Succede ormai con periodicità. Era già accaduto al tempo dello scandalo sollevato dal romanzo di Salman Rushdie (Versetti satanici, 1989) e poi per il film Submission di Theo van Gogh (2004) e di seguito in altre circostanze. Di tanto in tanto il mondo musulmano sembra esplodere d’ira dinanzi a forme espressive – letterarie, satiriche, cinematografiche – dell’Occidente e reagisce, come nel caso delle vignette di Charlie Hébdo di qualche mese fa, scatenando una violenza inaudita.
Quando in Occidente si manifestano tesi critiche verso l’Islam e si avversano taluni aspetti di quella cultura, gli stessi rapporti tra mondo musulmano e società occidentale vanno in crisi. In tale contesto, la nostra società sembra incapace di trovare un equilibrio, talora mostrandosi perfino disponibile a non difendere la propria identità e le garanzie che, da noi, tutelano la libertà dei singoli.
Come allora si dovrebbe reagire a questo attacco tanto duro? Sicuramente non esistono risposte semplici. Qualunque analisi seria e responsabile, però, chiede che si distingua in maniera assai netta ciò che è legittimo sotto il profilo del diritto (l’ordine giuridico) e ciò che invece è opportuno in una prospettiva etica (l’ordine morale). Dal punto di vista del diritto, gli occidentali devono continuare a proteggere la libertà d’espressione di tutti: una libertà che non si estrinseca solo e in primo luogo nella facoltà d’affermare ciò che piace a tutti e che è largamente condiviso. Entro una società aperta e liberale hanno piena cittadinanza anche quelle tesi che taluni, e magari anche molti, giudicheranno assurde e insostenibili. Ogni religione deve vedere riconosciuto la piena facoltà di esprimersi e definire la frontiera che distingue il giusto e l’ingiusto, la santità e il peccato; e la stessa libertà va attribuita ai romanzieri, ai giornalisti, ai registi e così via. L’Europa farebbe un terribile errore se, per non suscitare tensioni con certe frange dell’Islam, abbandonasse la propria tradizione e amputasse la libertà di espressione. Quello che disegnavano e scrivevano gli autori di Charlie Hébdo barbaramente uccisi era legittimo al di là dei contenuti stessi.
Bisogna però distinguere tra una vera tolleranza e un’ideologia di Stato che pretende d’imporre a tutti una sorta di “religione laica” che di liberale ha ben poco e che sotto certi punti di vista finisce proprio per alimentare una reazione fanatica anti-europea. Specialmente in Paesi come la Francia, ma in parte anche da noi, ha preso piede un repubblicanesimo che avversa le culture religiose in quanto tali e che vorrebbe imporre un modello unico di società e di esistenza. Trionfa insomma un “politicamente corretto” che non sembra lasciare spazio al pluralismo anche se si presenta in abiti democratici. Tutto questo ha poco a che fare con la tradizione liberale, e se va difesa la libertà dei giornali satirici, allo stesso modo va salvaguardata la libertà delle famiglie cristiane, musulmane o di altro credo. Proibire a uno studente, come si fa in Francia, di portare a scuola una piccola croce appesa al collo o un qualsiasi altro simbolo religioso non è una scelta di libertà, ma semmai di segno opposto.
Una società libera è tale se ognuno rispetta chi è diverso da sé. Più di tutti devono però essere disposti a esercitare questo rispetto quanti dispongono del potere, che non hanno alcun titolo per considerare i loro valori come necessariamente giusti e universali, e quindi da imporsi agli altri. Il subdolo dispotismo del laicismo statale “alla francese” è, in qualche modo, il più prezioso alleato degli integralisti e dei fanatici islamisti.
Dobbiamo ammettere che da questo punto di vista l’Europa è assai deficitaria e che gli orientamenti prevalenti sembrano proprio rafforzare l’imposizione di una metafisica pubblica, di fatto in lotta con le religioni. La sacralità dei nostri Stati (che si autorappresentano come perpetui, indivisibili e sovrani) deve essere contestata, se si vuole costruire una società davvero plurale. Ed è importante comprendere come il laicismo imposto dal moderno welfare State sia cosa assai diversa dalla libertà individuale, la quale deve permettere a chiunque di fare le proprie scelte in ambito educativo, sanitario, previdenziale e via dicendo. Chiamando in causa taluni dibattiti della filosofia politica degli ultimi anni, bisogna allora prendere sul serio il pluralismo di un autore come Chandran Kukathas (autore de L’arcipelago liberale), che connette libero mercato e comunità volontarie.
C’è invece troppo “kemalismo” e troppa statualità nelle società europee, in cui gli apparati pubblici poggiano su una religione civile à la Rousseau che riduce gli spazi di libertà ed entra in tensione con le fedi. Ma è difficile costruire una convivenza serena se lo Stato non lascia che ogni cultura (cristiana, musulmana, ebraica, laica ecc.) non è libera di operare nei vari ambiti: fermo l’obbligo per tutti di non ledere i diritti altrui, dalla libera iniziativa imprenditoriale alla piena espressione delle proprie idee.
Nessuno è tenuto ad apprezzare fino in fondo un periodico tanto irriverente come Charlie Hébdo ed era facile prevedere che quelle vignette avrebbero buttato benzina sul fuoco. Ma il linguaggio del periodico francese non può essere considerato un crimine entro una società libera. Comprimere ancor più le nostre libertà, per giunta, non produrrebbe grandi risultati e in questo senso le piazze arabe in rivolta devono farci riflettere. Non per indurci a rattrappire ulteriormente i nostri spazi di libertà, ma semmai per dare basi più solide a quel pluralismo culturale e a quella tolleranza religiosa che – in tante occasioni – le logiche di Stato e il moralismo del “politicamente corretto” imposto per legge finiscono di fatto per minare nelle loro fondamenta.