agricoltura

È fuga dei giovani dalla campagna: under 35 solo il 5% degli agricoltori

È fuga dei giovani dalla campagna: under 35 solo il 5% degli agricoltori

Jenner Meletti – La Repubblica

Sembrava che tutto stesse cambiando, nei nostri campi. Giovani laureati, armati di zappa e computer, impegnati in aziende capaci di rilanciare il Made in Italy. Vendita diretta dal coltivatore al consumatore, mercati dove il contadino porta frutta e verdura e mette la sua faccia. Una ricerca di Nomisma – curata da Denis Pantini e Massimo Spigola – racconta invece che la nostra agricoltura non è un mestiere per giovani (tranne rare eccezioni) e che dalle campagne è in corso una vera e propria fuga. Con un rischio pesante: che la terra diventi ancor più un bene rifugio per chi già possiede ricchezza e non risorsa per chi, nelle campagne, potrebbe trovare un futuro per sé e per il Paese.

Dal 2008 al 2013 – questi i primi dati della ricerca che sarà presentata oggi alla fiera di Bologna a cura dell’Informatore Agrario – gli occupati in agricoltura sono calati del 6% mentre i giovani con meno di 24 anni sono diminuiti del 15%. Alzando l’asta ai 35 anni, si scopre che i giovani agricoltori sono 82.000, il 5,1% del totale.Quelli che invece superano i 65 anni – età in cui negli altri settori si va in pensione – sono 603.390, pari al 37,2%. Diversa la situazione in altri Paesi europei, nostri diretti concorrenti. In Spagna gli under 35 sono il 5,3, in Germania il 7,1, in Francia l’8,7. Ancor più netta la differenza se si guarda al peso degli anziani. Gli over 65 sono appena il 12% in Francia e il 5,3% in Germania. Nelle campagne italiane la «rigenerazione» diventa difficile. Sono al lavoro infatti 14 giovani ogni 100 anziani. In Francia gli under 35 sono 73 ogni 100 anziani, in Germania arrivano addirittura al 134%.

Non è soltanto una questione di età. «Oggi – spiega Denis Pantini di Nomisma – è difficile avviare un’attività davvero produttiva con meno di 20 ettari di buona terra. E invece la Sau – superficie agricola utilizzata – dei giovani agricoltori italiani è in media di 13,6 ettari, mentre in Germania è di 49 ettari e in Francia di 68,5. Anche la nostra dimensione economica è fra le più contenute, con un valore inferiore ai 55.000 euro di produzione standard, mentre in Francia è di 118 mila euro e in Germania di 130.000».

Qualcosa si muove, comunque. Nelle aziende italiane le attività remunerative oltre a quella agricola (ad esempio fattorie didattiche, produzione di energia rinnovabile…) sono pari al 4,7%, nelle aziende di chi ha meno di 40 anni arrivano al 46,4%. Con una disoccupazione giovanile al 42%, il lavoro nei campi potrebbe essere una soluzione. E invece l’attrazione è davvero bassa. Settore pubblico e libera professione sono ai primi posti. La «stabilità occupazionale» è il primo desiderio, con il 40,7%. «Possibilità di lavorare all’aria aperta» registra solo l’1,7%. E chi fra i giovani non coltivatori ha amici o parenti in agricoltura, associa a questo lavoro le parole «fatica e povertà». «Un’agricoltura in mano agli anziani – raccontano i curatori della ricerca – non si impegna negli investimenti e nell’innovazione e così perdiamo potenzialità proprio mentre il Made in Italy è richiesto in tutto il mondo».

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Ma industria e agricoltura resistono ancora

Cristina Casadei – Il Sole 24 Ore

Osservati dal punto di vista dell’industria i dati Istat non presentano un quadro drammatico perché nell’industria in senso stretto torna a crescere l’occupazione: +2,8% rispetto a un anno prima, pari a 124,000 unità, sia tra i dipendenti sia tra gli indipendenti. Se ci spostiamo e li guardiamo dal punto di vista dell’agricoltura, ancora una volta, il segno è positivo: il numero di occupati in agricoltura aumenta rispetto a un anno prima (+1,8%, pari a 15.000 unita) e riguarda soltanto i dipendenti (+5,6%, pari a 22.000 unità), a fronte di un calo degli indipendenti. È quando i dati vengono osservati dal punto di vista delle costruzioni e del terziario che la situazione diventa pesantemente drammatica. Prosegue per il quindicesimo trimestre, la flessione degli occupati nelle costruzioni (-3,8%, pari a -61.000 unità), concentrata soprattutto nel CentroNord. L’occupazione si riduce su base annua anche nel terziario (-0,6%, pari a -92.000 unità). La diminuzione, diffusa territorialmente, interessa principalmente gli occupati nel commercio e nei servizi di credito e assicurazioni, mentre si riscontra un aumento nella sanità e nei servizi alle famiglie. 

«I settori più ciclici, come appunto le costruzioni e il terziario, che risentono maggiormente dell’andamento del ciclo economico, sono in forte sofferenza. Però non ci si può aspettare una ripresa dell’occupazione con tassi di crescita vicini allo zero negativo. Se il paese non cresce, l’occupazione non cresce». Il ragionamento del professor Marco Leonardi che insegna Economia Politica alla Statale di Milano è lineare, non è il risultato di complesse equazioni perché la realtà che ci presentano i dati Istat è semplice e allo stesso tempo non consente vie d’uscita simili al passato. «Abbiamo avuto negli anni passati un aumento dell’occupazione in assenza di crescita economica grazie alla diffusione rapida dei contratti a termine – continua Leonardi -. Ormai però abbiamo raggiunto un livello dei contratti a termine fisiologico, in linea con la media europea. Se l’Italia non riprende a crescere, la disoccupazione non scende». Anche l’arma dei contratti a termine appare spuntata. Mentre gli interinali rappresentano numeri ancora piccoli nel nostro paese, comunque non tali da poter incidere visibilmente sugli andamenti. Secondo gli ultimi dati di Assolavoro, fermi a maggio di quest’anno, il monte retributivo dei lavoratori in somministrazione cresce del 9,8% rispetto allo stesso mese del 2013. La variazione congiunturale è pari a -1,5% contro il -2,3% di maggio 2013. Il numero medio mensile di occupati registra un +12% su base annua, i lavoratori occupati sono 278 mila. A maggio, le ore lavorate sono 28,9 milioni circa (+5,8% su base annua), mentre il rapporto fra somministrazione e occupazione totale passa dall’1,14% di maggio 2013 all’1,24% dello stesso mese del 2014.

Sui settori incombono diversi fattori. Di lungo periodo come per esempio «il fatto di essere pur sempre un paese manifatturiero importante – interpreta Leonardi – L’industria italiana, soprattutto quella che esporta, tiene. La crescita del pil è trainata dalla manifattura esportatrice». Poi però ci sono anche fattori strutturali come per esempio «i servizi che funzionano meglio che in altri paesi». Il momento pero è delicato, siamo infatti in una fase in cui «rischiamo di perdere gli elementi di ripresa e di uscita dalla crisi che si potevano intravedere».