La vera sfida è costruire un patto sociale europeo

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Tra Francia e Germania vogliamo stabilire rapporti su una base completamente nuova, orientare quello che ci divideva, le industrie belliche, verso un progetto comune a beneficio dell’Europa, che così ritroverà nel mondo il ruolo eminente che i confitti interni le hanno fatto perdere. È una proposta politica e morale che vorremmo realizzare senza preoccuparci delle difficoltà tecniche». Questo disse a Bonn, in un mattino di giugno del ’50, Jean Monnet, un francese piccolo piccolo al gigantesco e incredulo cancelliere tedesco, un uomo e un paese feriti, isolati, umiliati. «Aspettavo da 25 anni questa iniziativa» gli rispose dopo un lungo silenzio Konrad Adenauer, «ma per realizzare una tale impresa non è la responsabilità tecnica da sollecitare ma quella morale verso i nostri popoli». L’Europa nacque da qui, da un sogno scandalosamente anticonformista, da un coraggio politico tanto scorretto da immaginare e proporre l’inimmaginabile: la riconciliazione tra nemici irriducibili, implacabili.

La profonda crisi di fiducia che tormenta da troppo tempo l’eurozona deprimendone i prezzi e l’economia, l’incomunicabilità quasi stagna che accompagna il dialogo o meglio i soliloqui dei suoi leader, evocano quei lontani tempi bui e impongono la necessità di un’analoga rottura con la storia, i dogmatismi, il pensiero unico dominante. Urge un nuovo patto di riconciliazione, un nuovo contratto sociale europeo. Oggi sul campo non ci sono 40 milioni di morti da seppellire ma 26 milioni di disoccupati di scarsissime speranze: pesano entrambi sulla coscienza dell’Europa che non può diventare il continente senza futuro del mondo globale. È troppo facile recriminare in uno sterile gioco di scambi di accuse e colpe reciproche. È difficile ricostruire le basi di una sana convivenza europea.

Non c’è dubbio che Francia e Italia abbiano sprecato i tempi della vacche grasse per rimettere in ordine i loro conti e fare le riforme strutturali indispensabili per modernizzare e flessibilizzare le rispettive economie. Non c’è dubbio che la levata di scudi pubblica e unilaterale di Parigi, il gran rifiuto di rispettare le regole anti-deficit, siano sentiti come un tradimento e una provocazione a Berlino dove la Merkel e la sua Cdu-Csu devono fare i conti con il partito anti-euro che ne erode i fianchi. Non c’è però dubbio che la sfida di Francois Hollande, più che una prova di forza, il sonoro requiem sull’asse franco-tedesco peraltro moribondo da tempo, sia un atto di suprema debolezza, di impotenza e di disperazione politica da parte di un presidente con la popolarità al 13% e il Front National in testa ai sondaggi. Non c’è nemmeno dubbio sul fatto che anche i patti europei si logorino, invecchino. Nel mondo globale che cambia a ritmi quasi istantanei, vent’anni sono un’eternità. Quando a Maastricht si fissò al 3% del Pil il tetto del deficit, la crescita media europea nel decennio precedente era stata del 4-5%: a quel ritmo si calcolava che gli squilibri nei conti si sarebbero progressivamente riassorbiti da soli.

Quando di recente gli accordi Ue sono stati rinnovati e rafforzati, si è lavorato sul presupposto di una crescita media del 2% e su un’inflazione della stessa percentuale. Quest’anno si arriverà a malapena e forse all’1%. Le previsioni di Bruxelles per il prossimo decennio parlano di una crescita media intorno all’1% annuo, meno della metà di quella americana. Per i prezzi è deflazione. Riforme o no, rispetto o no delle regole, in questo panorama la stabilità finanziaria diventa una chimera, perlomeno a breve. È una questione meccanica: non politica né economica. Costringere oggi all’impossibile i paesi ritardatari in nome della credibilità dei patti europei di fronte ai mercati, più che rafforzarla rischia di frantumarla del tutto. Un conto infatti è strapazzare la Grecia, 2% del Pil dell’eurozona, un altro è minacciare di fare lo stesso con ben oltre un terzo di quello stesso Pil. Nemmeno la Germania rispetta in toto le regole europee. Per Il surplus dei suoi conti correnti, oltre 400 miliardi pari a più del 6% massimo previsto dai patti europei, è già stata richiamata all’ordine da Bruxelles. Finora senza risultati. Anche la Germania, secondo vari studi tedeschi, deve mettere in cantiere nuove riforme e grandi investimenti in reti e innovazione per tenere il passo con la competitività globale e ritrovare un robusto ritmo di sviluppo.

Oggi crescita e investimenti – quelli veri e non i 300 miliardi del piano Juncker tutti da verificare – sono dunque nell’interesse generale: una boccata d’ossigeno creerebbe un ambiente più propizio a riforme e sacrifici e darebbe un’immagine dell’Europa meno arcigna e indifferente ai problemi quotidiani della gente. Ma nel clima di diffidenze profonde e diffuse, un patto europeo per lo sviluppo oggi richiede un gesto di lungimiranza economica e un atto di temerarietà politica che nessuno in Europa sembra in grado di fare. Un quinquennio di crisi ha dimostrato che la Germania riesce a superare i propri tabù soltanto quando arriva sull’orlo dell’abisso. È successo con il salvataggio della Grecia però al prezzo, avendo tirato troppo in lungo, di seminare il contagio in tutta l’area euro. Un gioco simile con Francia e Italia sarebbe letale per l’euro e per tutti. L’Europa è nata dalla volontà di riconciliazione nell’assoluzione reciproca. Davvero i terribili misfatti di allora erano meno gravi degli attuali e davvero l’Europa non merita di ritrovare la pace con se stessa?