L’articolo 18 è un simbolo da abrogare: non crea occupazione
Fabrizio Rondolino – Europa
L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori va abrogato non perché la sua eliminazione basterà da sola a riformare un mercato del lavoro nemico dei lavoratori, e neppure perché creerà magicamente nuova occupazione (l’occupazione la creano le imprese, non i governi o le leggi). L’articolo 18 va abrogato perché è un simbolo: delle diseguaglianze del mondo del lavoro e dello strapotere di una burocrazia sindacale interessata all’autoconservazione. È per questo che Matteo Renzi non intende recedere e, se necessario, farà un decreto, ed è per questo che Susanna Camusso estrae aglio e crocifisso e lo accusa nientemeno che di avere in mente la Thatcher (come se fosse un insulto).
Nella prospettiva dei mille giorni – e non c’è motivo di dubitare che il presidente del consiglio preferisca la certezza del governo all’incertezza di una nuova campagna elettorale – Renzi ha bisogno, preliminarmente, di sottrarre il potere di veto alle corporazioni più forti. Per fare le riforme radicali che le classi dirigenti passate hanno sempre promesso e mai realizzato, non c’è bisogno soltanto di una maggioranza parlamentare coesa e di una pubblica amministrazione efficiente: è altresì necessario che i gruppi di potere non legittimati dal voto rientrino nell’alveo loro proprio. Che è quello della rappresentanza legittima di interessi particolari, non della cogestione feudale della cosa pubblica. La magistratura è uno di questi poteri. Il sindacato un altro. I dipendenti a tempo indeterminato che godono della protezione dell’articolo 18 (perché le loro imprese hanno più di 15 impiegati) sono circa 6,5 milioni. I lavoratori in Italia sono 22,5 milioni, cui se ne aggiungono almeno altri tre in nero. Dunque l’articolo 18 protegge soltanto un quarto dei lavoratori, e nessun disoccupato: non è un diritto, ma un privilegio.
Se la Cgil sceglie la strada del muro contro muro, non è perché abbia a cuore gli interessi dei lavoratori – i quali da tempo, con l’eccezione dei metalmeccanici e del pubblico impiego, non sono più rappresentati da nessuno – né tantomeno perché voglia creare nuova occupazione. L’interesse dominante della Cgil – l’unico che ne definisca oggi la ragione sociale – è conservare un potere di veto, di condizionamento e di ricatto a spese dei lavoratori. La visione del mondo della Cgil prevede un padrone cattivo, un dipendente sempre e comunque intoccabile e uno Stato grande elemosiniere: non c’è merito, non c’è qualità, non c’è libertà d’impresa, non c’è valore del lavoro. Ci sono invece molte tasse, burocrazie immense, sprechi e clientelismi, consociazione e stagnazione.
Questa visione del mondo è oggi intollerabile: perché è sbagliata, perché è profondamente ingiusta, e perché sono finiti tanto i soldi quanto i posti di lavoro. La pretesa della Cgil (e della minoranza del Pd, che ancora una volta cede al richiamo della foresta) di difendere e conservare la stratificazione castale e l’ingiustizia stridente del sistema che ha soffocato il Paese, è un ostacolo oggettivo alla ripresa economica. E come tale va rimosso. La Cgil forse non se ne è accorta, ma l’Italia si sta giocando l’osso del collo: e non può essere una burocrazia sindacale a bloccare il paese.
Proprio perché si combatte intorno ad un simbolo, la battaglia contro l’articolo 18 è politicamente cruciale. Perché ridimensiona lo strapotere sindacale, chiude una volta per tutte la partita truccata della concertazione, e rovescia le priorità: non più gli apparati e il posto fisso, ma i lavoratori e il lavoro. È un peccato che in questo scontro la Cgil scelga la trincea della conservazione e del privilegio: perderà la battaglia e anche la guerra, e a rifare il sindacato dovrà pensarci qualcun altro.