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Digital Tax? Per favore no
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di Massimo Blasoni – Metro
Questo governo continua ad aumentare le tasse sostenendo di averle diminuite. E non ancora soddisfatto, nei giorni scorsi ha annunciato in tempi brevi una Digital Tax in grado di colpire l’elusione fiscale dei giganti della Rete. Al di là delle polemiche politiche (quando governava Letta lo stesso Renzi bocciò una proposta identica, che però aveva il difetto di chiamarsi Web Tax), resta il fatto che il suo costo verrà subito fatto ricadere dalle aziende sui consumatori italiani, contribuendo così a deprimere ulteriormente un settore che da noi stenta a decollare.
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Ridurre la spesa si può: chiedete a Maroni
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Massimo Blasoni – Panorama
Nei primi anni Settanta il peso di tasse e imposte sul Pil italiano non arrivava al 25%. Oggi supera il 50% in termini reali. È necessaria una significativa riduzione di questo carico che grava sui consumi degli italiani e frena la possibilità di fare impresa e di attirare investimenti esteri. Ciò è possibile solo a patto di comprimere il perimetro di attività dello Stato: Regioni, Province e Comuni hanno moltissimo,incrementando costantemente costi e attività svolte anche quando, con vantaggio, potevano essere lasciate al mercato. Oggi si ipotizza di abolire la Tasi, ma ogni annuncio di minori tasse che non parta da una precisa elencazione delle spese che si vogliono tagliare, rischia di risultare poi disatteso. Ovvero di produrre nuove imposte in luogo di quelle abolite: è già successo.
Nelle intenzioni del Governo il minor gettito derivante dall’abolizione della tassa sulla prima casa e altro dovrebbe essere compensato da tagli per almeno 10 miliardi di euro. Operazione non facile se pensiamo che negli ultimi anni la spesa è sempre cresciuta malgrado tutti i propositi di razionalizzarla. I dati del DEF sono impietosi: nel 2012 la spesa corrente al netto degli interessi sul debito era pari a più di 671 miliardi, cresciuti nel 2013 a 684 e poi a 692,3 miliardi nel 2014. Non è ovunque così, tanto che il governo di David Cameron in Inghilterra è riuscito a ridurre tra il 2010 e il 2013 la spesa di quasi 50 miliardi e oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria più grave di quella che investito l’Italia, cresce tra il 2 e il 3% annui. In Italia invece, diversamente dagli altri partner europei, si riduce la spesa per investimenti anziché quella corrente. Lo Stato ha tagliato tra il 2009 e il 2013 15,9 miliardi di euro di investimenti – dato Eurostat – ma malgrado ciò la spesa complessiva è salita.
Quanto a incremento di spesa corrente negli ultimi anni, meritano un richiamo le Regioni. Dai dati resi noti dalla Corte dei Conti sui flussi di cassa necessari a sostenere la loro spesa, si rileva che dal 2011 al 2014, in pieno periodo di spending review, questa è cresciuta da 141,7 a 145,6 miliardi. Non tutte le Regioni si comportano ugualmente, però. Nello stesso arco temporale la virtuosa Lombardia ha ridotto del 11,6% le proprie spese, mentre il Lazio le ha accresciute del 33%. In termini assoluti per ogni cittadino la Lombardia spende 1.739 euro, poco più della metà del Lazio, la Regione che, con i suoi 3.129 euro di spesa corrente procapite, fa segnare l’esborso più alto tra tutte quelle a statuto ordinario. Questa rilevante differenza, a parità di competenze, fa riflettere e, se proiettata a livello nazionale, ci convince ancor di più che ridurre la spesa pubblica è possibile. In questo caso la Lombardia insegna.
Tasse e burocrazia, l’Italia soffoca le imprese
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Massimo Blasoni – Il Giornale
Il dibattito politico viene da mesi monopolizzato da numeri, percentuali, tendenze del Pil e andamento dell’occupazione. Cresciamo dello 0,7%, l’inflazione cresce dello 0,2%: si ha spesso l’impressione di parlare di qualcosa di etereo e poco concreto. Le tasse, la burocrazia, le difficoltà di accesso al credito sono invece aspetti quotidiani e molto concreti con cui le imprese si confrontano ogni giorno.
La difficoltà di fare impresa in Italia è evidente dal confronto con gli altri partner europei: ipotizziamo una sfida Italia-Inghilterra. Prendiamo due aziende manifatturiere che producono esattamente la stessa cosa. Una ha sede nell’hinterland milanese e l’altra nella periferia di Londra. Partiamo da uno dei principali fattori produttivi: il lavoro. Anche lasciando da parte per un attimo i difficili rapporti sindacali, il tasso di assenteismo e di sciopero, lo scarso aiuto che i servizi pubblici di collocamento offrono alle imprese ci rendiamo subito conto che il costo che le due aziende sostengono per retribuire i propri dipendenti penalizza nettamente l’impresa italiana. Questa avrà, secondo i dati Eurostat, un costo medio orario di 28,3 euro, contro i 22,3 euro dell’azienda inglese. Purtroppo i nostri lavoratori non sono pagati meglio, piuttosto subiscono un cuneo fiscale (tasse e contributi) che pesa per il 44,9% in Italia e per il 26,8% in Inghilterra.
Non va meglio se guardiamo ai costi dell’energia. Una media impresa italiana paga le proprie forniture energetiche il 30% in più di un’azienda britannica evidenziando tutti gli errori di prospettiva che si sono commessi negli ultimi vent’anni in materia, dall’aprioristico rifiuto del nucleare ai cronici ritardi infrastrutturali.
La burocrazia rende il divario ancora maggiore. Per costruire un nuovo capannone l’imprenditore italiano attenderà 233 giorni per ricevere dalle autorità competenti il permesso di costruzione. L’imprenditore londinese avrà già iniziato a far lavorare l’impresa edile da ben 4 mesi, dovendo aspettare 105 giorni, meno della metà. E a Londra si attende meno della metà anche per l’esito di una causa in sede civile: 407 giorni contro i 1.185 giorni necessari per i nostri tre gradi di giudizio. I dati sono tutti tratti dal rapporto annuale della Banca Mondiale.
Se poi la nostra impresa si trova nella sfortunata condizione di essere fornitrice di una Pubblica Amministrazione dovrà sopportare un’attesa media di 144 giorni. Un tempo sei volte superiore a quello medio nel Regno Unito, dove con 24 giorni trascorsi tra l’emissione della fattura e il pagamento il settore pubblico si dimostra addirittura più celere di quanto richiesto dalla direttiva comunitaria in materia. Questi ritardi nei pagamenti hanno un costo assai rilevante per le nostre imprese: i crediti vanno anticipati presso il sistema bancario e il nostro sistema creditizio è tra i più costosi d’Europa.
Infine ci sono le tasse. Al cuneo fiscale cui si è accennato poco sopra vanno aggiunte le tasse sugli utili d’impresa, con un Total Tax Rate –lo dice sempre la Banca Mondiale – che raggiunge nel nostro paese il livello record del 65.4% dei profitti. Più di 30 punti percentuali sopra il Tax Rate dei sudditi di Sua Maestà che si ferma al 33,7%. Non basta: per noi è anche difficile essere in regola con il fisco. Una media impresa britannica impiega ogni anno 110 ore per gli otto appuntamenti fiscali previsti dal governo. In Italia la cifra raddoppia: 15 pagamenti ogni anno per un impiego di 269 ore e un costo per l’azienda di 7.600 euro. Una specie di tassa sulle tasse.
Un solo accenno alla spesa pubblica, che indirettamente molto incide sulla vita delle aziende. L’esecutivo di David Cameron, dal 2010 al 2013, ha tagliando 2,6 punti percentuali di Pil di spesa facendo scendere i costi statali dal 47% al 44,4%. Una sforbiciata che vale in termini reali 57 miliardi. Nello stesso periodo, nonostante i molti annunci di spending review e i tanti Commissari per la revisione della spesa, l’Italia ha visto crescere la spese pubblica. Ovviamente finanziandosi con le sempre crescenti tasse di cittadini e imprese.
Davanti a questi numeri è davvero difficile stupirsi nel vedere il Pil del Regno Unito crescere del 2,6% su base annua e non capire perché è davvero difficile fare impresa in Italia. Un ultima considerazione. Abbiamo evitato di confrontare la difficoltà del nostro imprenditore dell’hinterland milanese con quelle di un imprenditore bavarese: il confronto sarebbe diventato davvero impietoso.
Massimo Blasoni
Imprenditore, Presidente Centro Studi ImpresaLavoro
Una proposta che funziona – Editoriale di Massimo Blasoni
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Massimo Blasoni – Panorama
La pressione dell’insieme di imposte e tasse sul nostro Pil è passata dal 20% del 1975 al 50%, in termini reali, del 2015. Un incremento enorme sia delle imposte dirette che di quelle indirette e che non ha lasciato indenni né la casa né i nostri risparmi» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Dal 2010 ad oggi le tasse sulle abitazioni sono passate da 32 a 50 miliardi e quelle sul risparmio da 9 a 16. La Total Tax Rate sulle imprese è tra le più alte al mondo e raggiunge il 65,4% dei redditi prodotti dalle nostre aziende. È indifferibile, quindi, un’azione di contenimento del carico fiscale, almeno sui redditi delle persone. La Flat Tax, anche in una versione “italiana” a due aliquote, rappresenta certamente una strada utile ma soprattutto percorribile, come è dimostrato dal nostro studio.
* Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro
Per il credito ora serve una spinta – Editoriale di Massimo Blasoni
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