Solo i fatti salvano l’Europa
Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore
In Europa la ripresa non si vede, 27 milioni di disoccupati, invece, sì. Tutte le grandi aree del mondo crescono. Tutte, tranne l’eurozona dove negli ultimi 7 anni gli investimenti sono crollati del 20%. Le previsioni di Bruxelles dicono che nel prossimo decennio la crescita europea media sarà la metà di quella americana: non supererà l’1%. Se questo è vero e, se è vero come è vero che per esempio la sostenibilità del debito italiano passa per un tasso di sviluppo minimo del 2,6%, la vera malattia da curare si chiama sviluppo. La diagnosi è chiara, la terapia meno.
A Milano però i ministri delle Finanze Ue hanno provato a elaborarne una in tre mosse: la politica monetaria, misuratamente espansiva, è essenziale ma non basta. Ci vuole una corretta politica fiscale che permetta di scavare negli spazi flessibili del patto di stabilità senza minarne la credibilità. E ci vogliono le riforme strutturali per rimuovere tutti gli impedimenti che, ostruendo i canali dello sviluppo, scoraggiano il flusso dei capitali interni ed esteri. Messo così, il nuovo teorema europeo dello sviluppo suona bene. Tanto più che presto potrebbe avere il sostegno di un articolato piano di investimenti da circa 300 miliardi: ci lavoreranno da domani Commissione Ue e Banca europea degli investimenti. Per approntare una proposta entro l’anno.
Tante le idee da esplorare. Ma con un distinguo, avverte il commissario Ue Jyrki Katainen: quei 300 miliardi verranno per una quota dai mercati ma per il resto non saranno denaro fresco ma riciclato dai fondi esistenti nel bilancio europeo. Minimi o nulli i contribuiti dei bilanci nazionali perché tutti poveri di risorse, escluso quello tedesco che pare orientato però più a risparmiare che a spendere, nonostante i reiterati appelli di Bruxelles ai paesi in surplus perché investano a sostegno della domanda europea. La liquidità privata invece abbonda anche se, in assenza di riforme, è restia a scommettere su un pianeta sclerotico, poco coeso e strutturalmente poco competitivo. Allora vera svolta a Milano? Il sostanziale immobilismo sugli investimenti comuni non è estraneo alla stagnazione europea. Nella convinzione che solo le riforme strutturali siano il vero volano di una crescita sana e duratura, sia pure con ricadute positive dopo 3-4 anni dalla loro attuazione. Domanda: può l’Europa continuare a convivere ancora tanto a lungo con l’emergenza crescita e disoccupazione facendo al tempo stesso riforme costose per i Governi e i cittadini coinvolti? Finora la risposta dell’ortodossia tedesco-nordica è stata sì per due motivi: la radicata (anche se spesso motivata) sfiducia tra gli Stati membri e tra questi e le istituzioni Ue. La clamorosa mancanza, 7 anni dopo lo scoppio della crisi dell’euro, di una diagnosi comune della crisi e quindi dei rimedi da adottare, cioè di una politica economica condivisa. Il nocciolo dell’equazione impossibile è stato tutto qui.Lo conferma la cronaca recente. Di fronte alle omissioni riformiste di Francia e Italia, la Germania tira dritto: pretende il rispetto dei patti di stabilità e ostenta i dividendi delle sue virtù, a cominciare dal doppio surplus di bilancio e dei conti correnti, che accumula e non redistribuisce perché convinta che sarebbe denaro sprecato, peggio, incentivo ai soliti noti a non fare le riforme. I paesi del sud che hanno già fatto sacrifici pesantissimi e cominciano a raccogliere qualche frutto, Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, a loro volta non sono disposti a vedere risparmiato ad altri il loro calvario. Obtorto collo, l’Italia si adegua, anche perché la dimensione del suo iper-debito non le consente di fare altrimenti. E perché le riforme sono nel conclamato interesse nazionale prima che europeo. La Francia invece a parole ripete che rispetterà le regole, nei fatti le viola e mette l’eurozona di fronte al fatto compiuto. Dietro gli opposti estremismi in campo ci sono non solo divergenti interpretazioni delle ragioni della crisi e delle strade per uscirne. C’è una percezione diversa degli interessi comuni, la stanchezza diffusa verso una Europa avvertita dagli uni come gelido riformatorio, dagli altri come un insensato “bancomat” a disposizione di chi non sta ai patti. Con la Francia di Hollande che ha il paese contro e il consenso al 13%, sono politicamente fattibili riforme notoriamente impopolari e che comunque daranno benefici solo nel medio termine? Davvero la Germania e l’Europa possono correre il rischio di portare Marine Le Pen e il suo Front Nazional al Governo? I dilemmi di Matteo Renzi sono un po’ diversi ma i tempi di attuazione delle sue riforme rischiano di non coincidere con le tabelle di marcia del calendario europeo. Anche la Germania oggi ha bisogno di più crescita, compresa quella degli altri europei. Urge dunque un esercizio di moderazione e di buon senso generale. La svolta di Milano sugli investimenti, ammesso che alla fine non si riveli l’ennesima delusione di una lunga serie, potrebbe esserne il segnale. Anche se, per riconciliare davvero l’Europa restituendole la crescita insieme a un sentimento di fiducia reciproca, di strada da fare e di ostacoli da superare ne restano ancora molti. Forse troppi.