Figli e figliastri delle rigidità
Danilo Taino – Corriere della Sera
La decisione annunciata ieri da Parigi, unilateralmente, di volere ritardare di altri due anni il rientro del suo deficit pubblico nei limiti stabiliti dai patti europei è un passaggio destinato a testare la solidarietà tra i 18 partner dell’eurozona. A verificare la tolleranza reciproca che ancora esiste tra i Paesi al cuore della moneta unica, innanzitutto la Germania, e i cosiddetti periferici, tra i quali l’Italia e sempre più la Francia. Sarà una navigazione burrascosa. Già ieri, Angela Merkel ha ribadito che non ci può essere crescita senza conti pubblici in ordine: si può prevedere che la posizione di Berlino – ripresa poi a Bruxelles – nei prossimi giorni sarà anche più netta. Ciò nonostante, questa può essere l’occasione per introdurre una nuova dinamica nella gestione della crisi.
Le regole europee di stabilità sono importantissime, ma non possono diventare il feticcio contro il quale schiantare l’eurozona se non si trova un punto di mediazione tra chi non lo sopporta e chi lo difende. Ed è la storia stessa dell’euro a indicare metodo e contenuto dell’approccio che Bruxelles e le capitali nazionali possono seguire per affrontare il momento critico di un’area in semi-recessione e vicina alla deflazione. Tra il 2003 e il 2004, proprio Germania e Francia decisero di non rispettare gli impegni presi con il Trattato di Maastricht sui loro deficit: segno che possono esserci passaggi economici e politici che in casi eccezionali spingono in quella direzione. E ciò che valse per due capitali dai muscoli robusti non può non valere oggi per altri se ciò ha una giustificazione. Berlino, però, usò lo spazio di bilancio conquistato per rendere meno dolorose le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, che in quegli anni realizzò; Parigi non fece alcuna riforma strutturale.
Una lettura dei patti europei flessibile per quel che riguarda i tempi in cui rispettarli potrebbe dunque avere un senso se legata a impegni precisi, contratti stipulati a Bruxelles tra Paesi, sulle riforme da fare ai livelli nazionali. Un piano riformista europeo vincolante, approvato e monitorato da Bruxelles – come immaginato dal presidente della Bce Mario Draghi – in cambio di flessibilità è un’ipotesi che potrebbe evitare una scissione verticale all’interno dell’eurozona, la rottura ufficiale dell’asse Berlino-Parigi e vedere un ruolo attivo di Paesi come l’Italia che hanno bisogno sia di riforme sia di manovrare un po’ il bilancio. Fatti salvi i vincoli europei, che se venissero ripudiati creerebbero – come ha avvertito Draghi – sfiducia diffusa nei mercati e nell’economia.
Il passaggio è stretto, la crisi è diventata del tutto politica e mette in difficoltà domestiche il presidente francese Hollande come la cancelliera Merkel. Se la situazione sfuggisse di mano, la stessa Bce finirebbe stretta tra veti nazionali incrociati, impossibilitata a realizzare le iniziative di stimolo che ha annunciato nelle settimane scorse. Chiamata forte per i leader europei.