editoriale

Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate: lo Stato non esita a colpirvi in silenzio e di nascosto. Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie ha infatti raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Un lieve calo del gettito dipeso unicamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi: lo scorso anno i tassi sui depositi bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04% e i titoli di Stato all’1,19%.

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Basta con lo stato immobiliarista

Basta con lo stato immobiliarista

Massimo Blasoni – Metro

Alloggi occupati illegalmente, famiglie che avrebbero diritto a una casa popolare che rimangono per strada, patrimonio immobiliare pubblico dato in affitto a prezzi stracciati agli amici degli amici: la cronaca, romana e non solo, ci propone ciclicamente una pletora di esempi di come lo Stato imprenditore nel settore immobiliare sia completamente fallito. E questo vale sia per gli immobili che Comuni, Regioni, enti pubblici possiedono come proprio patrimonio e fanno rendere pochissimo (lo si venda subito, piuttosto che concederlo a prezzi irrisori a partiti, associazioni amiche, parlamentari dello stesso colore politico) sia con riferimento al più generale tema delle politiche abitative.

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Enti Pubblici e produttività privata

Enti Pubblici e produttività privata

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Nel nostro Paese gli enti pubblici proliferano e non di rado prendono le sembianze di una gramigna che soffoca il bilancio dello Stato. Per intenderci, tra questi si annovera ancora (vai a capire perché) anche l’Unione Italiana Tirassegno… Una qualche riflessione meritano però anche altre istituzioni, le cui funzioni appaiono spesso ridondanti e costose. È il caso dell’Automobile Club Italiano, che dal 2012 riveste una duplice veste: da un lato è un ente pubblico non economico senza scopo di lucro a base federativa (in relazione alla gestione del pubblico registro automobilistico e all’acquisizione dei relativi contributi); dall’altro è una federazione sportiva automobilistica privata riconosciuta a livello internazionale. L’Aci ha 106 sedi provinciali, 13 direzioni regionali e 3.500 dipendenti a libro paga – in esubero in molte sedi provinciali – che costano oltre 158 milioni di euro l’anno. Per tenere aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico (PRA), che contiene le informazioni relative alle proprietà dei veicoli in circolazione, riceve ogni anno dagli automobilisti italiani compensi per 190 milioni di euro. Peccato che, attraverso la Motorizzazione Civile, il Ministero dei Trasporti gestisca in contemporanea l’Archivio Nazionale dei Veicoli (ANV), che registra i dati dell’omologazione fino alla cessazione della circolazione.

A noi pare una ragione più che sufficiente perché il Governo si decida finalmente a predisporre un’unica Banca dati nazionale per la circolazione e la proprietà dei mezzi automobilistici, come peraltro correttamente dispone la legge di riforma della Pubblica Amministrazione. Non si vede però cosa sostanzialmente potrebbe cambiare se tutti i dipendenti Aci dovessero essere travasati in una nuova agenzia del Ministero. I veri e sostanziali incrementi di produttività e diminuzione dei costi si potrebbero realizzare soltanto con l’applicazione di un classico principio liberale: mantenere pubblica una funzione (in questo caso la tenuta di un registro dei veicoli) ma affidarne la gestione operativa a operatori privati. Gli automobilisti italiani beneficerebbero così di significativi risparmi per la tenuta del PRA e la riscossione dei tributi grazie a società in concorrenza tra loro, che impiegano razionalmente il proprio personale e si sfidano sul terreno dell’innovazione tecnologica degli strumenti informatici.

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

di Carlo Lottieri

Si può leggere la tragicommedia che ha avuto per protagonista il sindaco Ignazio Marino in vari modi. È possibile focalizzare l’attenzione sui peculiari limiti del personaggio, sul carattere davvero unico di una città tanto scettica quanto cinica e a più riprese indagata dal cinema (da Federico Fellini a Paolo Sorrentino), su questa Italia renziana che non riesce a passare dalle promesse ai fatti. Ma si può anche leggere questa vicenda avendo consapevolezza che Roma è in un certo senso l’avanguardia di un degrado che riguarda – sotto vari aspetti – l’intero continente.

Non c’è dubbio che l’Europa abbia avuto un grandissimo passato e che ancora oggi, tutto sommato, continui a essere un’area che permette un tenore di livello piuttosto alto ai propri abitanti e seguiti a esprimere – in qualche campo – eccellenze significative. Se una gran massa di persone lascia l’Asia o l’Africa per venire da noi un motivo c’è.

Bisogna però essere consapevoli che le civiltà passano: anche molto velocemente. Se andate a visitare l’Atene dei nostri tempi certamente non trovate molto della grandezza della città di Socrate e Aristofane, ma anche per Roma si può dire lo stesso: quello che fu il centro del mondo ora è soltanto la capitale di un Paese largamente screditato, oppresso da un debito pubblico colossale e caratterizzato da una cronica incapacità ad affrontare i suoi problemi, e cioè una burocrazia oppressiva, uno statalismo pervasivo, un Mezzogiorno bloccato proprio perché troppo assistito.

Roma è comunque Europa in un senso molto profondo. In Germania, Svezia o Danimarca possono anche sorridere di fronte a molti tratti della contemporaneità italiana, ma dovrebbero essere consapevoli come tutto il continente stia declinando a grande velocità. E se l’Italia non cresce, non si creda che il resto dell’Europa galoppi. Non è così, dal momento che da noi sono solo un po’ più accentuate una serie di difficoltà che ritroviamo anche altrove. E se si dice questo non è per minimizzare la malattia italiana (che è gravissima), ma solo per ricordare come anche il resto d’Europa abbia davvero tanti problemi.

Le società funzionano, o non funzionano, a causa delle loro istituzioni fondamentali, che sono – in primo luogo – di carattere informale. I costumi, le regole non scritte e le attitudini prevalenti sono cruciali nel favorire oppure ostacolare lo sviluppo della società. E quello che in Europa vediamo è il declino della volontà di fare figli, creare imprese, progettare il nuovo, immaginare mondi inediti e provare a farli venire alla luce.

L’Europa nel suo insieme appare stanca, disincantata, scettica: anche perché nel Vecchio Continente è difficile lasciarsi alle spalle una crisi le cui radici sono profonde. Il dissesto economico, in effetti, è stato causato da un coacervo di scelte stataliste compiute da chi gestisce la moneta, controlla le banche, distribuisce risorse che non ha, è incapace di limitare la spesa pubblica, e via dicendo. Di fronte a questo dissesto, per giunta, le risposte che i governi stanno dando sono tutte, o quasi, nel segno di un interventismo crescente.

L’incapacità degli europei di contrastare il crescente potere delle classi politiche è quindi figlia di una debolezza culturale che è davanti agli occhi di tutti. Nella mentalità contemporanea la pretesa del ceto politico, tanto nazionale come euro-comunitario, di disporre dei diritti e delle risorse degli europei trova sostenitori ovunque. Chi oggi prova ad opporsi al dispotismo della politica, rivendicando il diritto naturale dei singoli e delle comunità volontarie (a partire dalle famiglie) a vivere pacificamente e in piena autonomia, è guardato come un lunatico. Si è giunti al punto da definire “ladri” quanti tengono per sé i loro soldi, resistendo di fronte alle pretese di un fisco sempre più vorace, e non già gli esponenti di una classe politico-burocratica che si considera autorizzata a entrare costantemente in casa di altri per sottrarre il frutto del loro lavoro.

In questa Europa è ormai quasi inimmaginabile che si possa assistere a una “rivolta fiscale” che contrasti l’assolutismo del Principe in nome della libertà dei singoli. Senza valori e senza midollo, gli europei sembrano ormai costantemente impegnati nel cercare di partecipare al banchetto di chi si spartisce il bottino ottenuto grazie alla tassazione. Per la maggior parte di quanti vivono nei paesi europei, le tasse rappresentano una fonte di reddito parassitario (basti pensare agli agricoltori e alla Pac, ma l’elenco sarebbe lungo) e chi oggi non dispone di ciò spera soltanto di poter averlo al più presto.

L’imposizione fiscale abnorme ha fatto sì che la maggior parte degli europei cerchino di realizzare quello che Giuseppe Prezzolini ebbe un giorno a definire il sogno della maggior parte degli italiani, che in fondo vogliono solo “lavorare poco e guadagnare tanto”, ma che sono anche pronti ad accontentarsi di “lavorare poco e guadagnare poco”. Continuando su questa strada (e sono già quasi totalmente pubblici l’istruzione, la sanità, l’università, i trasporti e molti altri settori), saranno presto accontentati.

Roma insomma è solo l’apripista, ma il disastro è ben più ampio e generalizzato. E in questo quadro non è sensato pensare di trovare “capitali morali”, fingendo che l’infezione sia localizzata. Purtroppo non è così.

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Un recente rapporto del Labor Department degli Stati Uniti ha spiegato che studiare potrebbe non essere più sufficiente per garantirsi un posto di lavoro adeguato. Il 65% dei ragazzi che oggi siede su un banco di scuola si troverà a fare un lavoro che ancora non esiste. La tecnologia sta provocando un mutamento storico del mercato del lavoro: è già successo in passato (si pensi alla Rivoluzione industriale) ma mai con questa rapidità.

Il sistema scolastico appare oggi inadatto ad affrontare queste sfide. Diventa fondamentale modificare il modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi, passando da un sistema di insegnamento fondato sul trasferimento di nozioni a uno capace di trasmettere metodo e di incentivare creatività e capacità di adattamento. Se stiamo parlando di qualcosa che ancora nemmeno esiste dobbiamo anche avere l’umiltà di ammettere che non serve immaginare percorsi di formazione specifici e basati su un mondo che non esiste. Dobbiamo invece abituare studenti e lavoratori all’idea che, fornite le basi tecniche e di conoscenza, l’apprendimento non è più una fase della vita circoscritta alla giovinezza ma deve diventare un aspetto con cui convivere sempre.

Chi oggi frequenta un qualsiasi corso di informatica sa già che sta incamerando informazioni che probabilmente saranno ormai superate quando avrà finito il suo percorso scolastico: vale per chi siede su un banco del primo anno del liceo scientifico così come per chi sta sostenendo il primo esame universitario di ingegneria informatica. I neolaureati o neodiplomati in materie informatiche o statistiche hanno iniziato la loro formazione quando su LinkedIn, il popolare social network dedicato ai professionisti, erano iscritti 89 sviluppatori di applicazione per iPhone, 53 sviluppatori di applicazioni per Android, 25 esperti in gestione di social network, nessun analista di Big Data e 195 specialisti in servizi cloud. In meno di un lustro questi posti di lavoro si sono moltiplicati: gli sviluppatori di app per iPhone sono 142 volte quelli del 2009, quelli che si occupano di sviluppare applicativi per Android 199 mentre gli esperti di Big Data sono oggi 3.340 volte quelli di allora. Nessuno dei loro professori gli aveva mai spiegato che con un telefono si sarebbe potuto operare sui conti correnti bancari, ascoltare musica o che l’analisi dei dati avrebbe aiutato i Governi di tutto il mondo a migliorare le proprie scelte di politica pubblica.

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

di Massimo Blasoni – Metro

Puntuale come ogni anno, ecco irrompere il dibattito sulla Legge di Stabilità. Il premier e il ministro dell’Economia, dopo averne inviato in sede europea una sintesi molto succinta, hanno illustrato i suoi principali contenuti sotto forma di slide dalla grafica accattivante. A quel punto hanno iniziato a rincorrersi le dichiarazioni di deputati e senatori, che a seconda della loro collocazione politica ne elogiano o criticano l’impostazione. Solo dopo una settimana il testo è approdato finalmente in Parlamento e al solito verrà emendato in maniera significativa durante il suo iter di approvazione. Col risultato che i cittadini si ritroveranno con un provvedimento assai diverso da quello presentato.

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Jobs Act, le virtù e i molti limiti

Jobs Act, le virtù e i molti limiti

di Massimo Blasoni – Metro

Anche grazie al Jobs Act, nell’ultimo anno l’efficienza nel nostro mercato del lavoro ha guadagnato 10 posizioni a livello internazionale. Attenti però a festeggiare. Nell’ultima classifica pubblicata dal World Economic Forum restiamo ancora una volta ultimi in Europa e ci collochiamo al 126esimo posto su 140 Stati censiti nel mondo: subito dopo il Marocco, El Salvador e l’Isola di Capo Verde e a un livello leggermente superiore a quelli di Turchia, Uruguay e Bolivia.

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Emergenza migranti: una potenziale bomba per i conti pubblici

Emergenza migranti: una potenziale bomba per i conti pubblici

di Massimo Blasoni – Panorama

Il nostro Paese sconta la scarsissima trasparenza sugli ingenti costi pubblici sostenuti in questi anni per la gestione degli sbarchi così come sui contributi economici che a nostro favore potrebbero essere stanziati in sede comunitaria. Emerge con chiarezza che i costi stanno crescendo esponenzialmente di anno in anno. L’effetto è generato in parte dall’aumento degli sbarchi, in parte dalla lentezza con cui il nostro sistema esamina le richieste di asilo e dispone gli eventuali rimpatri. Senza un’accelerazione su questo fronte e una politica europea comune di redistribuzione dei profughi tra tutti i Paesi rischiamo di ritrovarci con una pericolosa bomba nei nostri conti pubblici. L’Italia non può più essere lasciata sola di fronte a questo dramma epocale.

Scuola, Stato e pluralismo educativo

Scuola, Stato e pluralismo educativo

di Carlo Lottieri

Ha in sé qualcosa di grottesco la volontà del ministro francese Najat Vallaud-Belkacem di escludere da tutte le scuole della Repubblica (in quanto ritenuta “sessista”) la favola di Cappuccetto Rosso. Sempre più spesso stupidità e politicamente corretto procedono assieme, restringendo gli spazi di libertà dei singoli. Sullo sfondo di tale vicenda, però, c’è una questione più generale che riguarda il nostro paese non meno che la Francia: e si tratta dei programmi ministeriali.

In Italia come in Francia, come in molti altri Paesi occidentali e non solo, le scuole sono istituzioni che godono di una libertà molto limitata. Un po’ ovunque, insomma, la classe politica di governo pretende di definire e orientare cosa deve essere insegnato nelle aule e in che modo. D’altra parte, fin dal diciannovesimo secolo l’istruzione di Stato è un pilastro fondamentale di un progetto ben preciso che punta a controllare l’intera società, tenendo sotto controllo gli spazi in cui i giovani definiscono i loro principi, valori e ideali.

In tal modo le aula scolastiche di Stato sono destinare a essere di volta in vola fasciste, laiciste, clericali, comuniste, tecnocratiche e via dicendo. Le classi politiche proiettano le proprie logiche sull’intera società e usano il sistema d’istruzione per manipolare le giovani menti. La relazione tra il giovane e la famiglia viene progressivamente svuotata, per favorire una maggiore uniformità culturale e “costruire” buoni cittadini, contribuenti ed elettori.

L’argomento usato dai difensori dell’educazioni di Stato è ben noto. Alle istituzioni pubbliche spetterebbe il compito di “liberare” la società dai pregiudizi. Un’élite di persone illuminate avrebbe insomma il compito di far crescere una società più moderna, aperta e tollerante, anche se poi resta sempre da definire quale si il vero contenuto di tali modernità, apertura e tolleranza. Senza dubbio l’idea di un’istruzione pubblica e comune a tutti muove comunque dalla tesi che vi è chi possiede un punto di vista e, per questa ragione, ha il diritto e il dovere di controllare il sistema d’istruzione.

L’alternativa esiste e si chiama pluralismo educativo. Opponendosi alla visione tecnocratica e statalista, questa tesi valorizza la diversità dei punti di vista e la necessità di meccanismi concorrenziali, così che all’interno della medesima società si possa scegliere tra proposte educative diverse. In tal modo ogni scuola dovrebbe essere spinta a sviluppare una propria modalità d’insegnamento e a individuare i contenuti più adatti a una vera crescita umana e professionale.

In questa visione le famiglie sono centrali. In una società liberale, d’altra parte, l’argomento statalista secondo il quale taluni genitori possono usare la propria funzione per inculcare idee violente, fondamentaliste ed estreme non può essere utilizzato per spogliare padre e madre del diritto a educare i figli secondo i propri valori. In linea di massima, nessuno ama i propri figli come la madre e il padre, e per questo motivo è bene che l’educazione sia primariamente nelle loro mani.

Ovviamente un padre che manipola il figlio fino al punto da spingerlo a trasformarsi di una “bomba umana” perde il diritto a prendersene cura, ma questa situazione-limita non può essere chiamata in causa per dissolvere la centralità della famiglia e per negare un fatto cruciale: e cioè che le scuole devono sempre rispondere di fronte ai genitori dei ragazzi di ciò che insegnano e del modo in cui lo fanno. Solo se gli istituti scolastici fanno di tutto per andare incontro alle esigenze delle famiglie possono sperare di avere un buon sistema educativo.

Abbiamo insomma bisogno non già di miniatri che ci dicano cosa i bambini devono leggere, quali materie devono studiare, in quali valori devono credere, ma invece di un mercato di soluzioni educative dierse fra loro, con o senza Cappuccetto Rosso. E abbiamo necessità di dirigenti scolastici che siano animati da uno spirito imprenditoriale e comprendano la necessità di mettersi al servizio dei giovani e delle loro famiglie, sforzandosi d’individuare le soluzioni migliori. La scuola, come ogni altro ambito, può funzionare se non è fuori mercato. È bene che lo si comprenda alla svelta.

Camere di Commercio da riformare

Camere di Commercio da riformare

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Quando si comincia a dare un’occhiata al totale generale dei costi delle 105 Camere di Commercio italiane sorge qualche dubbio sulla razionalità della spesa per il loro funzionamento. Nel 2014 questi enti pubblici autonomi hanno speso 1 miliardo e 851 milioni di euro (dati SIOPE): 367 milioni per i propri dipendenti e il resto in contributi, acquisto di beni e servizi, investimenti e operazioni finanziarie che hanno generato una miriade di società partecipate.
Come si sa, le Camere svolgono diverse attività utili come la tenuta del registro delle imprese, il rilascio di firme digitali, la gestione degli sportelli unici per le attività produttive in alcuni Comuni, lo studio e la promozione delle imprese. Molte loro prestazioni sono però rese in regime di monopolio e non certo di concorrenza. Ad esempio pressoché solo la Camera di Commercio o professionisti convenzionati possono rilasciare visure, bilanci e notizie sui protesti. E a stabilire il costo di queste prestazioni non è il mercato ma chi le eroga, impiegando ben 7.500 dipendenti. Un po’ troppi, nell’era dell’informatizzazione.
È ad esempio difficile pensare che una gestione più razionale ed efficiente avrebbe portato la Camera di Commercio di Roma ad avere quasi 500 dipendenti, peraltro tutti quanti beneficiati nel 2013 da compensi extra stipendiali (dai 6 mila euro per gli impiegati agli oltre 30 mila euro per i dirigenti). E non si obietti che queste strutture sono finanziate dalle imprese e non dalla fiscalità. Le loro entrate sono infatti derivanti in parte da contributi pubblici, in parte dal pagamento annuale obbligatorio dei diritti camerali al quale sono tenute obbligatoriamente tutte le imprese in ragione del loro fatturato. Un’ennesima tassa, insomma.
Ecco perché una robusta cura dimagrante delle Camere di Commercio risponderebbe a una logica di buona amministrazione. Buona parte della loro attività potrebbe essere facilmente garantita da altri enti: dall’Università (per le attività di studio) alle Regioni (per la promozione delle aziende). Abolire le loro sedi così come le segreterie e gli eccessi di rappresentanza, ridurre il personale addetto e superare in tal modo le duplicazioni consentirebbe di dimezzare gli attuali costi a carico di imprese e cittadini.

10.7 Il Tempo (2)