istruzione

Scuola (d)istruttiva

Scuola (d)istruttiva

Davide Giacalone – Libero

Anteporre l’assunzione di 190mila insegnanti alla riforma della scuola fa risparmiare il tempo necessario a scriverla e approvarla, tanto è morta prima di nascere. Ancora una volta la spesa pubblica sarà indirizzata a soddisfare i bisogni di chi lavora per lo Stato anziché di quelli che ne dovrebbero ricevere il servizio. Inconciliabile il volere giudicare per merito e l’assumere ope legis. Quando si scoprirà di avere insegnanti incapaci (posto che tanti sono bravissimi) sarà istruttivamente distruttivo limitarsi a non aumentargli lo stipendio. Ammesso che ci si riesca. Comica l’iniziativa dei due mesi di ascolto, dal 15 settembre al 15 novembre, per sapere cosa ne pensano quelli che si prenderanno la briga di chattare con il governo. Sono lustri che ci ascoltiamo e governare non è sinonimo d’inseguire l’indice di gradimento. Ma dato che le critiche è bene siano sempre accompagnate da proposte alternative, e visto che chi dovrebbe decidere e indirizzare preferisce orecchiare ed essere indirizzato, non mi sottraggo. Oggi su due aspetti: il digitale e l’università. Il primo largamente frainteso, la seconda totalmente assente.

Nei documenti d’indirizzo, novella produzione in prosa che sostituisce le proposte di legge, il governo afferma due cose: a. la larga banda in tutte le scuole è la condizione per digitalizzare l’apprendimento; b. i ragazzi devono essere capaci non solo di usare le applicazioni informatiche, ma anche di crearle. Due errori.

Certo, sarebbe bello avere larga banda in tutte le scuole. Come anche in tutti gli uffici, fabbriche, tribunali e via elencando. Ma siccome non è possibile nel tempo pianificabile, si deve usare quel che c’è. Tutte le scuole italiane sono già oggi connesse in rete. Molte con più di una connessione (perché regalate da comuni e province). Usano la rete per l’amministrazione e non per la didattica. Quindi: partire subito con la scuola digitalizzata. Non solo è possibile, ma avverto i distratti che i gestori telefonici già si fanno pubblicità parlando dei testi scolastici digitali e di chi è bravo andando a scuola con un tablet, mentre chi rimane indietro si carica ancora sulle spalle qualche chilo di libri. Peccato che i secondi non sono fessi alla nascita, sono costretti dalla scuola. E peccato che la legge già prevede, dal 2008, il passaggio ai testi digitali, salvo che i vari governi (destra, tecnici e sinistra) sono stati solo capaci di prorogare l’uso dei cartacei.

È vero, si sono commessi molti errori. Fin qui l’informatica scolastica è stata una scusa per scaricare ferraglia su istituti e studenti. Qui avvertimmo per tempo sulla sciocchezza delle Lim (lavagne interattive multimediali), che servirono solo a svuotare i magazzini dei fornitori. Come abbiamo avvertito sulla sterilità dell’uso dei soldi pubblici per fornire tablet senza contenuti e sistemi utilizzabili. Cosa che ancora capita, che ancora quest’anno porterà a buttare soldi e che, paradossalmente, porta le regioni più efficienti nello spendere a essere anche quelle che più fanno danni. Ma per cambiare basta uno schioccar di dita, basta adottare piattaforme intelligenti (e ne abbiamo di italiane, mentre le regioni spendono finanziando quelle estere) e usarle nella didattica. La consultazione da remoto occupa poca banda, sicché anche le adsl esistenti possono bastare. Ripeto: basta volerlo. Quel che va fatto, subito, è usare tutti il digitale, che i ragazzi già usano massicciamente, ma non per studiare. Non serve che diventino tutti programmatori, perché una simile bischerata non è vera neanche in India, principale Paese formatore di tecnici informatici.

Sull’università il governo aveva annunciato la cancellazione dei test d’ingresso, che invece sono ancora lì. Trovo che siano utili, ma ridicoli. E’ stupido farne dei quiz generici, delle parole crociate, e se devi fare l’odontoiatra non si vede cosa rilevi il saper cos’è la “mano morta”. Nei sistemi sanamente aperti alla concorrenza i test di matematica e lingua o le applications per iscriversi all’università hanno valore generale: con questi risultati non puoi entrare nell’università x, ma puoi andare nella y. Poi tocca alle università sfidarsi in qualità dei docenti e livello dei risultati finali, in modo da attrarre soldi da famiglie e sponsor. Da noi ciascuno si gestisce i propri e da quelli non dipendono i finanziamenti, ma con quelli si mungono tasse d’iscrizione a studenti e famiglie. Satanismo fiscale in tocco e toga.

La didattica digitale incorpora la valutazione dei docenti, così come il ponte fra scuola e università, costruito con test a valenza generale, incorpora la competizione. Usando questi strumenti si può, da subito, sapere quali sono le aule migliori, premiando il merito e stimolando la gara. Il che non è un servizio all’amministrazione burocratica pubblica, ma agli studenti e alle famiglie. Per fare queste cose ci vuole meno tempo dei due mesi buttati nella consultazione. Tutto sta a saperlo e volerlo fare.

Non tentennare sui travet

Non tentennare sui travet

Il Foglio

Gli stipendi degli statali resteranno bloccati anche nel 2015, ha annunciato ieri il governo, a causa delle scarse risorse. Considerato il pianeta a parte su cui hanno vissuto finora i 3,5 milioni di dipendenti della Pubblica amministrazione (non valutabili, non licenziabili, eccetera) rispetto agli altri 20 milioni di lavoratori, non sembra esattamente un dramma. Anzi, la scelta – trapelata nelle scorse settimane – avrebbe necessitato di essere rivendicata apertamente alla luce della situazione attuale. Allo stesso tempo, però, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha confermato che le linee guida della riforma della scuola partiranno con l’assunzione di 150 mila precari, un “piano straordinario” che prevede dal 2016 altre 40mila stabilizzazioni, in quel caso per concorso. Anzi, garantisce, “mai più senza concorso”. Se dunque il progetto verrà mantenuto entreranno in pianta stabile quasi 200mila docenti, senza che siano stati definiti gli organici necessari a formare gli studenti, in quali discipline, con quali obiettivi e costi: risposte che pure sono dovute ai contribuenti e alle famiglie.

Renzi non ha colpa delle centinaia di migliaia di precari che gravano sulla scuola, colpa che ricade sugli esecutivi precedenti. Tutti costretti a piegarsi alla ragione elettorale nonché ai vari tribunali amministrativi (quelli che si vorrebbe ridurre nel numero e nei poteri). In realtà queste imbarcate sono un segno della debolezza di chi le decide: nel 2007 anche Romano Prodi annunciò la stabilizzazione di 150 mila fra insegnanti e personale tecnico, progetto poi bloccato dal centrodestra tra ricorsi e sentenze della magistratura amministrativa. Forse, per nobilitare il bis, Renzi annuncia anche che le retribuzioni non aumenteranno più con gli automatismi ma con valutazioni di merito, che gli insegnanti saranno tenuti alla formazione continua, che entreranno i contributi privati, che si introdurranno le mini-borse di studio sul modello inglese. Giusto, ma allora si dovrebbe poter anche licenziare per demerito, gli istituti dovrebbero essere valutati anche in base ai risultati conseguiti nel rapporto con il mondo del lavoro. In altri termini, Renzi deve impegnarsi a far sì che la scuola italiana smetta di essere l’ammortizzatore sociale di insegnanti e personale, che garantisce il lavoro a chi ci sta dentro ma non a chi ci studia. In fondo non c’è molta differenza tra le infornate di precari, che piacciono alla sinistra, e i condoni contro i quali la stessa sinistra insorge.