innocenzo cipolletta

L’Europa non cresce perché ha deciso così

L’Europa non cresce perché ha deciso così

Innocenzo Cipolletta – L’Espresso

Il primo ministro italiano ha un sogno: la parità tra dollaro e euro. Questo significa una svalutazione di almeno il 20% rispetto alla fine del 2014. E non c’è dubbio che la manovra della Bce denominata Qe (quantitative easing) vada in questa direzione. Certo, una svalutazione dell’euro aiuta una parte delle imprese europee (e italiane) che esportano fuori dell’Europa e quelle che temono la concorrenza da parte di paesi dell’area del dollaro, ossia da parte di molti paesi emergenti. Ma una simile svalutazione ha fondamenta economiche?

Facciamo finta di porre questa domanda a un’ipotetica Agenzia di Rating Interplanetaria (Ari) che guardasse la Terra e volesse dare un voto complessivo al nostro Mondo. Ebbene, un analista dell’Ari non avrebbe difficoltà a verificare che i paesi dell’euro (Eurolandia) hanno conti con l’estero attivi (per circa il 2,5% del Pil), ossia esportano più di quanto importino, mentre gli Usa con il loro dollaro hanno un disavanzo di circa un’analoga entità (2,6% del Pil). Se poi guardassero ai costi salariali di produzione, scoprirebbero che Eurolandia sta riducendo il costo unitario del lavoro rispetto ai suoi concorrenti (-0,7% nel 2014), mentre gli Usa lo stanno aumentando (+0,2%). Non solo, ma Eurolandia ha un disavanzo pubblico sotto la famosa soglia del 3% (2,6%), mentre gli Usa la superano alla grande (4.9% ). Di fronte a questi dati, il nostro analista dell’Ari troverebbe bizzarro che gli europei puntino a una svalutazione dell’euro. «Ma come» direbbe l’analista «qua bisogna fare l’inverso: svalutare il dollaro per correggere squilibri nei conti con l’estero americani, mentre l’euro andrebbe rivalutato per le ragioni opposte». Di fronte a queste tendenze. l’analista sarebbe indotto a degradare il rating della Terra per manifesta incongruenza delle azioni dei maggiori governi del Globo!

Anche noi dobbiamo domandarci perché una della aree più ricche del mondo, quella dell’euro, con oltre 300 milioni di abitanti istruiti, protetti da sistemi sociali avanzati, residenti prevalentemente in zone urbane, sofisticati come consumatori e risparmiatori, con i conti pubblici mediamente in buon equilibrio, per crescere debbano puntare solo sulle esportazioni verso un paese indebitato come gli Usa e verso paesi più poveri come quelli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. E, per raggiungere questo obiettivo, debbano frenare la propria domanda interna per consumi e investimenti, riducendo i salari della propria popolazione e la spesa pubblica. Possibile che abbiamo costruito l’Europa affinché dipenda dalla crescita della Cina o si difenda dalla competitività dei poveri vietnamiti? Dov’è che abbiamo sbagliato e dove continuiamo a sbagliare?

In realtà, paradossalmente, con l’adozione dell’euro non siamo andati avanti nel costruire un’Europa unita, ma siamo clamorosamente scivolati indietro. Siamo tornati ad essere la somma di 19 piccoli paesi (area dell’euro) che, invece di costruire una nuova istituzione sovranazionale, si sono impegnati a “mettere ordine a casa propria”. L’illusione è che la somma di tanti piccoli paesi competitivi dia luogo a un grande paese competitivo. Ma non sarà così. Per essere rapidamente competitivi non si può che comprimere i costi interni (salari e spesa pubblica) e cercare di invadere gli altri mercati, a cominciare da quelli dei vicini. È quello che ha fatto la Germania prima della grande crisi. Se tutti in Europa avessimo fatto come la Germania, nessuno avrebbe ottenuto quei risultati (neppure la Germania), la domanda interna europea sarebbe crollata ed Eurolandia sarebbe sprofondata in una crisi recessiva ben prima della grande crisi finanziaria.

Ma, poiché continuiamo a ripeterci che la salvezza sta solo nell’essere competitivi, ecco che esultiamo per la svalutazione dell’euro che invece impoverisce i nostri paesi. Il modello di sviluppo dell’Ue non dovrebbe essere quello trainato dalle esportazioni come risultante della somma delle competitività dei singoli paesi, ma quello di un grande paese capace di trovare al suo interno il motore della crescita, per migliorare il patrimonio infrastrutturale. la qualità della vita dei propri cittadini, il livello di sicurezza e di benessere generale. Questo non significa affatto rinunciare ad essere competitivi sui mercati mondiali, ma implica assumersi la responsabilità di generare una crescita mondiale che non può che partire dalle aree più ricche della terra.

Perché il piano Juncker non serve a niente

Perché il piano Juncker non serve a niente

Innocenzo Cipolletta – L’Espresso

Se ci aspettiamo una ripresa dell’Europa basata sul piano Juncker di rilancio degli investimenti, allora dovremo aspettare per molto tempo. Il piano Juncker è non solo inesistente per la pochezza dei mezzi messi a disposizione (21 miliardi di euro in tre anni) e per la fantasiosa ipotesi di un moltiplicatore pari a 15 che dovrebbe eccitare 315 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati, ma è proprio sbagliato nelle sue ipotesi di base.

Nel suo desiderio di ricevere un voto favorevole al Parlamento europeo, Junker ha annunciato un piano per 300 miliardi di euro per investimenti in infrastrutture. Poi nella realtà. una volta nominato, ha scoperto le carte: il piano non esiste. Infatti gli investimenti che si spera di sollecitare devono tutti essere “bancabili”, ossia devono poter essere finanziati attraverso un sistema di prestito di tipo bancario. In altre parole devono essere investimenti capaci di produrre in tempi relativamente brevi un reddito sufficiente a ripagare le somme stanziate. Ma per questi investimenti c’è già il mercato che oggi ha sufficiente liquidità (anche in eccesso) per finanziare progetti che siano redditizi. Non c’è bisogno di alcuno strumento europeo per favorirli. Se non ci sono abbastanza investimenti vuol solo dire che non ci sono progetti validi.

In realtà quello che manca in Europa è proprio l’intenzione di investire. Le imprese hanno un eccesso di capacità produttiva in seguito a una recessione che di fatto dura da sette anni. In queste condizioni, non è l’assenza di credito che frena gli investimenti, ma l’assenza di prospettive di crescita. Fare investimenti produttivi per un’impresa che non vede crescere il suo mercato di sbocco rappresenterebbe un errore che rischierebbe di portarla al fallimento. Ridurre il rischio per un simile investimento significa aumentare le probabilità di fallimento. In queste condizioni, solo investimenti che si sarebbero comunque fatti anche in assenza di tali sostegni finirebbero per essere avviati. Con qualche vantaggio per le imprese coinvolte, ma con nessun vantaggio per l’economia nel suo insieme. Resta la possibilità di finanziare investimenti pubblici in infrastrutture. Ma quali tra questi sono bancabili? Non certo quelli più utili ed urgenti, come la messa in sicurezza del territorio contro le esondazioni dei fiumi (fenomeno che riguarda tutti i paesi europei) o contro i rischi di terremoti, e neppure il disinquinamento di parti del territorio o il recupero delle periferie urbane. Opere che avrebbero un elevato ritorno sociale e anche economico nel lungo termine, ma non generano redditi con cui assicurare la restituzione dei prestiti. E perciò l’area delle possibilità si restringe di molto.

Se parliamo di investimenti che possono produrre un reddito (autostrade a pedaggio, aeroporti, porti) allora si tratta di spese tuttte utili ma che, nuovamente, possono trovare finanziamenti sul mercato senza bisogno di agevolazioni particolari, a condizione che i progetti siano ben strutturati. Se finora non si sono manifestati, vuol dire che non ci sono. Ma, dice Juncker, nulla vieta di aggiungere risorse nazionali allo strumento europeo. Tutto vero. Però le risorse aggiuntive possono essere messe solo da quei paesi che non hanno uno stress nei conti pubblici. Cioè paesi che già adesso potrebbero, se volessero, rilanciare la loro domanda di investimenti infrastrutturali. Se non lo fanno è perché hanno deciso così. E se lo facessero solo per approfittare delle agevolazioni finiremmo per favorire chi non ne ha bisogno senza molti vantaggi per l’Europa.

In queste condizioni, spiace vedere le nostre autorità insistere a dare una qualche fiducia a questo piano. Si capisce che lo fanno per correttezza politica più che per convincimento. Ma l’Europa uscirà dalla crisi solo con una vera politica di rilancio della domanda interna che coinvolga tutti i paesi. E se la Germania insiste a sottolineare che non vuole assumersi i debiti degli altri paesi, occorre ricordarle che, in tale caso, non avrebbe neanche dovuto prendersi la parte di mercato di beni che le è arrivata in dote grazie all’istituzione del mercato unico a cui tutti abbiamo aderito.