legge

Pasticci istituzionali

Pasticci istituzionali

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo. Non si possono svilire procedure istituzionali fondamentali – come quella, sacra, dell’approvazione dei testi di legge, portando in Consiglio dei ministri provvedimenti non del tutto definiti o, peggio, slide di generici documenti assertivi privi di qualsiasi dettaglio – e pensare che tutto ciò non si ritorca come boomerang contro coloro che operano tali stupri istituzionali. È accaduto con il decreto legislativo sul diritto penale tributario. Sul quale governo, Parlamento e l’intero sistema-paese hanno clamorosamente perso la faccia più volte.

Primo: il provvedimento è sostanzialmente giusto, e andava difeso politicamente, non mollato al primo stormir di fronde.

Secondo: come accade spesso a Renzi, le buone intenzioni – in questo caso, emanciparsi dalla demagogia fiscale della sinistra – non sono messe in pratica nel migliore dei modi. Nello specifico, come ha spiegato molto bene il sottosegretario Zanetti, introdurre esenzioni penali (potenzialmente per milioni) sul reato di frode documentale, grave perché presuppone la predisposizione intenzionale di documenti falsi per rappresentare operazioni inesistenti, è cosa sbagliata e indifendibile, mentre è opportuno alzare le soglie di depenalizzazione dei reati tributari meno gravi, come la dichiarazione infedele, e depenalizzare completamente, ferme restando le sanzioni amministrative, le mere omissioni di versamenti dell’Iva in presenza di dichiarazioni fedelmente presentate.

Terzo: non so se c’entri o meno Berlusconi (a naso, non credo) nell’aggiunta del famigerato “l9 bis”, ma bloccare tutto per quella presunzione – passando dall’ipotesi di provvedimento ad personam alla certezza di “non provvedimento” contra personam – è demenziale. Tanto più se poi si commette l’imperdonabile errore di legare il riesame della normativa alla scelta del prossimo capo dello stato, avvalorando l’idea che si trattasse di una furbata.

Quarto: un governo non può congelare un decreto legislativo già approvato dal Consiglio dei ministri sottraendolo all’esame del Parlamento, mentre Camera e Senato (presidenti, se ci siete battete un colpo) non possono accettare che passi ad altri la prerogativa di fissare il calendario dei propri lavori. È lo stesso errore, rovesciato, commesso per il decreto attuativo delle norme sul lavoro: in quel caso, sorta la questione se i dipendenti pubblici erano o meno equiparati a quelli privati, il governo ha detto di volersi rimettere al Parlamento, cosa impossibile visto che si trattata di legge delega e dunque, come dice la parola stessa, le Camere avevano delegato l’esecutivo a prendere decisioni,

Quinto: come magistralmente sottolineato da Davide Giacalone, non si può escludere i procedimenti in corso o in giudicato dalla nuova regola (Renzi dixit) senza buttare a mare il “favor rei”, uno dei pilastri della nostra civiltà giuridica.

Ma la cosa più grave di tutta questa brutta vicenda è e resta lo svuotamento di funzioni del Consiglio dei ministri. Non è certo stato Renzi a introdurre la cattiva abitudine di testi di legge completati o modificati ex post. Ma mai in modo così smaccato. Già per la legge di stabilità erano passati nove giorni tra il testo uscito dal Cdm e quello definitivo, ma almeno il motivo era più nobile: tener conto delle obiezioni del Quirinale, della Ragioneria e, probabilmente, di Bruxelles. Ora si è passato il segno. Anche perché questa maldestra forzatura si somma con il sempre più esplosivo problema dei contrasti – prima era un braccio di ferro, ora è una vera e propria guerra – tra Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia. Ma anche con il reiterato abuso dei decreti legge, con l’ambiguità (voluta) dei disegni di legge omnibus e le maglie troppo larghe delle leggi delega, con l’uso smodato del voto di fiducia. Solo che finora la slabbratura delle procedure aveva conferito all’esecutivo un potere sottratto all’effettivo controllo del legislativo, mentre ora aggiungiamo a questa forzatura costituzionale quella ancor più intollerabile della sottrazione del potere dei ministri (singolarmente e collettivamente intesi) a favore del premier e del suo staff.

Questa non è premiership – né nella forma del cancellierato né in quella presidenziale – ma confusione istituzionale. Ha ragione Renzi quando sostiene che la politica deve reimpadronirsi delle responsabilità che le spettano, e che per questo occorre rivedere gli assetti istituzionali. Ma non si può fare così. E neppure con riforme a spizzichi e bocconi. Al contrario, Renzi si faccia promotore della convocazione di una nuova Assemblea costituente, l’unico luogo veramente deputato a una complessiva riscrittura delle regole e rivisitazione degli strumenti istituzionali. È l’unico modo. Anche per salvare la faccia e il consenso degli italiani.

Il premier non può sequestrare un decreto legge

Il premier non può sequestrare un decreto legge

Davide Giacalone – Libero

È agghiacciante l’idea di congelare un decreto legislativo. Equivale alla demolizione delle regole che disciplinano il sistema legislativo. S’è capito che al governo non avevano capito quel che facevano o non si aspettavano di dover fronteggiare un pubblico dissenso. Due ipotesi che presuppongono ottusità legislativa o furbizia da sciocchi. Il guaio (ulteriore) è che, ad ogni parola che aggiungono, non fanno che allargare il buco e rendere multicolore la pezza. Matteo Renzi ha sostenuto che il decreto sarà congelato fino al 20 febbraio. Se ancora esistessero i presidenti delle Camere dovrebbero essere essi a fargli osservare che non c’è la possibilità di sottrarre al Parlamento l’esame di un decreto già approvato dal Consiglio dei ministri.

Il calendario è una prerogativa del Parlamento, non del governo. E se esistesse ancora uno straccio di cultura delle regole i giornali stessi non pubblicherebbero l’annuncio di congelamento senza aggiungere che si tratta di un’idea improponibile. Attenti, non c’è solo la materia fiscale. Fin qui sono state approvate, dal Parlamento, non due riforme, ma due leggi delega: una in materia di diritto del lavoro e l’altra di diritto tributario. Un buon successo, per il governo, che deve dare attuazione alla delega. Dopo avere approvato il primo decreto legislativo (leggasi «attuativo»), in materia di lavoro, s’è aperta la discussione sul comprendervi o meno i lavoratori del settore pubblico. Non discussione teorica, ma sullo scritto: taluni vi leggevano la comprensione, altri l’esclusione.

Disse Renzi: ci rimettiamo alla volontà del Parlamento. Sbagliato, perché il Parlamento si era già espresso, aveva già delegato. Il governo doveva attuare, dando sostanza alla delega. Il delegato non può rimettersi al delegante, altrimenti è un inferno degli specchi. La faccenda è stata presto insabbiata, rinviando tutto alla (ennesima) riforma della pubblica amministrazione. Ma è poi arrivata la mostruosità del decreto legislativo in materia fiscale. Comprendendo, fra le altre cose, alcune depenalizzazioni, con aumento di ammenda, è coerente che si trovino affiancate le fatture false (sotto i 1.000 euro), alcune evasioni (sotto i 150.000) e la non penalizzazione per chi evada meno del 3% di quanto effettivamente versa. Si può essere a favore o contro (io sono a favore), ma ha un senso.

Da lì è partita una collana di bischerate. 1) Prima Renzi dice: se la cosa favorisce Berlusconi la ritiriamo (come se le regole sono buone o cattive a seconda di chi salvano o dannano). 2) Poi dice che non si farà valere la nuova regola per i procedimenti in corso o in giudicato (con pernacchie al diritto romano e a uno dei pilastri della civiltà giuridica, il favor rei). 3) Quindi interviene Graziano Delrio e afferma che il decreto va bene, ma loro sono pronti a ridiscuterlo (e con chi? con sé stessi, visto che si tratta di un atto del Consiglio dei ministri). 4) Torna Renzi e corregge: va bene il testo, ma lo congeliamo (in questo modo sovvertendo il senso della regola e umiliando non solo il Parlamento ma il banale buon senso).

Può darsi che io abbia l’epidermide troppo sensibile, adusa all’idea che il diritto non sia solo un colpo del tennis, ma mi pare sia stato superato il limite. Per meno di un millesimo, in altre circostanze, avremmo sentito il severo richiamo del presidente della Repubblica. Che è ancora incarica, benché pubblicamente dimessosi. Il governo ha solo due strade, per uscire dal pasticcio: a) confermare il testo e spedirlo subito al Parlamento; b) convocare immediatamente il Consiglio dei ministri, rimangiarsi il testo e produrne uno diverso. In nessun caso salverà la faccia, ma, almeno, avrà fatto finta di conoscere le regole.

Postilla: la Commissione europea ha già cominciato il riesame dei nostri conti, i francesi hanno chiesto una ulteriore proroga, noi no (che si sappia); senza il decreto legislativo non sono neanche ipotizzabili i suoi fantasiosi vantaggi per le casse pubbliche; il che comporta la clausola di salvaguardia: aumenta l’Iva. A quel punto non sarà la faccia il solo lato a subire qualche danno.