Se Berlino approva investimenti «con rigore»

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

Esce la Commissione di José Manuel Barroso, entra quella di Jean-Claude Juncker. Due ex primi ministri, due popolari, uno portoghese, l’altro lussemburghese. Il cambio della guardia si celebrerà il 1° novembre. Sarà vera svolta? È il grande interrogativo che pesa sul nuovo quinquennio europeo che va a incominciare e alla vigilia di un nuovo vertice Ue che domani e venerdì a Bruxelles, nel mezzo di una congiuntura sempre più negativa, dovrebbe parlare di crescita e investimenti e invece quasi certamente ripiegherà sui soliti mantra del rigore e delle riforme strutturali, dei patti di stabilità quali veri e unici motori di uno sviluppo sano.

Da anni la chiave di tutte le scelte europee sta a Berlino dove regna Angela Merkel, la cui proverbiale cautela è sempre più condizionata da destra, da Alternativa per la Germania che erode ai fianchi la Cdu-Csu, invece che dai socialisti della Spd, i suoi partner nel governo di grande coalizione. A favorirne una benefica sterzata di sicuro non aiuta l’incomunicabilità crescente con la Francia di François Hollande, che sfida apertamente le regole Ue pur professando al contempo il proposito di rispettarle… con il tempo. Né aiuta l’altrettanto crescente divaricazione del credo e delle ambizioni di popolari e socialisti, i due maggiori partiti europei, alfieri gli uni di un’assertiva politica di risanamento e modernizzazione dei vari sistemi-Paese e gli altri di un grande piano europeo di investimenti capace di rimettere in moto crescita e occupazione, come complemento indispensabile della dottrina dei sacrifici e delle riforme.

La plateale cacofonia programmatica tra i due fronti, che del resto ricalca quella franco-tedesca, alla lunga rischia non solo di far saltare la grande coalizione che oggi governa anche l’Europarlamento ma di mettere alle corde la nuova Commissione Juncker e i suoi margini di mediazione in casa e fuori. Il tutto in un clima di ambiguità fatto apposta per aumentare la confusione sugli obiettivi condivisi e paralizzare una macchina decisionale già molto complessa. Del resto quando, per superare l’esame delle audizioni parlamentari, il socialista francese Pierre Moscovici, nuovo commissario agli Affari economici, invece di difendere, alla luce dei guasti indotti dall’austerità eccessiva, in modo forte e chiaro l’urgenza dello sviluppo nell’interesse collettivo e della tenuta dell’euro, ha preferito dissimulare le sue convinzioni facendo il “tedesco” tutto d’un pezzo, come sperare in un’Europa diversa e migliore?

Nel grande malessere che contrassegna il principio del nuovo quinquennio c’è però anche dell’altro. C’è l’ignavia di Francia e Italia, seconda e terza economia dell’euro: non brillano per coerenza e serietà nel rispetto di regole e impegni europei eppure non esitano a contestarli in nome della causa giusta della crescita, che però diventa inevitabilmente meno giusta alla luce delle rispettive e incontestabili inadempienze. C’è la sfiducia della Germania circa le reali intenzioni dei suoi maggiori partner, tanto profonda da indurla al pareggio di bilancio nel 2015 invece di rilanciare domanda e investimenti: prima di tutto nell’interesse della sua economia che frena in modo sempre più allarmante. E poi nel suo ricorrente auspicio di una politica monetaria della Bce meno sensibile ai problemi del Sud e più favorevole agli interessi tedeschi, per esempio a ritrovare tassi di interesse più remunerativi per il risparmio di una popolazione che invecchia. C’è infine la stanchezza tra i tradizionali alleati di ferro di Berlino, come Austria, Finlandia, Olanda e Belgio, che pur non misconoscendo, al contrario, il valore aggiunto di conti in ordine e riforme, invocano con insistenza una spinta a crescita e occupazione. «La sollecitazione di Bruxelles a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015 è un’opinione interessante che non condividiamo. La frugalità è una cosa buona ma l’austerità non serve per stimolare l’economia» ha dichiarato il cancelliere austriaco Werner Faymann. Insomma il rigore va bene ma non al punto di fermare gli investimenti necessari alla ripresa.

Nel suo testardo rifiuto di una politica espansiva che altro non sia che il meritato premio di sacrifici, cure dimagranti e riforme, la Germania appare autolesionista e sempre più isolata, con il solo conforto di Paesi come Portogallo, Spagna, Irlanda che sono passati e usciti dal calvario della troika e ora pretendono che a nessuno sia risparmiato. Il prossimo giudizio sulle varie leggi di bilancio nazionali appena consegnate a Bruxelles, il modo con cui sarà reso e articolato dirà molto presto se in Europa esiste ancora e fino a che punto lo spazio per venirsi incontro, per arrivare a ragionevoli compromessi. Al momento appare molto stretto. Strappare però la corda tra gli opposti estremismi in campo, rischiare la rottura con la Francia equivarrebbe a un salto nel buio. Il cancelliere Helmut Kohl amava ripetere al presidente francese François Mitterrand: «Per fare una buona politica europea devo prima vincere le elezioni». Angela Merkel ne ha già vinte tre ma ancora non ci riesce. Forse non ha la stoffa né il coraggio dei grandi leader.