La riforma necessaria
Giuseppe Turani – La Nazione
Se il lavoro manca, e ne manca tantissimo, la colpa non è di Renzi e nemmeno di quelli che l’hanno preceduto negli anni scorsi (Monti e Letta). La mancanza di lavoro ha due padri precisi. Il primo è la Grande Crisi che dal 2008 ha colpito l’economia internazionale e che ha portato l’Italia a perdere, come reddito pro-capite, un terzo di quello che aveva nel 2007. Di fronte a una botta così grande, è evidente che i famosi 80 euro rappresentano soltanto un risarcimento parziale. D’altra parte per ridare agli italiani quel terzo di reddito che hanno perso nella crisi ci vuole altro che qualche decreto governativo. Ci vorranno almeno dieci anni di buona crescita, ammesso che si riesca a farli. Ma poi c’è un secondo padre dei tantissimi disoccupati. È un padre collettivo. Si tratta di tutti quelli che facevano parte della classe dirigente negli ultimi trent’anni: sono loro che hanno consentito lo scempio del bilancio pubblico e la trasformazione dello Stato in una sorta di opera pia di prebende, stipendi, pensioni, rendite, enti inutili e tutto il resto. Fino a portarci oltre i due mila miliardi di euro di debiti. Si dirà: ma allora il colpevole è certamente Berlusconi. Calma. Berlusconi ha le sue colpe, ma anche tutti gli altri non possono andare in giro a testa alta.
Io non ho mai visto la signora Camusso o il compagno D’Alema sfilare in piazza contro l’eccesso di spesa pubblica. Anzi, sono lì che ne chiedono altra anche adesso (con quanto buonsenso lascio immaginare). Ma è proprio questa montagna di debiti che ha impedito all’Italia di mettere in campo misure di sostegno e di rilancio dell’economia. Siamo qui, bloccati in mezzo al guado, assistiamo impotenti al crescere della disoccupazione, perché non abbiamo un soldo: siamo ricchi solo di debiti. Oggi abbiamo tanti disoccupati, per essere sbrigativi, perché la generazione precedente è stata un fallimento totale: ha scambiato, a destra come a sinistra, consenso politico con spesa pubblica, e lo ha fatto per vent’anni, o trenta, di fila. Avrebbero ammazzato un elefante, non solo un Paese gentile come l’Italia. Adesso siamo a una prima resa dei conti. Renzi vuole cambiare il diritto del lavoro e contro di lui è schierata tutta la generazione che ha fallito. Il nostro diritto del lavoro ha mezzo secolo e, attraverso stratificazioni successive, è diventato un tale caos che l’unica cosa da fare è quella di abolirlo totalmente e scrivere un testo nuovo.
La Cgil e i suoi amici dentro il Pd hanno deciso di fare barricate sull’articolo 18. Segno che non hanno molto da dire sulla riforma del lavoro. Si aggrappano all’articolo 18 perché pensano che sia un tema popolare e di sicuro effetto: impedire ai padroni di licenziare. Ma vari sondaggi hanno già spiegato che a due terzi degli italiani dell’articolo 18 non importa nulla. È una garanzia in più per quelli che comunque un lavoro (e a tempo indeterminato) lo hanno. Ma qui il problema è di chi un lavoro non lo ha mai visto. Ancora una volta, cioè, una certa sinistra difende il proprio orticello e lascia gli altri (i piu sfortunati) sotto la pioggia e la neve.
Ma perché l’articolo 18 non può restare? Intanto perché è appunto la barricata di quelli che sbagliano. Inoltre una cosa è chiara: il nuovo modello di mercato del lavoro deve avere alla sua base la massima flessibilità in entrata e in uscita dalle aziende, prevedendo le giuste ricompense e la giusta assistenza per chi perde il lavoro (e il reddito). Ma diciamo basta ad anni di aule giudiziarie per chi vuole liberarsi di un dipendente incapace o lavativo.