall’innovazione. Gli autori mostrano quale intreccio di interessi sia schierato a difesa di una demonizzazione (specialmente europea) che frena la ricerca, mantiene alti i prezzi e obbliga a utilizzare ampie estensioni. Quest’ultimo punto è interessante perché rileva come in questo caso – come già nella vicenda della mucca pazza, del bioetanolo, del Ddt e in altri casi simili – siano state proprio le tesi ecologiste a causare problemi rilevanti alla salute e allo stesso rapporto tra uomo e natura.
Anche sulle questioni energetiche sono ormai le prospettive liberali a rivelarsi meglio in grado di affrontare il futuro. Evidenziando che non saranno il solare o l’eolico a risolvere i nostri problemi, un esperto di questioni energetiche quale Carlo Stagnaro – direttore del dipartimento Energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni – nel 2005 aveva curato un volume (Più energia per tutti. Perché la concorrenza funziona, edito da Leonardo Facco) nel quale aveva mostrato come più competizione in tale settore significhi una maggiore efficienza per l’economia nel suo insieme: e come per questo sia necessario non già moltiplicare i vincoli, ma invece rimuovere le barriere all’ingresso, alleggerire la regolamentazione, evitare una tassazione discriminatoria delle fonti.
Qualche anno dopo Stagnaro – che da qualche mese è consulente del ministro Guidi – è tornato su tale problema con una corposa ricerca, nella quale ha coinvolto un gran numero di esperti. Intitolato Sicurezza energetica. Petrolio e gas tra mercato, ambiente e geopolitica (edito da Rubbettino) lo studio ha analizzato i problemi dell’energia attraverso tre principali fattori: le politiche economiche, le politiche ambientali e la politica internazionale. Ne è derivata una proposta che è un mix di fiducia nella razionalità umana, difesa del mercato, riduzione dei conflitti internazionali (grazie a relazioni politiche improntate alla negoziazione e agli scambi).
“Pace e commercio” era la divisa dei liberali fin nell’Amsterdam secentesca, ma può essere uno slogan efficace ancora oggi per affrontare con realismo questioni su cui gli ecologisti verde-rossi hanno davvero ben poco da dire.