L’arte sbagliata del fiscal compact
Leonardo Becchetti – Il Fatto Quotidiano
Per qualche sfortunata congiunzione astrale ci è toccato di nascere nel regno del Fiscal Compact, nel cono d’ombra ideologico del rigorismo e del sadomonetarismo. In altre aree del pianeta la risposta alla crisi finanziaria globale è stata molto più appropriata. Se non ci mobiliteremo firmando il referendum per l’abolizione del pareggio di bilancio (referendumstopausterita.it) non usciremo mai dall’incantesimo di una regola dissennata che si propone di ridurre di un ventesimo il rapporto debito/Pil che eccede il 60 per cento e sulla quale ci siamo autoimposti l’ulteriore cilicio del pareggio di bilancio in costituzione. Violando un principio fondamentale per il quale la costituzione deve occuparsi dei fini e mai dei mezzi per raggiungerli. Come se, invece di mettere nella propria “carta costituzionale” l’aspirazione alla vittoria, una squadra di calcio scrivesse che bisogna sempre giocare con il modulo del 4-4-2.
In altre parti del mondo è diverso e tutti capiscono la regola elementare per la quale la sostenibilità del rapporto debito/Pil si realizza stimolando la ripresa del denominatore con poli- tiche fiscali e monetarie espansive e non cercando di comprimere il numeratore con misure che deprimono più che proporzionalmente quello che sta sotto (il Pil) peggiorando il rapporto. Negli Stati Uniti la risposta è stata una banca centrale che ha messo al centro la riduzione della disoccupazione e in 76 mesi l’ha riportata ai livelli pre-crisi mentre nella Unione europea è ancora oggi del 4 per cento superiore. Fiscal compact? Pareggio di bilancio? Tutto il contrario. Politiche fiscali rooseveltiane che hanno rilanciato gli investimenti pubblici e privati e la domanda interna assieme all’espansione monetaria. Per non parlare della risposta giapponese e del Regno Unito, altri due paesi che hanno fatto scelte simili e se ne infischiano della regola del 3 per cento, figuriamoci del pareggio di bilancio. Il regno del Fiscal Compact e un po’ come gli Stati Uniti dopo la crisi del ’29 se Roosevelt e le sue politiche keynesiane non fossero mai arrivate.
Posto che la prima preoccupazione dei rigoristi dominati dalla lobby dei creditori è quella della sostenibilità del debito, il rigore di bilancio è almeno riuscito a migliorare la situazione dei debiti pubblici? Niente affatto, perché le ricette rigoriste hanno prostrato i Paesi che le hanno praticate. La Grecia in primis in deflazione e con un rapporto debito/Pil oltre il 177 per cento anche con un tasso d`interesse sul debito calmierato al 3 per cento non ce la farà mai a ridurre di un ventesimo il proprio debito oltre il 60 per cento (dovrebbe crescere oltre il 5-6 per cento all’anno). E ha pagato il rigore con il crollo di un quarto del Pil e due ristrutturazioni del debito. Il Portogallo si trova in analoghe condizioni di difficoltà. Ha un avanzo primario dello 0,4 per cento, un tasso d’inflazione leggermente negativo, una crescita prevista dell’1,2 per cento e un rapporto debito/Pil al 129 per cento. In queste condizioni il rapporto debito/Pil non si riduce ma cresce, per ridursi come previsto dal Fiscal Compact la crescita dovrebbe viaggiare al 5 per cento. E l’Italia? A bocce ferme (crescita e inflazione zero o debolmente negative, costo del debito sopra il 3 per cento e avanzo primario attorno al 2) il nostro rapporto debito/Pil cresce del 2-3 per cento all’anno. Uno scenario ben di- verso da quello delle nostre previsioni alla “Lucio Dalla” nelle quali l’anno che verrà è sempre quello dell’inversione di tendenza.
La battaglia referendaria è importante perché può aiutare i passeggeri della nave Italia a concentrarsi sul problema dell’iceberg e non sulla musica dell’orchestrina. Possiamo parlare di mercato del lavoro, riforma degli ammortizzatori sociali, riduzione delle tasse su cittadini e imprese, investimenti sulla banda larga, riforma della scuola ma le risorse per tutto questo non ci sono se restiamo sotto l’incantesimo del pareggio di bilancio. Nell’eurozona dove la Germania da anni sfora i limiti del surplus senza alcun intervento correttivo, la Francia si “prende” la flessibilità sul deficit, la Bce viene meno al suo impegno statutario di combattere la deflazione che peggiora i debiti pubblici portando la crescita dei prezzi vicina al livello del 2 per cento, è arrivato il momento di non essere gli unici a rispettare regole che nessuno rispetta per sedersi al tavolo e ridiscutere tutto. O l’eurozona diventa un sistema di obblighi simmetrici, di politiche fiscali e monetarie europee coraggiose in grado di sfruttare la leva e il peso specifico sovranazionale, o la rotta di collisione sulla quale ci troviamo, che ha prodotto il “miracolo” di rinfocolare rancori e nazionalismi, ci porterà presto alla rottura con conseguenze difficilmente calcolabili.
Il referendum è pertanto il primo passo necessario per superare la rimozione e discutere del vero problema che abbiamo di fronte, democraticamente e alla luce del sole. Perché la storia recente e le “cronache del Regno del Fiscal Compact” ci hanno ampiamente dimostrato che non è il caso di fidarsi e di affidarsi in toto all’intellighentia dei suoi funzionari e delle sue élite.