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Conflitto d’interessi per l’autostrada Veneto-Trentino

Conflitto d’interessi per l’autostrada Veneto-Trentino

Davide Giacalone – Libero

Ogni tanto riemerge il tema del conflitto d’interessi, normalmente targato con nome e cognome. Sarà bene rendersi conto che ci sono anche conflitti d’interesse di tipo istituzionale, che guastano non poco la credibilità italiana nell’attirare e promuovere investimenti. Ce ne ha dato dimostrazione, da ultimo, il ministro Graziano Delrio. Da anni si tenta di completare un’avviata opera autostradale, quella della Valdastico, che dovrebbe collegare il Veneto al Trentino, attraverso la Val d’Adige. La cosa era ritenuta necessaria anche dal governo in carica, tanto che la inserì nello «Sblocca Italia» e la portò al Cipe. Poi, però, le cose si sono fermate, lasciando incompiuti i lavori.

Qui m’interessa l’aspetto istituzionale ed economico. Il blocco è stato causato, ha spiegato il ministro Dehio, dall’opposizione della provincia di Trento. Si dà il caso, però, che quella provincia sia socia dell’autostrada potenzialmente concorrente, quella del Brennero. E si dà il caso che fra quei soci ci sia anche la città di Reggio Emilia, di cui era sindaco e rimane parlamentare Delrio stesso. Quegli enti locali partecipano del processo decisionale, fino a disporre addirittura del veto (il che ha assai dubbia legittimità), relativo a lavori che sarebbero conconenti con le società di cui loro stessi fanno parte. Non riesco a immaginare un più monumentale conflitto d’interessi.

Il grande imbroglio dei signori delle autostrade

Il grande imbroglio dei signori delle autostrade

Giorgio Ragazzi – Il Fatto Quotidiano

La produzione industriale è crollata, migliaia di imprese chiudono, ma c’è un settore che non conosce crisi: le autostrade. Nel 2012-13 il traffico è diminuito del 10% ma, grazie agli aumenti tariffari, gli introiti complessivi da pedaggi sono persino aumentati. Dal 2010 i pedaggi (in media) sono cresciuti del 15%, il doppio dell’inflazione del periodo. Come si spiega?

La regolamentazione tariffaria si è sviluppata in modi contorti negli ultimi due decenni (si veda il mio libro (Signori delle Autostrade, il Mulino, 2008) con la sovrapposizione di sempre nuove norme, lasciando scegliere alla concessionaria quale sia per lei più conveniente. La convenzione di Autostrade per l’Italia (ASPI) prevede incrementi tariffari senza alcuna relazione col livello di profitto. La maggior parte delle altre concessionarie si è avvalsa della facoltà di richiedere il “riequilibrio del piano economico-finanziario”, facoltà introdotta con la delibera Cipe 39/2007. All’inizio di ogni periodo regolatorio (ogni 5 anni) si definisce, su proposta della concessionaria, un piano economico-finanziario che deve prevedere incrementi di tariffa tali da assicurare alla concessionaria, sulla base delle previsioni di costi e ricavi, una “congrua remunerazione” sul capitale investito. Lo Stato assicura comunque a queste imprese un “congruo” profitto, al riparo anche da ogni possibile “rischio traffico”. Sul capitale proprio investito il rendimento assicurato è di 4 punti sopra il rendimento medio dei buoni del Tesoro decennali: davvero ottimo, per i tempi che corrono, e a rischio zero.

La formula segreta del profitto garantito

Ma come viene determinato l’ammontare del capitale proprio da remunerare? Nelle concessionarie gli azionisti non hanno mai versato capitali se non per importi irrisori: tutto è stato finanziato a debito, e i debiti sono stati rimborsati coi pedaggi. Qual è dunque l’origine e come è determinato il capitale proprio da remunerare? È un mistero sepolto nei piani finanziari, rigorosamente secretati. Le rivalutazioni monetarie effettuate ancora pochi anni addietro da varie concessionarie, in particolare quelle dell’ASTM (gruppo Gavio), vengono considerate come maggior capitale proprio investito? Pare che sia questo il motivo per il quale quelle concessionarie, richiedendo il riequilibrio economico-finanziario, hanno ottenuto elevati incrementi tariffari.

Ci dicono che il motivo principale degli aumenti di tariffa sia la necessità di remunerare gli investimenti. Dai dati risulta però che di investimenti le con- cessionarie ne hanno sempre fatti molto pochi, e con ritardi di decenni rispetto ai piani concordati. Nel 2013 le concessionarie hanno incassato 4.900 milioni per pedaggi e registrato utili di 1.100 milioni ma hanno fatto investimenti per poco più di 900 milioni. La maggiore concessionaria, Autostrade per l’Italia, ha avuto un flusso di cassa operativo di 1.230 milioni ma ha investito solo 470 milioni (dato della Vigilanza). Paghiamo un altissimo scotto sulla mobilità a fronte di investimenti modestissimi.

Vediamo comunque come vengano remunerati questi investimenti. La delibera CIPE del 2007 prevede che l’incremento di tariffa debba essere determinato in modo che “il valore attualizzato dei ricavi previsti sia pari al valore attualizzato dei costi ammessi… scontando gli importi al tasso di congrua remunerazione”. Il criterio è perfetto ma la sua applicazione discrezionale. L’eventuale incremento del pedaggio dipende dalla redditività attesa dell’investimento nell’arco della sua vita utile. Sarebbe necessario aumentare il pedaggio solo se la redditività attesa dell’investimento fosse inferiore al tasso di rendimento che si intende assicurare al concessionario. Ma, in tal caso, perché l’Ispettorato autorizza investimenti non remunerativi? Se per finanziare nuovi investimenti occorre aumentare di molto i pedaggi anno dopo anno significa che si fanno pessimi investimenti o che il ministero sbaglia i conti.

Quantificare i benefici degli investimenti è difficile. Consideriamo l’investimento più rilevante, la costruzione di nuove corsie. Le concessionarie (Autostrade per l’Italia in particolare) sostengono che questi investimenti migliorano la qualita del servizio, ma non generano apprezzabili incrementi di proventi da maggior traffico e devono pertanto essere remunerati con incrementi di tariffa. Ma su una rete già tanto congestionata come quella italiana l’aggiunta di corsie parrebbe invece essenziale per sostenere ulteriori incrementi di traffico i cui proventi vanno interamente a vantaggio della concessionaria: se si quantificasse questo beneficio potrebbe non esservi bisogno di aumentare i pedaggi. Se una nuova corsia non è in grado di ripagarsi con maggior traffico nell’arco dei quasi 30 anni di vita residua di una concessione come quella dell’ASPI, perché realizzarla? E se è in grado di ripagarsi, perché concedere incrementi di tariffa?

Chissà perché i lavori sono sempre “urgenti”

In Francia e in Spagna non sono previsti incrementi di tariffa per finanziare investimenti in nuove corsie o in migliori sistemi di esazione: la scelta di convenienza viene lasciata alla concessionaria. In Italia invece gli investimenti sono proposti dalle concessionarie ma “assentiti” dal ministero che ne garantisce quindi la redditività ex ante con incrementi di tariffa. Nella logica del sistema italiano le concessionarie hanno tutto l`interesse a sottovalutare la redditività attesa dei loro investimenti per farseli remunerare con incrementi di pedaggi, visto che se poi in futuro la redditività risulterà maggiore di quella concordata con l’Ispettorato tutto il beneficio resterà acquisito alla concessionaria stessa. Gli investimenti sono poi proposti dalle concessionarie e pertanto il sistema tende a selezionare quelli che appaiono di volta in volta più utili alle concessionarie stesse piuttosto che al paese.

Un tipico esempio storico può essere quello dell`autostrada Torino-Milano. Negli anni 90, questa autostrada aveva tre corsie con piazzole d’emergenza ed era ampiamente sufficiente per il traffico. Allargare l’autostrada e costruire una corsia d`emergenza non era certo un investimento prioritario per il Paese, ma lo era invece per la concessionaria che, proponendo questo e altri minori investimenti è riuscita a ottenere chela concessione in scadenza nel 1999 fosse prorogata prima sino al 2014 e poi ancora sino al 2026. I lavori per la corsia di emergenza non sono ancora terminati mentre i pedaggi negli ultimi anni sono addirittura raddoppiati. Parrebbe che in questo caso gli investimenti vengano pagati due volte: prima con le proroghe della concessione e poi con gli aumenti di tariffa.

Ogni concessionaria a rischio di scadenza della concessione individua nuovi lavori “urgentissimi” che ne giustifichino la proroga: nuove corsie o nuovi tratti come il prolungamento da Parma a Nogarole Rocca che ha consentito alla Cisa di ottenere una proroga della concessione dal 2010 al 2031 (oltre a forti aumenti di tariffa). Per la Serenissima (Brescia-Padova) è assolutamente necessario costruire il tratto Piovene Rocchette-Rovigo (Valdasticco nord), anche se non pare di per se né essenziale né remunerativo, perché solo cosi potrebbe ottenere anch’essa una bella proroga della concessione già scaduta ed evitare quindi il rischio da tutte più temuto, quello che si faccia una gara per il rinnovo. Per le concessionarie non esistono investimenti a rischio: la remunerazione in tariffa è garantita e c’è sempre la possibilità di richiedere il “riequilibrio” del piano economico finanziario.

Anche quando si sbagliano di molto le previsioni di costo e di traffico, come nel caso della Asti-Cuneo, ecco che viene prospettata (dalla ASTM) una soluzione facile ed anche profittevole: accorpare quella concessione ai due tronchi (Torino-Milano e Torino-Piacenza) ed ottenere pure un’altra bella proroga per quelle due concessioni che altrimenti scadrebbero prima della Asti-Cuneo. Gli ignari utenti continueranno a pagare pedaggi sempre crescenti e le concessionarie ad incassare profitti sicuri per altri decenni. Ed è proprio per agevolare questo tipo di operazioni che è stato inserito nel decreto “sblocca Italia” l’articolo 5, che prevede appunto la possibilità di unificare tratte “attigue, interconnesse o complementari” in una nuova concessione che assicurerà comunque, anche in futuro, l`equilibrio dei conti.

I cantieri infiniti per evitare le gare

Di gare per rinnovi di concessioni in Italia non si è riusciti sinora a farne nessuna e pare che il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi sia determinato a non farne neanche in futuro, cercando di ottenere dall’Unione europea deroghe all’obbligo di rimettere in gara le concessioni scadute con l’usuale appiglio del completamento di tratte, magari previste in concessioni di 40 o 50 anni fa ottenute senza gara. Con un’inflazione ormai prossima allo zero appare sempre più inaccettabile per gli utenti e imbarazzante per il governo continuare ad aumentare di tanto i pedaggi (3,91% nel 2013 e 3,9% nel 2014). Per contenere in futuro questi aumenti è stato istituito un tavolo di lavoro tra Aiscat – l’associazione di categoria dei concessionari – e governo che considererebbe interventi in quattro direzioni: 1) prolungamento delle concessioni; 2) accorpamenti di concessioni e proroghe alle scadenze più lontane; 3) maggiori indennizzi di subentro a fine concessione; 4) slittamenti, cioè riduzioni, degli investimenti previsti.

Tutte queste misure, a fronte di una eventuale moderazione degli incrementi tariffari nei prossimi anni, hanno in comune un chiaro obiettivo: prolungare sempre di più verso un orizzonte infinito la durata delle attuali concessioni, e quindi gli utili delle concessionarie e l’onere dei pedaggi, rendendo anche sempre più difficile l’effettuazione di gare a fine concessione per il crescere degli indennizzi richiesti all’eventuale subentrante. I pedaggi, introdotti all’origine per finanziare opere come l’autostrada del Sole, sono divenuti per le concessionarie una rendita pressoché perpetua sulla quale poi lo Stato carica anche l’Iva e parte dei costi dell’Anas.