Bilancio Inps

Invece di invocare quelli stranieri Boeri restituisca i contributi nostri

Invece di invocare quelli stranieri Boeri restituisca i contributi nostri

di Massimo Blasoni – La Verità

L’affermazione che a salvare i conti dell’Inps (il cui disavanzo economico è salito nel 2016 a 11,2 miliardi) con i loro versamenti contributivi siano gli stranieri e non gli italiani è fuorviante, tanto quanto lo sarebbe sostenere la tesi contraria. Se non ci fossero gli stranieri avremmo al loro posto più italiani al lavoro e un più basso tasso di disoccupazione? Nessuno può dirlo né è possibile affermare con certezza che spesso si tratta di lavori che gli italiani “choosy” non farebbero.

Il tema centrale piuttosto​ è quello dei contributi silenti, che colpisce in egual misura lavoratori italiani e non. Si tratta infatti di versamenti che non sono sufficienti a maturare alcun trattamento previdenziale se versati per un periodo inferiore ai 20 anni di lavoro e che l’Istituto si guarda bene dal restituire ai loro legittimi proprietari. Il presidente dell’Inps sostiene la necessità di “un’operazione verità nel Paese dell’ipocrisia”? Si decida allora a un gesto che tutti i suoi predecessori si sono sempre rifiutati di fare, anche a fronte di reiterate interrogazioni parlamentari: rendere noto l’ammontare esatto dei contributi silenti che il suo Istituto ha incassato negli ultimi anni da lavoratori italiani e stranieri. Emergerebbe così un paradosso intollerabile: quello per cui ad alcuni capita di versare “a vuoto” i contributi senza maturare alcun diritto alla pensione mentre moltissimi altri incassano ogni mese un assegno previdenziale largamente superiore ai contributi versati nel corso della propria attività lavorativa (un frutto avvelenato lasciatoci in eredità da chi ha applicato in maniera generosa e irresponsabile il sistema retributivo).

E per restare al tema dell'”operazione verità” cara a Boeri, perché non ricordare ad esempio la gestione non certo assennata del patrimonio immobiliare dell’Inps? Si tratta di qualcosa come 25mila immobili valutati più di tre miliardi che non però producono alcun provento ma anzi un rilevante deficit annuale.

Più in generale, va osservato come la sostenibilità del nostro sistema previdenziale (garantita ogni anno attingendo alla fiscalità generale) richieda sia una crescita del Pil di almeno un punto e mezzo percentuale annuo, sia un indice di occupazione – cioè di partecipazione al mercato del lavoro – nettamente più alto di quello attuale. Risultati per il momento non conseguiti né sul piano della crescita né relativamente all’incremento dell’occupazione: lavora solo il 57% degli italiani, contro una media europea dieci punti più alta. A questo si aggiunga lo spazio esiguo ricavato nel nostro Paese dalla previdenza complementare: fra coloro che versano contributi il tasso di adesione non supera il 25% del totale degli occupati. Un dato che non sorprende, visto che i netti in busta paga (gravati dall’altissimo cuneo fiscale e previdenziale) consentono solo a poche famiglie di ritagliare risorse per assegni aggiuntivi.

Gravano pertanto sui giovani le maggiori incertezze per il futuro. Lavori discontinui, vuoti contributivi e una previdenza in genere penalizzante rispetto al passato rischiano di condurre ad assegni pensionistici miseri e a un lavoro che si dovrà protrarre ben oltre i 70 anni, anche a causa dei coefficienti di trasformazione che adeguano l’età di pensionamento alla costante crescita della vita media. Ecco perché il dibattito andrebbe indirizzato semmai in un’altra direzione: non è affatto necessario che sia lo Stato a gestire i nostri contributi obbligatori. Sarebbe preferibile che ci fosse data la possibilità di decidere liberamente dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenza tra loro. Un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibile, se non vogliamo che i giovani un domani siano costretti a sentirsi stranieri in Patria.

 

Lasciateci liberi di scegliere un Inps “privato”

Lasciateci liberi di scegliere un Inps “privato”

di Massimo Blasoni – Panorama

Il deficit di gestione ormai strutturale dell’Inps è l’emblema dell’insostenibilità del nostro impianto previdenziale. Nel 2016 il patrimonio netto dell’Istituto è andato per la prima volta in negativo: sei anni fa misurava oltre 40 miliardi. Lo scorso esercizio ci sono state perdite per 7,65 miliardi, in linea con quelle che si registrano ormai da anni. Il disavanzo, regolarmente ripianato dallo Stato, è frutto del disallineamento tra contributi versati – con il criterio della ripartizione, dai lavoratori di oggi – e pensioni pagate. A questo si aggiunge la notevole massa dei crediti che l’Inps non riesce ad incassare e che è costretto ciclicamente a svalutare: un po’ come avviene per i crediti deteriorati delle banche. Si tratta di cifre ingentissime che rappresentano un’ulteriore pesante ipoteca sul bilancio della previdenza nazionale.

È noto che il sistema retributivo applicato in passato fu troppo generoso ma la situazione attuale è anche frutto di una gestione non certo assennata del patrimonio immobiliare. Per dare un’idea, l’Inps possiede 25mila immobili valutati più di tre miliardi da cui però non trae alcun provento, anzi un rilevante deficit annuale. E purtroppo non è finita qui. La sostenibilità del sistema previdenziale richiede sia una crescita del Pil di almeno un punto e mezzo percentuale annuo, sia un indice di occupazione – cioè di partecipazione al mercato del lavoro – nettamente più alto di quello attuale. Risultati per il momento non conseguiti né sul piano della crescita, che in Italia resta modesta, né relativamente all’incremento dell’occupazione: solo il 57% degli italiani lavora, contro una media europea dieci punti più alta. Tra l’altro nel nostro Paese non ha grande spazio la previdenza complementare: fra coloro che versano contributi il tasso di adesione non supera il 25% del totale degli occupati. D’altro canto con netti in busta paga fortemente gravati dall’altissimo cuneo fiscale e previdenziale non è semplice per le famiglie ritagliare risorse per assegni aggiuntivi.

Le incertezze per il futuro gravano fondamentalmente sui giovani. Lavori discontinui, vuoti contributivi e una previdenza in genere penalizzante rispetto al passato rischiano di condurre ad assegni pensionistici miseri e a un lavoro che si dovrà protrarre sino ad un’età assai avanzata. Il fatto è che ancora oggi alcuni vanno in pensione a poco più di 50 anni mentre l’aspettativa per chi inizia a lavorare va ben oltre i 70 anni. Una soglia che potrebbe spostarsi ancora più in là, posto che ogni tre anni i coefficienti di trasformazione adeguano l’età di pensionamento alla costante crescita della vita media. Una considerazione conclusiva: non è frutto di un ordine necessario che debba essere lo Stato a gestire i nostri contributi obbligatori. Sarebbe forse preferibile che ci fosse data la possibilità di decidere liberamente dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenza. Un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibile.