Matita blu per il professor Giavazzi
Il Foglio
Non è vero che il Jobs Act, con la norma sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ingessa il mercato del lavoro, come sostiene Francesco Giavazzi in un editoriale del Corriere della Sera di domenica scorsa. Se fosse vera la tesi dell’economista del quotidiano di via Solferino, la norma del Jobs Act sarebbe una trappola e una scatola quasi vuota, anche se stabilisce che il lavoratore dipendente, con i nuovi contratti di lavoro, potrà esser licenziato per motivi economici con una indennità che cresce nel tempo (mentre, per i licenziamenti disciplinari, il reintegro varrà solo in casi speciali). Infatti, argomenta il professor Giavazzi, in Italia ogni anno ci sono 1,5 milioni di nuovi contratti a tempo indeterminato. Essendo i lavoratori a tempo indeterminato 14,5 milioni, se il totale di addetti con questo contratto non varia, ogni anno se ne rinnova un 10 per cento.
Giavazzi ne desume che annualmente un lavoratore a tempo indeterminato su 10 si sposta dalla propria azienda a un’altra con un nuovo contratto dello stesso tipo; poiché l’articolo 18 non varrà più per i nuovi contratti, gran parte di questi addetti non vorrà spostarsi e la rigidità del lavoro, col Jobs Act, aumenterà. Ma non è vero che, con occupazione invariata, ci sono solo spostamenti da un’azienda all’altra (Giavazzi non ricorda, per esempio, che una parte degli occupati va in pensione). Ipotizzando anzianità medie di 35 anni, ogni anno si liberano 438 mila posti a tempo indeterminato, circa il 3 per cento. In 4 anni se ne rinnova il 12 per cento. Inoltre non è vero che il cambiamento di contratto implichi il cambiamento di impresa. Molte volte si tratta di un’altra azienda della stessa impresa e di un diverso tipo di occupazione con un altro contratto di categoria (“chimico” anziché “tessile”, “commerciale” anziché “industriale”, “specializzato” anziché “operaio”).
Il senatore Pietro Ichino, tra i padri della nuova legge, risponde a Giavazzi che già ora queste mobilità vengono attuate evitando le perdite di diritti del precedente contratto, come l’anzianità acquisita, i bonus e gli incentivi precedenti. Sicché non ci saranno ostacoli alla mobilita. Il professor Giavazzi obietta che ciò vuol dire che per gran parte dei contratti rimane l’articolo 18. Ma si sbaglia anche in questo. In primo luogo perché con le clausole indicate dal professor Ichino, il lavoratore monetizza il reintegro al posto di lavoro rinunciandovi in cambio di benefici economici. E, soprattutto, il licenziamento disciplinare d’ora in poi sarà possibile, salvo “casi speciali”. Non è una rivoluzione del mercato del lavoro, ossia una macelleria sociale in tempo di crisi. Ma una incisiva riforma strutturale. Si chiama riformismo.