Il rischio da evitare per il vertice sul lavoro
Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore
Quasi certamente il terzo vertice europeo sul lavoro, che si terrà domani a Milano, non sarà diverso da quelli di Berlino e Parigi che l’hanno preceduto. Parole, impegni vaghi e poi silenzio più o meno pneumatico. Liturgie pubblicitarie utili a chi le celebra: che sia Matteo Renzi, Angela Merkel o François Hollande poco cambia e cambierà per i 26 milioni di disoccupati europei, giovani e non. La soluzione dei loro problemi, infatti, per ora non potrà che essere nazionale e solo in misura marginale targata Ue: anche perché le risorse del bilancio comunitario sono scarse e sempre più insufficienti a coprire il divario tra presunte politiche comuni e risorse disponibili.
Per questo il vero vertice di Milano si giocherà sull’ennesimo braccio di ferro tra il partito del rigore e quello della crescita, tra Germania e nordici da una parte, Francia e Italia dall’altra. La tensione della vigilia è altissima: la Merkel richiama all’ordine i renitenti ai sacrifici, Hollande le risponde picche sull’impegno a portare dal 4,3% attuale al 3% il deficit nel 2015 ma per questo rischia di vedersi bocciata a Bruxelles la legge di bilancio. E Renzi denuncia la vetustà delle regole vigenti pur affermando che non intende violarle, anche se a sua volta difficilmente riuscirà a far fronte alla tabella di marcia europea su conti pubblici e riforme strutturali.
Il tutto mentre si fa sempre più pressante e preoccupato l’allarme della Bce di Mario Draghi sulla crescita europea sempre più fragile e la deflazione che non passa. I dati congiunturali continuano purtroppo a dargli ragione. Ieri il turno degli ordini tedeschi all’industria, crollati in agosto del 5,7% su base mensile, il peggior scivolone dal 2009, con punte del 9,9% fuori dall’Eurozona e una caduta del 2% in Germania. Naturalmente le crisi russo-ucraina e mediorientale hanno dato il loro contributo negativo ma è soprattutto la debolezza dei partner euro a frenare la locomotiva tedesca. Se il buon senso prevalesse sulle profonde diffidenze reciproche e se tutti i protagonisti della partita facessero seriamente la loro parte, la soluzione dei malanni europei sarebbe possibile e anche a portata di mano.
Con un surplus dei conti correnti che supera ampiamente il tetto del 6% massimo previsto dalle regole Ue, Berlino oggi dispone dei margini finanziari per aumentare la spesa e rilanciare la domanda interna ed europea ma non intende usarli: ufficialmente perché conta di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2015, nella realtà perché convinta che, allentando la pressione sui Paesi recalcitranti, otterrebbe l’effetto opposto a quello desiderato, inducendoli a fare ancora meno del poco o niente che oggi sono disposti a fare. Malfidenza eccessiva e ingiustificata? È difficile considerare Francia e Italia dei campioni di affidabilità: troppe promesse non mantenute, troppi immobilismi e competitività perduta, troppe divergenze economiche accumulate in un’unione monetaria che non può permettersene più di tanto se non vuole diventare ingovernabile.
Detto questo nessuno oggi, nemmeno la nuova Commissione Juncker che si insedierà il 1° novembre, sembra in grado di aiutare a uscire dal pericoloso impasse nel quale l’Eurozona senza crescita rischia di affondare. Ad ascoltare la pantomima delle audizioni parlamentari dei commissari che si susseguono in questi giorni, più che la generale consapevolezza della grande emergenza economico-sociale da affrontare e risolvere al più presto, si percepisce il solito gioco degli equivoci, degli equilibrismi impossibili, delle ambiguità europee senza fine. Non si capirebbe altrimenti come mai Pierre Moscovici, il socialista francese che fino a poco tempo fa prometteva di impugnare le bandiere della crescita e dell’occupazione a nome di tutta la sinistra europea, tenti ora di accreditarsi come il convinto paladino del rigore e delle regole Ue, come se da ministro delle Finanze non fosse stato proprio lui a ignorarli a ripetizione, con i noti risultati. Né si capirebbe Valdis Dombrovskis, il vice-presidente e falco collaudato che comunque ne controllerà da vicino le mosse, il quale sia pure con gran fatica prova a “colombeggiare” chiosando sulla futura dimensione sociale dell’Europa pur ripetendo che la crescita sarà il prodotto delle riforme e che comunque «nessuna legge impedisce agli Stati membri di uscire dall’euro». Cosa attendersi del resto dal premier lettone che ha portato il suo Paese nella moneta unica tagliando il Pil del 20% in 3 anni, i salari pubblici della stessa percentuale e le pensioni del 10%? Non si capirebbe nemmeno come mai il presidente Jean-Claude Juncker abbia promesso in luglio un piano europeo per la crescita da 300 miliardi che però, a quanto pare, punterà su capitali privati, niente fondi nazionali freschi e risorse “riciclate” tra quelle già allocate al bilancio Ue?
Le smentite a questi dubbi e confusioni di intenti naturalmente saranno più che benvenute, se ci saranno come si spera. L’Europa non può permettersi di ignorare ancora a lungo i suoi problemi. L’impatto con la realtà, troppo a lungo snobbata e travisata, potrebbe infatti riservarle, prima o poi, pessime sorprese.