Perché la Grecia può farci male
Emiliano Brancaccio e Gennaro Zezza – Il Mattino
Non si può dire che tra il 2010 e il 2014 la Grecia non abbia «fatto i compiti» assegnati dalla Troika. La pressione fiscale è cresciuta di cinque punti percentuali rispetto al Pil, la spesa pubblica è diminuita di un quarto e i salari monetari sono caduti di venti punti percentuali. La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia e avrebbero rilanciato la competitività. Ma le sue previsioni sull’andamento del Pil greco sono state ripetutamente smentite: in Grecia il crollo della produzione ha fatto registrare un divario rispetto alle stime di Bruxelles che talvolta ha oltrepassato l’imbarazzante cifra di sette punti di Pil. Anche sul versante della competitività, nonostante l’abbattimento dei salari e dei costi, i risultati sono stati diversi dalle attese: il saldo verso l’estero è migliorato, ma molto più per il tonfo del reddito e delle importazioni che per una ripresa dell’export. Né si può dire che le politiche indicate dalla Troika abbiano stabilizzato i bilanci: il deficit pubblico è stato faticosamente ridotto ma la caduta della produzione ha implicato un’esplosione del rapporto tra debito pubblico e Pil di trenta punti percentuali.
Il caso greco, si badi bene, è estremo ma non costituisce affatto un’eccezione. Esso rappresenta la più chiara conferma della previsione del «monito degli economisti» (www.theeconomistswarning.com) pubblicato nel settembre 2013 sul Financial Times: anziché stabilizzare l’eurozona, le attuali politiche europee alimentano una deflazione da debiti, accentuano i divari tra paesi del Nord e del Sud Europa e in prospettiva affossano le probabilità di sopravvivenza dell’Unione monetaria. Molti commentatori ritengono però che un ritorno alla dracma avrebbe ripercussioni ancor più pesanti sull’economia greca. L’ implicazione che ne traggono è che il nuovo governo guidato da Alexis Tsipras non ha alternative: dopo la passerella in Europa e gli incontri con Renzi e Juncker, alla fine il premier greco dovrà accontentarsi delle modeste concessioni sul debito che Bruxelles sarà disposta a offrire.
Ma è proprio vero che la Grecia non ha carte da giocare? In realtà la letteratura scientifica sui costi e benefici di un eventuale abbandono dell’euro fornisce risultati controversi. Il punto su cui gli economisti concordano è che il successo o il fallimento di un ritorno alla moneta nazionale dipenderebbero in ultima istanza dalla capacità o meno della Grecia di rilanciare la domanda e la produzione interna tenendo in equilibrio il saldo delle importazioni e delle esportazioni verso l’estero. Se riuscisse a controllare il saldo estero, la Grecia ridurrebbe la sua dipendenza dai prestiti internazionali e avrebbe quindi una chance in più per gestire la difficile transizione. Il problema è che la crisi ha distrutto una parte importante della base produttiva del paese, per cui un eventuale stimolo alla domanda di beni rischia di determinare un forte aumento delle importazioni e del deficit estero. Spunti interessanti, a tale riguardo, si possono trarre dal modello per l’economia greca elaborato dal Levy Economics Institute (www.levy.org), che ha dato prova di buone capacità di previsione rispetto alle stime delle principali istituzioni internazionali. Il modello mostra che l’attuale miglioramento del conto estero già fornisce spazi di manovra per una politica espansiva. Entro i vincoli di bilancio europei, tuttavia, lo stimolo sarebbe insufficiente a risollevare il Pil e l’occupazione in modo apprezzabile.
Si consideri allora l’ipotesi che in assenza di un sostegno europeo al rilancio dell’economia ellenica, nel 2015 la Grecia attui un default del debito e un ritorno alla dracma, e adotti una politica di bilancio espansiva fino a 10 miliardi. Con assunzioni pessimistiche sulla svalutazione della dracma e sul suo impatto sui prezzi dei beni importati, il modello prevede un consistente aumento del Pil ma anche un miglioramento delle esportazioni modesto, e nel breve periodo un peggioramento sul versante delle importazioni. La conseguenza sarebbe un deficit verso l’estero fino a cinque miliardi di euro – circa il tre percento del Pil – che andrebbe a ridursi lentamente negli anni successivi. Come si potrebbe gestire la fase di aumento del disavanzo estero? In che modo si potrebbe contenerlo? Ed esisterebbero paesi disposti a finanziario? Si tratta di interrogativi cruciali, per Tsipras ma anche per l’intera Europa. Chi si illude che il caso della Grecia possa essere isolato, è stato già seccamente smentito dall’effetto domino degli anni passati. Se il governo greco venisse messo all’angolo e a quel punto ritenesse di poter gestire una eventuale uscita dall’euro, inevitabili sarebbero le ricadute sull’Italia, sul Sud Europa e sulla tenuta complessiva dell’Unione monetaria.