Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Debolezza dell’euro o forza del dollaro? A giudicare non solo dall’1,27 del cambio euro/$ ma dal 109 del dollaro/yen o dallo sgretolamento del prezzo dell’oro, sono i pettorali del biglietto verde a gonfiarsi sotto la spinta di un’economia che cresce. Dall’inizio della crisi a poco tempo fa la divaricazione dei cambi nel mondo aveva rispettato quel che suggeriscono teoria e storia: i cambi dei Paesi emergenti – in primis la Cina – erano andati apprezzandosi, quelli dei Paesi emersi avevano segnato il passo se non indietreggiato. Parliamo qui dei cambi come indicatori della competitività, cioè dei cambi effettivi reali, che tengono conto di tutti i rapporti di cambio con i Paesi terzi e dei differenziali di inflazione.

Da qualche tempo la divaricazione si è andata manifestando anche all’interno dei Paesi emersi, e segnatamente fra le tre maggiori aree economiche: Usa, Europa e Giappone. Fra queste quella che cresce di più è l’America, e il dollaro sta guadagnando terreno rispetto allo yen e alla moneta unica. C’è chi ama i titoli gonfi sulle “guerre valutarie”, ma i cambi sono l’effetto e non la causa delle differenze nella crescita. La crescita di un’economia dipende da fattori strutturali – le “forze innate” di un sistema economico – e dalle politiche di espansione. Di queste due grandi determinanti la prima è di gran lunga la più importante. Una politica monetaria di stimolo può portare in prima battuta a un deprezzamento del cambio, ma, se funziona – cioè se l’economia risponde con la crescita – poi il cambio tende a rafforzarsi. Si prenda ad esempio il dollaro. Fino a pochi mesi fa sia il cambio effettivo reale dell’euro che quello della moneta Usa si erano andati deprezzando all’incirca nella stessa a misura a partire dall’inizio della crisi. Ma, quando è diventato evidente che le due aree rispondevano in maniera diversa – gli Stati Uniti riprendevano a crescere e l’Eurozona si adagiava nella stagnazione – i destini delle monete si sono separati. Gli Usa avevano ripreso un sentiero di crescita per meriti diversi da quelli valutari (le capacità di reazione del gran corpaccio dell’economia americana, la politica di bilancio meno penalizzante), mentre nell’Eurozona erano anche lì fattori non valutari (una austerità malintesa, riforme insufficienti) a far segnare il passo all’economia.

Se la svalutazione dell’euro – il cambio reale è oggi stimabile a circa il 12% più basso rispetto alla media del 2007 – avrà un merito sarà quello di togliere un alibi a quanti sostenevano che era colpa del cambio troppo forte se l’economia non cresceva. Forse la discesa dell’euro non è terminata, ma c’è già una grossa differenza fra l’1,38 contro dollaro della primavera scorsa e l’1,27 di adesso. “Qui si parrà la tua nobilitate”, si potrebbe dire ai produttori italiani ed europei: vedremo se era il fattore valutario a tenervi al palo… Ma non bisogna nascondersi dietro un dito. Il problema dell’economia italiana non sta nell’offerta ma nella domanda. Da una parte, la forte rivalutazione del livello di produttività industriale rilevata nei nuovi dati di contabilità nazionale rilasciati dall’Istat; e, dall’altra, i dati sulle vendite al dettaglio comunicati ieri, sono lì a ricordarci che quel che manca in Italia non è la capacità di offerta ma la voglia e la capacità di spendere.

Una apatia dell’economia che, pur tristemente e lungamente evidente nella Penisola, si va manifestando anche nei Paesi “forti” dell’Eurozona. Una apatia che è riflesso anche dello stallo disperante delle politiche economiche. La Bce ha fatto quel che poteva fare, e la palla è ora nel campo dei governi. Ma questi sono incapaci di trovare i tempi giusti e il sentiero più agevole per conciliare riforme e flessibilità di bilancio. La determinazione del governo italiano nel perseguire la riforma del mercato del lavoro è importante, ma ha bisogno di essere assortita di impegni comunitari sulle regole cieche del Fiscal Compact. Per uscire da questo stallo l’Europa ha bisogno della politica alta, dell’afflato che in passato ha segnato le grandi tappe dell’integrazione. Non basta e non basterà l’aspirina di un euro debole.