Per crescere concentriamo le risorse

Luca Ricolfi – La Stampa

Sulle ragioni per cui l’Italia, quale che sia la congiuntura economica, cresce meno della maggior parte delle altre economie avanzate, il consenso è relativamente ampio. Nessuno nega che vi sia una carenza di domanda effettiva (calo dei consumi, investimenti insufficienti). Nessuno nega che la pressione fiscale sui produttori (Irap, Ires, contributi sociali) soffochi l’economia. Nessuno nega che non aver fatto le riforme modernizzatrici (mercato del lavoro, giustizia civile, pubblica amministrazione) ci stia costando carissimo. Dove cominciano i dissensi è sulle terapie, ossia sul modo di rispondere alla crisi. Qui non mi riferisco, però, alle decine di teorie che circolano fra gli esperti, ma solo a quelle che hanno una plausibilità economico-politica, e inoltre non si basano su ipotetici aiuti esterni (tipo eurobond, interventi della Bce, eccetera). Ebbene, se ci limitiamo alle teorie realistiche, a me pare che esse si riducano a tre.

La prima è la teoria dello «stimolo». Secondo questo punto di vista, l’economia non si può riprendere senza uno stimolo di almeno 30 miliardi di euro (2 punti di Pil), tendenzialmente sotto forma di riduzioni fiscali alle famiglie e alle imprese. Tali riduzioni andrebbero finanziate in deficit, promettendo all’Europa (e ai mercati finanziari) di fare le riforme e ridurre la spesa pubblica negli anni a venire. La formulazione più chiara ed esplicita di questo punto di vista mi pare quella degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che l’hanno ribadita più volte in varie sedi.

La seconda teoria potremmo chiamarla del «passo dopo passo». Secondo questa visione, se l’Italia dovesse promettere riduzioni della spesa pubblica e riforme strutturali non verrebbe creduta né dai partner europei, né dai mercati finanziari. E se provasse a sostenere la domanda aumentando il deficit dal 3 al 4 o al 5%, verrebbe immediatamente castigata dai mercati finanziari, con conseguente impennata dello spread. Quindi l’unica cosa che si può fare è galleggiare per qualche anno intorno al 3% di deficit pubblico, e nel frattempo cambiare la composizione della domanda, riducendo simultaneamente e gradualmente sia la spesa pubblica sia la pressione fiscale. Questa, nella sostanza, è la posizione del governo e del suo ministro dell’Economia. La formulazione più chiara di questa posizione mi pare quella dovuta all’economista Roberto Perotti (collaboratore del governo), che l’ha recentemente esposta in un bell’articolo sulla rivista on line Lavoce.info.

C’è però anche un terzo modo di vedere le cose, che chiamerò «concentrare le risorse». Secondo questo punto di vista è vero che la teoria dello stimolo non fa i conti con la diffidenza dei mercati finanziari verso l’Italia, ma è altrettanto vero che la linea del passo dopo passo è troppo debole e troppo lenta. È molto improbabile che le riduzioni effettive della spesa pubblica superino gli 8-10 miliardi l’anno, e a questo ritmo sarà già un miracolo se Renzi riuscirà a rinnovare il bonus da 80 euro e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali. Di qui l’idea di non disperdere gli sgravi in mille rivoli. Anziché uno stillicidio di alleggerimenti fiscali o contributivi di cui nessuno si accorge, meglio concentrare le risorse sui settori più dinamici dell’economia italiana, aiutandoli ad aumentare l’occupazione, la competitività, o entrambe. È questa, ad esempio, l’idea lanciata da Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, nell’intervista di ieri a questo giornale, in cui invita Renzi a varare «un provvedimento molto forte di sgravio fiscale per le aziende che nell’ultimo anno sono cresciute nelle esportazioni». Anche se la proposta Farinetti è spudoratamente pro domo sua, perché la catena di vendita dei prodotti Eataly sarebbe fra le prime a beneficiarne, credo che l’idea andrebbe considerata molto seriamente (il fatto che una proposta giovi anche a chi la fa non implica che sia insensata). Quando le risorse sono molto scarse può essere assai miope spalmarle su tutti, anziché indirizzarle verso quei settori o quelle imprese che meglio possono contribuire a far uscire la barca dell’Italia dalle secche in cui si è incagliata. Semmai la domanda è: uscire sì, ma come?

Qui le risposte possono essere almeno due. Se si ritiene che le risorse disponibili vadano usate innanzitutto per aumentare la competitività dell’Italia, l’idea di Farinetti è ottima. Se invece si ritiene che vadano usate per sostenere l’occupazione, la strada potrebbe essere decisamente diversa: anziché sostenere le imprese che nell’ultimo anno (in passato) hanno aumentato il fatturato delle esportazioni, si dovrebbero premiare le imprese che nel prossimo anno (in futuro) aumenteranno il numero di occupati.

Questo secondo modo di concentrare le risorse a me sembra più utile all’Italia, almeno finché la situazione dell’occupazione resterà drammatica come oggi. Come Stampa e come Fondazione David Hume da alcuni mesi, insieme ad altre istituzioni, stiamo lavorando su una proposta che va in questa direzione (nuovi posti di lavoro), e inoltre ha il vantaggio di aumentare il gettito della Pubblica Amministrazione anziché ridurlo. La prossima settimana, su questo giornale, racconteremo di che cosa si tratta.