ernesto galli della loggia

Le battute non bastano

Le battute non bastano

Ernesto Galli Della Loggia – Corriere della Sera

I gufi e i rosiconi fatidici sono stati per il momento smentiti. La campanella dell’ultimo giro che solo poche settimane fa sembrava sul punto di suonare per Matteo Renzi è viceversa rimasta muta. In questo agosto, infatti, il premier ha mostrato capacità di ripresa e d’iniziativa politica che insieme alla sua ben nota energia lo hanno fatto uscire dalla situazione di stallo in cui sembrava essersi ridotto. Anche se lo stesso Renzi ha dovuto prendere atto che, a differenza degli Stati Uniti, l’Italia non è Paese da «Cento Giorni»: per combinare qualcosa d’incisivo, da noi di giorni è meglio metterne in conto almeno mille, e infatti le molte e importanti decisioni che si annunciano nel Consiglio dei ministri di domani sembrano per l’appunto distendersi nei loro effetti su un simile arco temporale.

Sempre dando per scontato, naturalmente, quanto in Italia invece non può mai esserlo, e che infatti da decenni è il vero punto critico dell’azione di qualunque governo: cioè che alle decisioni dall’alto si sia capaci di far seguire i fatti in basso, che alle riforme a parole seguano le riforme delle cose. Dunque da questi sei primi mesi di governo Renzi esce con non molti traguardi raggiunti ma con la sua forza sostanzialmente intatta.

A mio giudizio, però, anche con due punti deboli se cancellasse i quali il nostro presidente del Consiglio ne avrebbe tutto da guadagnare. Il primo riguarda lo stile che egli ha adottato per comunicare con l’opinione pubblica. A cominciare dal tono di ottimismo e di fiducia che caratterizza regolarmente i suoi interventi, punteggiati spesso di battute, di esortazioni ironiche, di parentesi salaci su questo e quello. Non vorrei sembrare un piagnone triste e tanto meno un nostalgico dell’algida cupezza montiana, ma sono convinto che per dare la scossa a un Paese che è precipitato in una situazione difficile, molto difficile, come l’Italia, converrebbe maggiormente un discorso dal tono serio, incline alla gravità più che alla leggerezza e all’ottimismo programmatico, come invece fa Renzi. Dopo un po’ l’ottimismo, infatti, rischia sempre di apparire di maniera; e spesso finisce per costeggiare pericolosamente la fatuità, facendo sembrare fatuo anche chi lo pratica. Un pericolo certo aggravato nel caso del presidente del Consiglio dalla giovane età, che pure per altri versi gioca giustamente a suo favore.

Personalmente poi non mi sembra alla lunga efficace neppure la comunicazione spezzettata e tendenzialmente alluvionale tipica del tweet, carissima a Renzi e consistente in una serie di brevi frasi apodittiche. Forse è l’ideale per le agenzie di stampa e per la pratica della digitazione isterico-maniacale sugli smartphone in cui è impegnato 24 ore su 24 il politico professionista italiota, ma ho il sospetto che alla gente, invece, faccia l’effetto di una forma di «battutismo» che, ripetuta tre o quattro volte al giorno per 365 giorni all’anno, non depone certo a favore della serietà e dell’impegno di chi vi si dedica. Senza contare che un eccesso di comunicazione rischia sempre, alla fine, di vanificare il messaggio insieme al suo autore. Il secondo palese punto debole di Renzi sta nella mancanza intorno a lui di una vera squadra di governo: ciò che probabilmente testimonia di un suo rapporto difficile e al limite inesistente con le élite del Paese. Giunto a Roma con un piccolo gruppo di fedelissimi alla sua persona in forza di un vincolo più o meno antico d’amicizia, di essi soli egli sembra fidarsi veramente e con essi soli sembra collaborare davvero. Saranno di certo tutti abili e di provato valore, non discuto, ma una squadra di governo è un’altra cosa. Significa competenze molteplici, accesso a conoscenze specifiche, possibilità di mobilitazione di energie esterne, reti di relazioni e dunque contatti con persone e ambienti a vario titolo importanti. Significa cioè un governo che in qualche modo rappresenti, e si consideri esso stesso, il vertice della classe dirigente del Paese.

So bene che nel caso di Renzi proprio una parte almeno della classe dirigente italiana non lo vede troppo di buon occhio, ma la migliore risposta non è rinunciare ad avere un rapporto con essa, bensì semmai – per un uomo politico che voglia lasciare un segno – quella di cercare di costruirne in embrione dei nuclei alternativi. E qui il discorso inevitabilmente si allarga. A mio parere la polemica renziana contro i «salotti buoni» è sostanzialmente giusta perché si appunta contro un aspetto importante della grande ingessatura oligarchico-corporativa che immobilizza l’Italia. Ma risulta una polemica sterile, gravata per di più da uno sgradevole sospetto di risentimento personale, se essa non si traduce immediatamente nella capacità di fare appello a energie diverse, di costruire luoghi e sedi – come potrebbe essere per l’appunto una squadra di governo – dove riunire forze realmente nuove per compiti nuovi. Energie, forze, che per fortuna nella società italiana non mancano.

Per come è messo il Paese, insomma, il governo attuale rappresenta un’occasione troppo importante per vederlo perdersi tra un tweet e l’altro o avvitarsi nell’isolamento in cui finora si è mosso. Il tempo per rimediare non è molto, ma ancora c’è.

Elite avvelenate, gufi e rosiconi

Elite avvelenate, gufi e rosiconi

Ernesto Galli Della Loggia – Corriere della Sera

Si può riformare l’Italia con il concorso delle élite? Si possono con il loro consenso cambiare le regole che ci stanno strangolando? È questo l’interrogativo che oggi il Paese si trova di fronte, e in particolare che si trova di fronte il presidente del Consiglio, stando anche a quello che si legge nel colloquio di ieri con La Stampa.
Le élite italiane non amano Matteo Renzi. Lo hanno guardato con crescente simpatia nella sua fase per così dire «retorica», quando combatteva per conquistare la leadership e si è subito segnalato per la novità del suo linguaggio, delle cose che diceva (alcune delle quali fino a poco tempo prima a sinistra inconcepibili) e per come le diceva. Ma quando dalle parole si è cominciato a passare ai fatti le cose sono mutate. Allora hanno preso a fioccare via via prima i distinguo («È giovane e simpatico ma ha troppa fretta e troppa ambizione»), poi le obiezioni («Non ha una squadra all’altezza», «Vuol mettere troppa carne al fuoco», «Conta eccessivamente sul potere delle parole»; tra parentesi: tutte cose in cui c’è del vero), infine le critiche vere e proprie.

Tra le quali bisogna distinguere. Da un lato ci sono le critiche di natura più spiccatamente politico-ideologica, il più delle volte assurdamente eccessive come quella di autoritarismo. Queste critiche come è ovvio vengono quasi esclusivamente dalle élite di sinistra, egemoni in settori importanti come la cultura, la comunicazione, lo spettacolo – che incarnano peraltro una peculiarità italiana: la forte simpatia-importanza-presenza che per ragioni storiche e/o di puro opportunismo opinioni e abiti mentali di sinistra, a volte anche radicaleggiante, hanno in tutti i piani alti della società -. Di Renzi tali élite di sinistra mettono ferocemente sotto accusa soprattutto un aspetto: la sua intesa con la Destra berlusconiana. Intesa certo anomala, ma che a pensarci bene può essere vista come la risposta a quella altrettanto anomala, tipica dell’Italia, tra la suddetta élite intellettuale di sinistra e il potere socio-economico tradizionale. In realtà soprattutto l’élite intellettuale si sente specialmente colpita, io credo, da altri aspetti del «renzismo»: per esempio dalla palese indifferenza del presidente del Consiglio per i «venerati maestri», dal suo mancato omaggio alla loro persona, nonché dalla sua evidente avversione per le pratiche di cogestione-lottizzazione-influenza tipiche di tale élite specie in istituzioni pubbliche come la Rai, l’Università e tante altre.
Ma accanto a queste ci sono le critiche provenienti dalle élite dell’economia, delle professioni, dell’amministrazione pubblica. Qui la forte ambizione riformatrice di Renzi e il suo piglio valgono a mettere il dito su una evidente contraddizione che da anni è al fondo del modo di pensare di questi gruppi sociali, ma che aveva potuto finora rimanere comodamente nascosta.

In gran parte essi nutrono propositi di cambiamento anche radicali, ripetono più o meno da sempre che «così non si può andare avanti», sono a ogni momento pronti a mettere sotto accusa la politica per i suoi ritardi e incapacità. Ma della politica essi hanno vitalmente bisogno. Storicamente, infatti, lo status e i relativi privilegi grandi e piccoli di medici, avvocati, magistrati, alti dirigenti pubblici, professori universitari, giornalisti si sono costruiti in buona parte grazie per l’appunto alla protezione loro offerta dalla politica. Non parliamo dell’industria, della banca, del commercio. Qui sostegno statale diretto, legislazioni favorevoli, limitazioni alla concorrenza, regimi di volta in volta ad hoc nelle concessioni, negli appalti e nelle licenze – tutto dipendente dalla politica – hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo decisivo.

Come meravigliarsi se questo poderoso complesso d’interessi – i cui vari settori per giunta sono generalmente dominati da gruppi di comando di età avanzata – sebbene possa talvolta esprimere opinioni e desideri di cambiamento, ne tema al tempo stesso moltissimo ogni reale ed effettiva avvisaglia? Come meravigliarsi se esso cerchi di esorcizzarla celando il proprio malumore dietro le critiche mascherate da una delusione di maniera?

In realtà la sessantennale vicenda della democrazia italiana ci ha lasciato un’eredità avvelenata: vale a dire una compagine sociale per la quale è oggi difficile immaginare una qualunque riforma, o quasi, che non colpisca in modo significativo interessi forti e ramificati. Capaci di agitare lo spauracchio, in termini di consenso, che è stato sempre fatto valere contro ogni governo riformatore: il prezzo delle riforme lo si paga subito, mentre i vantaggi si vedono solo dopo.

Manca in questa rassegna un ultimo protagonista: la stampa. I giornali amano Renzi? Ovviamente a seconda dei giornali, risponderei io. Per il presidente del Consiglio e i suoi seguaci – specie quelli della 24esima ora – ho l’impressione che invece la risposta sarebbe: no, per nulla; o comunque mai abbastanza. Ma il potere, qualunque potere, pensa sempre così a proposito dei giornali e di chi ci scrive. Questi però, sebbene facciano parte anch’essi di un’élite privilegiata, cercano, per lo più, in realtà, di fare solo il loro mestiere, che per sua natura è – giustamente! – un mestiere daltonico: abituato cioè a vedere più il nero che il bianco, e a scorgere sempre anche nel bianco qualche traccia di grigio. Renzi perciò se ne convinca: «i gufi e i rosiconi» veri, quelli che contano, usano strumenti diversi dalla carta dei giornali.