Risparmio e povertà
Davide Giacalone – Libero
Gli italiani che hanno aumentato la loro capacità di risparmio e quelli che, all’opposto, sono a rischio di povertà, si equivalgono: il 33% i primi e il 28.4 i secondi. C’è di buono che i primi, misurati da Ipsos, crescono (di 4 punti dal 2013 al 2014), mentre i secondi, contati da Istat, diminuiscono (di 1.5 punti dal 2012 al 2013). L’accostamento dei due dati può indurre a credere che quello italiano sia un problema redistributivo: togliamo ai primi per dare ai secondi. Ricetta suicida. Sarebbe uno schiaffo all’onestà. Il nostro problema è produttivo, ovvero riprendere la via che fa crescere la ricchezza, non il prelievo fiscale e la redistribuzione della miseria.
Fa un certo effetto sentir celebrare la “giornata del risparmio” in un Paese che tende ad eliminarlo anche dal vocabolario: adesso le chiamano “rendite finanziarie” così riescono a tassarle maggiormente. Satanismo fiscale che colpisce anche il risparmio obbligatorio, come il Tfr. Rendita finanziaria è un concetto che invita a immaginare lo speculare, il profittare, l’ingrassare a scapito altrui. E’ appena il caso di ricordare che il risparmio delle famiglie consiste in redditi su cui già si sono pagate le tasse. Accantonamenti per il futuro, rinunce a consumi immediati. Un tempo si diceva che era un comportamento encomiabile. Ora solo tassabile.
Se si guarda la curva del risparmio, ci si accorge di un fenomeno istruttivo. All’alba del secolo gli italiani che riuscivano a risparmiare erano decisamente più numerosi, il 48%. Sono andati costantemente diminuendo e il calo è cominciato ben prima della grave crisi finanziaria. Leggo così il dato: l’Italia era già in perdita di competitività, il reddito disponibile diminuiva, ma i tassi d’interesse scendevano, grazie all’euro (ogni tanto vale la pena ricordarlo), la fiducia nel futuro era notevole, quindi si è risparmiato un po’ meno, lasciando stabile il proprio tenore di vita. Oggi continuo a consumare, domani tornerò a risparmiare, perché le cose andranno meglio. Dal 2008 al 2010 la crisi finanziaria era un titolo del telegiornale. Dopo, con il 2011, s’è sentita la botta nella vita reale. Nel 2012 il sabba tributario a rischiarato le notti. A quel punto si poteva immaginare che sempre meno persone si sarebbero dedicate al risparmio, invece è avvenuto il contrario: dal 2012 si risparmia di più. E’ cresciuto il reddito? No, è cresciuta la paura: smetto di consumare come prima, accetto che il mio tenore di vita scenda, perché temo che il futuro sia peggiore del presente e, quindi, è necessario mettere da parte qualche cosa.
Andare dagli impauriti e spiegare loro che sono i ricchi mantenuti dalle rendite finanziarie, talché si può e si deve tassarli maggiormente, è una politica di diffusione del terrore. Anche perché i risparmi dei quali stiamo parlando sono quelli delle persone normali, in quantità unitarie contenute. Se fossero davvero ricchi, liquidi e in grado d’investire molto … non sarebbero qui loro, in ogni caso non sarebbero qui i loro capitali. Per la stessa ragione per cui una donna libera ed evoluta, che voglia vivere in totale autodeterminazione la propria vita sentimentale e sessuale, non va a vivere dove governa l’Isis. Quelli costretti a pagare più tasse sono i presi per il collo. Mentre i 17 milioni di italiani a rischio di povertà li si prende per i fondelli, se si fa credere loro che si possa risolvere il problema con la redistribuzione.
Qui si deve andare a lavorare, il che comporta che si sia potuto investire in attività produttive e che il fisco non si mangi la gran parte del profitto. Sono i più poveri ad avere interesse a che la ricchezza produca ricchezza, mentre solo gli agiati possono accettare che la ricchezza propizi solo sicurezza (ammesso che sia possibile, e non lo è). Eppure sento sempre dire: chi ha di più deve dare a chi ha di meno; si mandino in pensione i lavoratori più anziani, così si trova lavoro per i giovani. Teorie stupefacenti, nel senso che sono droghe che inibiscono il ragionare: dobbiamo lavorare di più, più numerosi, per più tempo, senza che il frutto del lavoro venga depredato a favore della spesa corrente improduttiva.