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Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Delrio sconfessa Renzi: debiti con le aziende pagati a metà

Filippo Caleri – Il Tempo

Alla fine la verità sta nel mezzo. Anche nel caso dei debiti della pubblica amministrazione che negli ultimi giorni sono stati al centro di un’autentica lotteria. Gli artigiani della Cgia di Mestre hanno sostenuto che Renzi non ha mantenuto la promessa di saldarli tutti entro il 21 settembre, il premier sceso in campo per precisare che era già tutto in pagamento. Così ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha confermato che in realtà i soldi a disposizione delle imprese sono 55-60 miliardi, ma quelli effettivamente pagati sono 31-32 a causa di ritardi prevalentemente dovuti alla comprensione da parte delle aziende del nuovo sistema per liquidare i loro crediti verso la pubblica amministrazione. «Posso garantire che il meccanismo che abbiamo messo in piedi è assolutamente certo ed esigibile» ha detto Delrio a margine di un’audizione al Parlamento Ue, sottolineando che «sul fatto che ogni imprenditore può andare a riscuotere quello che gli è dovuto non c’è alcun dubbio». Quindi Delrio ha spiegato che «il fatto che da 60 o 55 (miliardi), come presumibilmente saranno alla fine quelli reali, si sia arrivati a 31-32, dipende dai meccanismi di velocizzazione che le imprese hanno avuto nel rendersi conto del nuovo sistema». Delrio ha aggiunto al riguardo che «a volte alcuni enti locali non hanno pagato le loro partecipate», precisando che in questi casi «c’è anche qualche ritardo un po’ colpevole, tra virgolette». Dunque alla fine se i soldi ci sono ma non sono stati erogati è come se non ci fossero. Secondo questa tesi Renzi dovrebbe pagare la penitenza di andare a piedi al santuario del Monte Senario come annunciato nella puntata di Porta a Porta nel caso non avesse assolto l’impegno. A rincarare la dose è stato ieri il vicepresidente vicario dell’Europarlamento Antonio Tajani: «Mancano ancora all’appello circa 60 miliardi dallo Stato per i pagamenti dei debiti della pa». Dati alla mano, «la Banca d’Italia ha stimato i debiti della Pa al 31 dicembre 2012 a circa 90 miliardi», ha spiegato Tajani. «Da parte sua il governo ha stanziato 56,8 miliardi di questi sono stati erogati alle pubbliche amministrazioni 30, ma la Pa ne ha pagati 26,1. Dunque in totale mancano intorno ai 60 miliardi: 30 miliardi di quelli che sono stati stanziati e altri 30 circa ancora da stanziare». Infine Massimo Blasoni, presidente del centro studi “ImpresaLavoro” ha detto che «liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione».

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Senza tagli alla spesa, o in presenza di un drastico ridimensionamento, la prossima legge di stabilità perderebbe la sua principale fonte di finanziamento, rendendo di fatto impossibile onorare tutti gli impegni in lista di attesa. Si va dalla stabilizzazione del bonus Irpef, ai nuovi capitoli di spesa che sarà necessario affrontare (dal costo delle missioni internazionali al finanziamento di altre spese inderogabili), per finire con gli impegni già contenuti nella legislazione vigente. Dulcis in fundo, la necessità di garantire – come chiede Bruxelles – che il deficit strutturale venga ridotto già dal 2015 in modo da garantire il rispetto dell’obiettivo di medio termine, in sostanza il pareggio di bilancio. La somma dei diversi addendi fa salire l’importo complessivo della manovra d’autunno nei dintorni dei 20 miliardi. E sono almeno 14 miliardi i tagli strutturali alla spesa corrente da realizzare tutti con la prossima legge di stabilità, che salgono a 17 miliardi se si aggiungono gli impegni finanziari già assunti dal governo Letta, quando ancora devono essere realizzati i tagli da 2,6 miliardi inseriti sotto forma di copertura di parte del bonus Irpef per l’anno in corso. La mission che attende il Governo è questa, e la partita si annuncia a dir poco complessa, ora che i dissensi tra il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, Palazzo Chigi e parte del Parlamento sono emersi in tutta la loro evidenza.

Impensabile realizzare interventi di tale portata senza l’apporto decisivo dell’azione complessiva di razionalizzazione della spesa pubblica, che comunque dovrà garantire risparmi strutturali e a regime per non meno di 32 miliardi. Il punto di rottura e il vero banco di prova per la tenuta del governo è proprio qui, su questo terreno, perché va a investire frontalmente scelte politiche (non certo indolori, anche sul fronte del taglio delle agevolazioni fiscali), da adottare e difendere in Parlamento, quando in autunno Camera e Senato saranno chiamate ad approvare un così consistente piano di revisione dei meccanismi stessi che presiedono alla formazione della spesa. Il ruolo di Cottarelli, o di chi sarà chiamato a sostituirlo, è tutt’altro che secondario, e non si limita a un semplice esercizio ricognitivo.

Si tratta – ed è quello che lo stesso Cottarelli si accingeva a fare – di indicare con precisione dove e come far scattare il bisturi dei tagli selettivi. Così da creare di conseguenza gli spazi finanziari per ridurre le tasse sul lavoro. Ma se si esclude – per evidenti ragioni politiche e di consenso – di intervenire in settori nodali come la sanità (materia di intese bilateraili tra governo e Regioni all’interno del Patto della salute), la previdenza (argomento ad alta valenza politico-elettorale), se il disboscamento delle municipalizzate si riduce a una semplice azione di “manutenzione”, dove intervenire? Possibile ipotizzare che si agisca in via esclusiva sul fronte degli acquisti di beni e servizi, settore in cui magna pars è costituita proprio dalle spese sanitarie? Possibile intervenire senza riaprire il dossier dei costi e fabbisogni standard? Se poi – come ha denunciato lo stesso Cottarelli – si prenotano ex ante risparmi ancora da realizzare per finanziare nuova spesa corrente (la cosiddetta «quota 96» per 4mila insegnanti), il vero rischio è che la stessa mission della spending review venga vanificata, aprendo di fatto la strada alla vecchia, abusata prassi dei tagli lineari. Ecco perché il vero nodo è tutto politico, e non sarà agevole districarlo. Sono interrogativi che andranno sciolti in fretta, la cui soluzione va oltre la «questione personale» che sta dietro il caso Cottarelli, come definita ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. L’impegno – fa sapere Delrio – è a continuare sulla spending review «senza nessun problema. È un obiettivo del governo e non dipende dalle persone che la conducono». E il premier Matteo Renzi aggiunge: la spending si farà anche senza Cottarelli.

Il punto è che dal lato del deficit non vi sono margini. In attesa che l’Istat renda noti, il prossimo 6 agosto, i dati relativi al Pil del secondo semestre, al ministero dell’Economia si stanno già facendo i conti con una previsione di crescita che – se andrà bene – risulterà almeno dimezzata rispetto alle stime del Def di aprile (0,8%). Ne consegue che il deficit nominale scivolerà di fatto verso il limite massimo del 3%, contro il 2,6% previsto in primavera. Ogni ulteriore sforamento imporrebbe il ricorso a una manovra correttiva dei saldi di finanza pubblica, che a ottobre con ogni probabilità dovrebbe concretizzarsi in aumenti d’imposta. Ipotesi da scongiurare, per non aggravare ulteriormente gli andamenti attuali dell’economia reale. Scenari che impongono massima vigilanza e determinazione, anche nel caso in cui possa venire in soccorso una minore spesa per interessi grazie al calo dello spread.