Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Roberto Giovannini – La Stampa

«L’articolo 18? Stiamo discutendo di un tema che riguarda 3mila persone l’anno in un Paese che ha 60 milioni di abitanti», ha detto nei giorni scorsi il premier Matteo Renzi. Si sbaglia: secondo i dati ufficiali del ministero del Lavoro, solo nel gennaio-giugno 2014 ha riguardato 8537 persone. Potrebbero essere 15-16 mila per l’intero anno in corso.

Pochi, tanti? Noi abbiamo cercato di rispondere alla seguente domanda: quante persone vengono effettivamente licenziate per «giustificato motivo oggettivo» (sono i cosiddetti «licenziamenti economici» di cui si sta discutendo) nelle aziende con oltre 15 dipendenti? La risposta esatta a questa domanda è impossibile darla, per una serie di paradossi legislativi, amministrativi e statistici. Consultando gli unici dati disponibili, quelli del ministero del Lavoro, possiamo dire soltanto che dall’agosto del 2012 (data di entrata in vigore della riforma Fornero del mercato del lavoro) fino al giugno 2014, 39.405 lavoratori sono passati per i meccanismi giudiziari previsti dalla legge. Tanti sono i lavoratori che hanno ricevuto la comunicazione del loro datore di lavoro di volerli licenziare. Non siamo in grado di dire esattamente quanti di costoro abbiano perso il posto: ragionevolmente, si può stimare che almeno tre su quattro (dunque 30 mila circa) alla fine abbiano lasciato la vecchia azienda in cambio di una somma di danaro.

Facciamo un passo indietro. La riforma Fornero del 2012 ha già intaccato in modo significativo l’articolo 18, rendendo possibile (ad alcune condizioni) il licenziamento individuale in una azienda con più di 15 dipendenti. Ricordiamo anche che il licenziamento senza reintegro è possibile anche per «giusta causa» (se il dipendente ruba) e per «giustificato motivo soggettivo (se non lavora). E ci sono i licenziamenti collettivi in caso di crisi aziendale. Quando un datore di lavoro vuole fare un «licenziamento economico», in base alla legge deve avviare una procedura obbligatoria di conciliazione presso la direzione provinciale del Lavoro. Se l’ufficio non risponde in sette giorni il licenziamento è valido (è successo a 490 persone nel primo semestre 2014). Questo tentativo di conciliazione può sfociare in una causa giudiziaria se le parti non si mettono d’accordo (2563 su 8047 sempre nel primo semestre). Oppure in un accordo (4310 situazioni): il lavoratore accetta dei soldi e se ne va (la stragrande maggioranza dei casi) o l’azienda rinuncia al licenziamento (solo 428 casi). In conclusione, certamente degli 8537 lavoratori «pre-licenziati» nei primi sei mesi dell’anno, 4372 hanno finito per perdere il posto. A parte 1174 casi indicati misteriosamente come «altro», del destino dei 2563 andati in tribunale non sapremo mai esattamente nulla. Perché, come spiegano gli esperti, per una strana dimenticanza non è stato assegnato un «codice amministrativo» a questo tipo di cause. Che dunque non sono rilevate statisticamente. Secondo le rilevazioni della Cgil, considerate attendibili, nel 2013 nell’80-90% il giudice avrebbe dato ragione al lavoratore, reintegrandolo nel posto di lavoro. Ma due terzi dei lavoratori reintegrati avrebbe scelto comunque di lasciare il vecchio posto in cambio di un’indennità, maggiore di quella che avrebbe spuntato inizialmente.

Gli scarni dati disponibili consentono di sviluppare alcune considerazioni. Si conferma che in testa alla classifica delle «comunicazioni obbligatorie» ci sono le Regioni dove maggiore è l’attività economica, come la Lombardia, il Lazio e il Veneto. Come fa notare l’ex sindacalista e parlamentare Giuliano Cazzola – sulla base di un recentissimo documento dell’Isfol – «appena approvata la riforma Fornero c’è stata da parte dei datori di lavoro più fortemente motivati a licenziare una immediata attivazione. Questo, insieme alla forte crisi congiunturale a cavallo tra 2012 e inizio 2013, ha fatto sì che inizialmente i numeri dei licenziamenti economici siano stati più importanti».

Alla fine quasi 40 mila casi di avviato licenziamento nelle imprese con più di 15 dipendenti in 24 mesi (se il trend sarà costante, potrebbero essere 17 mila nel 2014) non sono obiettivamente moltissimi. Ma neanche così pochi, dicono in casa Cgil. Primo, perché non sarà mai possibile misurare (finiranno nell’elenco delle «dimissioni volontarie») tutte le situazioni in cui il lavoratore, informato più o meno garbatamente della volontà del suo datore di lavoro di licenziarlo in cambio di soldi, accetta l’assegno e si licenzia. Dunque, dicono i sindacalisti, anche con l’articolo 18 riveduto e corretto da Elsa Fornero, i licenziamenti individuali con indennizzo (tra quelli «nascosti» e quelli ufficializzati con la comunicazione) esistono eccome. Togliere il potere deterrente dell’articolo 18 servirà solo a diminuire l’importo dell’assegno per il lavoratore che perde il suo impiego. E a favorire la cacciata dalle aziende dei lavoratori che verranno considerati, caso per caso, «problematici».