Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano, più a torto che a ragione, sembrava aver perduto agli occhi dei governanti e dell’opinione pubblica gran parte di virulenza ed attenzione. Fino a qualche giorno fa, se se ne parlava, era per la questione degli “esodati”, per i quali si cerca di trovare un avvicinamento alla pensione che costi poco alle casse dello Stato. Improvvisamente, dal 30 aprile la situazione è cambiata con la dichiarazione di incostituzionalità del congelamento dell’adeguamento all’inflazione dei trattamenti medi ed alti. Il Governo, dopo aver dichiarato col DEF e successivamente che non era intenzionato a intervenire, ora è costretto a reperire circa 17 miliardi (1% PIL al lordo della tassazione di ritorno) per coprire il nuovo buco di bilancio. Non si tratta soltanto di corrispondere quanto non versato, ma di evitare che negli anni avvenire la curva di proiezione della spesa pensionistica in rapporto al PIL si innalzi, compromettendo gli sforzi fatti per abbassarla nell’ultimo decennio. Visto che un nuovo aumento del peso del fisco è insostenibile, è quindi probabile che sarà necessaria una nuova riforma di sistema con tagli di spesa.
Perché i conti della previdenza non erano più visti come un problema tale da richiedere nuove, tempestive riforme? A parte le considerazioni di opportunità elettorale, la risposta sta negli esercizi di simulazione della spesa pensionistica fino al 2060 effettuati dalla Ragioneria Generale e confermati nel DEF 2015. Ne risulta che in rapporto al PIL la spesa, dopo aver raggiunto l’apice del 15,9% nel 2014, dovrebbe scendere al 15,8% quest’anno e continuare a flettere fino al 15,4% del 2019. Queste previsioni di sostenibilità del sistema non sembravano del tutto irrealistiche, pur scontando alcune ipotesi su cui è ragionevole nutrire dubbi. In particolare, una crescita reale di medio periodo del 1,5% annuo, un tasso d’occupazione di circa 10 punti percentuali più elevato che nel 2010, e un tasso d’incremento della produttività dell’1,5% annuo.
Sempre prima della sentenza della Consulta, la RGS riteneva che il rapporto Spesa pensionistica/PIL avrebbe continuato a scendere fino al 15% a circa il 2030 a causa dell’innalzamento dell’età minima di accesso alla pensione e dell’applicazione parziale del metodo contributivo, per poi risalire fino al 15,5% nel 2044 per effetto dell’aumento del rapporto pensionati/occupati, e successivamente ridiscendere fino al 13,7% nel 2060 a seguito dell’estesa applicazione del sistema contributivo e della riduzione del rapporto pensionati/occupati. Questi risultati ovviamente sono attesi se le regole del sistema rimangono stabili nel tempo, ma è evidente che il sistema non è stabile, perché è sotto il costante assedio di una massa di lavoratori che vedono come scopo principale della loro vita lavorativa quello di andare in pensione a spese di quanti restano a lavorare. Un chiaro esempio di parassitismo sociale!
Ma questo non è il solo motivo per preoccuparsi degli effetti del sistema attuale, perché ve ne sono altri ben più pressanti:
L’impatto negativo del sistema pensionistico attuale sulla capacità di crescita dell’economia;
le iniquità intragenerazionali ed intergenerazionali;
il disincentivo implicito nel sistema nei confronti della previdenza complementare e l’alimentare distorsioni nella società verso un modello tendente all’inattività.
Ciascuno di questi punti richiede un breve commento per concludere con l’indicazione di qualche orientamento a cui dovrebbe ispirarsi il governante saggio.
Una spesa pensionistica nell’ordine del 15,5% del PIL può apparire sostenibile, ma è superiore di circa 3,5 punti alla media dell’eurozona, e lo è ancor più se il confronto è fatto con le economie più dinamiche dell’area OCSE. L’incidenza sul PIL risulta di circa 1 punto percentuale superiore a quella della Francia, di oltre 4 punti alla Germania e di 9 punti al UK. Questa forte incidenza si riflette in un prelievo per contributi sulle remunerazioni che dovrebbero andare ai lavoratori pari al 33%, mentre la media OCSE è del 19,6%. Questa imposizione inoltre grava per 23,8 punti percentuali sul datore di lavoro, appesantendo il costo del lavoro e scoraggiando la domanda di lavoro, con conseguenze negative sul tasso di disoccupazione e sulla propensione ad investire nel Paese.
Appare altresì sproporzionato che questa spesa assorba attualmente il 34% della spesa pubblica primaria, percentuale che dovrebbe salire al 35,6% nel 2019.
Nondimeno non è solo la sproporzione, ma le iniquità del sistema che lo dovrebbero rendere poco accettabile ai lavoratori delle ultime generazioni. Mentre costoro si vedono sottrarre il 33% del loro reddito per sostenere i pensionati, il loro titolo alla pensione rappresentato dal tasso di sostituzione netto è destinato a scendere, ad esempio per un lavoratore dipendente, dall’83,2% nel 2010 al 77,3% nel 2020 e al 71,4 nel 2040. Queste percentuali peraltro nascondono la pochezza degli importi risultanti in valore assoluto, dato che esse si applicano a retribuzioni che tendono a crescere poco, che si collocano su livelli inferiori mediamente a quelli dei maggiori paesi UE, e che non si riferiscono a carriere di lavoro spezzettate. Le attese sono peggiori per chi lavora ad intermittenza, in quanto non può sperare di ricevere una pensione consistente nella vecchiaia, a meno che accetti di lavorare più a lungo o abbia goduto di retribuzioni medio-alte.
L’iniquità intergenerazionale del sistema pensionistico attuale si può cogliere anche sotto un altro profilo. Secondo le stime dell’OCSE, in media la ricchezza pensionistica netta data dal cumulo delle pensioni riferite all’arco di vita al netto delle imposte sulle pensioni stesse supera il salario medio annuale lordo di 9,5 volte per gli uomini e di 10,8 volte per le donne (contro 8,1 e 9,3 volte rispettivamente nella media OCSE). Questa ricchezza viene coperta dai contributi versati annualmente da chi resta al lavoro, oltre che dalle imposte.
L’iniquità non è soltanto intergenerazionale ma anche intragenerazionale. Tra i pensionati attuali sussiste infatti un’ampia differenziazione quanto al rapporto tra l’ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa e il totale dei redditi da pensione durante la vita residua. Per una fascia abbastanza ampia, l’ammontare del trattamenti supera ampiamente il montante contributivo, sempre che si applichi interamente il sistema contributivo in vigore per il calcolo delle pensioni. Ne sono esempi i trattamenti accordati ai rappresentanti politici, ai ferrovieri e ad alcune categorie con fondi speciali. Questo squilibrio, contrariamente a un’opinione diffusa, non è impossibile da misurare, considerato che i dati sono disponibili dagli anni 90, mentre per i due decenni precedenti si conoscono le aliquote contributive e si possono ricostruire le retribuzioni a cui andavano applicate.
Il disincentivo al risparmio previdenziale complementare è un altro degli effetti deplorevoli del sistema. Per quanti possono contare su uno stabile lavoro remunerato mediamente, dato l’alto tasso di sostituzione, l’incentivo a risparmiare per crearsi una previdenza complementare si riduce significativamente. Solo con l’abbassamento del tasso di sostituzione e con il lavoro precario, o le retribuzioni relativamente basse l’incentivo aumenta, ma questi sono casi in cui le possibilità di risparmio sono ridotte. Non deve quindi sorprendere che solo 6,2 milioni di lavoratori su 22,2 milioni aderiscono alla previdenza complementare. Questa è anche penalizzata dal Quantitative Easing della BCE, che ha polverizzato i rendimenti obbligazionari, e dall’incremento della tassazione sui rendimenti.
Su questo sfondo è evidente che il Governo non ha scelta migliore che intervenire con l’ennesima riforma al fine di smorzare la dinamica della spesa pensionistica in rapporto al PIL e al totale della spesa pubblica, ridurre le iniquità e favorire la previdenza complementare. La motivazione principale è che per stimolare la crescita occorre anche ridurre la tassazione e potenziare le risorse per gli investimenti. In quest’azione il vincolo da tenere presente è la ricerca di una maggiore equità sia intergenerazionale che intragenerazionale.
Traducendo questi principi in poche parole, significa ridurre al tempo stesso i trattamenti a tutti i pensionati, facendo alcune distinzioni, e i prelievi contributivi per lasciare più risorse per investimenti, salari e future generazioni.
Nella riduzione dei trattamenti, non appare equo tendere a perequare tagliando genericamente tutte le pensioni medie ed alte. La pensione, infatti, rappresenta, anche per la Consulta, reddito differito del lavoratore, ovvero risparmio forzoso accumulato per fini previdenziali a copertura di consumi differiti al tempo in cui il lavoratore rimane inattivo per motivi di età o altra valida inabilità. Manovre di redistribuzione fatte con le risorse pensionistiche e non con le imposte sono la negazione del principio di previdenza. Si ritiene, invece, che il Governo debba usare come metro dei tagli la differenza esistente tra il montante dei contributi versati dal soggetto e quello delle pensioni che gli vengono corrisposte nell’intero arco della vita residua. È proprio su coloro che godono maggiormente di questa eccedenza che dovrebbero incidere i tagli che sono necessari per finanziare una nuova azione di stimolo alla crescita del Paese.