made in italy

Cosa paralizza il Made in Italy

Cosa paralizza il Made in Italy

Bruno Vespa – Il Mattino

La mia generazione si è formata nella convinzione che il lavoro subordinato sarebbe durato dal giorno dell’assunzione a quello del pensionamento e per poi congedarsi «col massimo», cioè con un assegno sostanzialmente equivalente all’ultimo stipendio. Nessuno pensava che il mondo sarebbe radicalmente cambiato e che anche in Italia si sarebbe dovuto affrontare un giorno il mutamento epocale, altrove avvenuto da tempo: si potrà essere licenziati con la garanzia che lo Stato si impegna a fornire un forte paracadute. E ad attivare efficienti meccanismi di assistenza e di formazione in modo che chi ha perso il lavoro abbia modo di trovarne un altro. È quanto è avvenuto in Germania dove nel 2003 la disoccupazione era maggiore dell’Italia e ora è la metà, i redditi sono più alti e l’economia è la più forte d’Europa.

Abbiamo perduto dodici anni da quando Silvio Berlusconi stipulò il 4 luglio 2002 un Patto per l’Italia con Cisl e Uil per fare qualcosa di simile, ma fu sconfitto sul campo dalla Cgil. E ne sono trascorsi quindici da quando ci provò Massimo D’Alema: sia pure con minor clamore fece la stessa fine. La condizione di paralisi in cui si trova l’economia italiana ha indotto Matteo Renzi a giocare la carta proibita: salvo ripensamenti dell’ultima ora, lunedì prossimo la direzione del Pd approverà la cornice della legge delega con la previsione di sostituire il reintegro per i nuovi assunti di qualunque età che fossero un giorno licenziati con un adeguato risarcimento economico e con tutti gli ammortizzatori sociali necessari. «Il mio impegno è chiaro», ha detto il premier al Wall Street Journal. «Realizzare le riforme indipendentemente dalle reazioni».

Le reazioni della Cgil e della minoranza del Pd saranno forti. Per la prima volta mercoledì a «Porta a porta» Susanna Camusso ha aperto alla possibilità che per un ridotto numero di anni i nuovi assunti possano rinunciare all’articolo 18, mettendosi sulla scia della minoranza democratica. Una svolta a suo modo epocale, ma insufficiente a far arretrare il presidente del Consiglio. Il richiamo di ieri della Conferenza episcopale italiana («Bisogna guardare con più realismo alle persone che non hanno lavoro e che cercano lavoro») invitando ad ammainare la bandiere sventolate intorno all’articolo 18 può essere interpretato come un freno a Renzi e quasi come un contraltare all’incoraggiamento che gli viene invece dal capo dello Stato. Ma è un contraltare ambiguo: qual è il modo migliore di preoccuparsi della sorte dei disoccupati? Blindare gli occupati del futuro al punto che restino senza lavoro nel presente?

Ha ragione la Camusso quando dice che l’articolo 18 è lo scalpo che Renzi deve portare al vertice europeo dell’8 ottobre. Sono fondate le preoccupazioni della minoranza Pd a proposito dei soldi che servono per finanziare nuovi e adeguati ammortizzatori sociali. Ma se è vero che la nostra legislazione sul lavoro è la più paralizzante in tutti i 35 paesi dell’Ocse, occorre renderla «normale». È essenziale, al tempo stesso, che Renzi si faccia pagare lo «scalpo» con una immediata flessibilità che gli consenta non solo di prevedere già nella legge di stabilità i nuovi ammortizzatori sociali, ma gli dia modo di distribuire soldi alle fasce meno protette e di ridurre ulteriormente l’Irap alle imprese. Bisogna insomma attivare un circuito virtuoso di cui la rimozione dell’articolo 18 per i nuovi assunti sia soltanto l’ingranaggio iniziale di un meccanismo del tutto nuovo e assai più efficiente della giungla attuale.

Se Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo al mondo

Se Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo al mondo

Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore

Un obiettivo importante – valorizzare il marchio Italia – è finalmente entrato nell’orbita del governo con l’ipotesi del varo di un piano da 160 milioni. È un’arma per combattere la crisi perché la nostra crescita dipende anche e soprattutto da un marchio unitario “Italia” che porterebbe al nostro sistema il vantaggio immediatamente riscontrabile della lotta alla contraffazione. In cifre, solo nell’agro-alimentare, secondo Mise, 54 miliardi (cifra che doppia il nostro export). I colossi internazionali del digitale sono sempre più attenti al Made in Italy. Prova ne sia che Google ha negli ultimi mesi avviato la seconda tappa del suo progetto con Unioncamere, “Made in Italy: Eccellenze in Digitale” .

Un progetto dedicato ai giovani che – se selezionati – riceveranno una borsa di studio di 6mila euro all’esito di un percorso formativo che Google e Unioncamere hanno promosso in collaborazione con l’Agenzia Ice. I giovani dovranno aiutare le imprese dei territori a sfruttare le opportunità offerte dal web per far conoscere le eccellenze del Made in Italy. Samsung , invece, ha varato il progetto Maestros Academy (http://www.maestrosacademy.it) per far crescere una nuova generazione di artigiani italiani mettendo in contatto maestri artigiani e giovani.

Qualche dato: il valore del commercio elettronico a livello mondiale cresce a ritmo sostenuto: 1,3 trilioni di dollari nel 2013 (+ 20% anno su anno). Se il Made in Italy fosse un brand sarebbe il terzo marchio più noto al mondo, dopo Coca Cola e Visa. E le ricerche condotte su Google, nel primo semestre 2013, mostrano che il Made in Italy e i suoi settori-chiave sono cresciuti dell’8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con picchi in Giappone (+29%), Russia (+13%) e India (+20%). Nonostante questi numeri solo il 34% delle Pmi italiane è presente online con un proprio sito; solo il 4% delle realtà italiane con più di 10 addetti vendono almeno l’1% online, contro il 12% di quelle francesi e spagnole, il 14% del Regno Unito e il 21% delle imprese tedesche; le migliori venti aziende italiane che operano online fanno assieme il 70% del fatturato dell’e-commerce italiano. Le prime 50, l’86 per cento. Le ragioni: investimenti elevati, competenze specifiche, presidio delle leve tecnologiche e di marketing.

Il governo Renzi dovrebbe prendere l’iniziativa di concorrere a costruire un’identità unitaria del Made in Italy, un Master Brand capace di fornire rassicurazioni, specifiche associazioni mentali positive al mercato, soprattutto per le piccole imprese. Proprio come fa Armani, attorno al cui nome sono nate linee di abbigliamento che si rivolgono a segmenti di mercato differenti, beneficiando però dell’appartenenza alla stessa scuderia. Occorre lavorare per trovare un simbolo, una rappresentazione iconica evocativa dell’italianità; Oscar Farinetti ha proposto la mela (per l’agroalimentare), un concorso internazionale dovrebbe aiutarci a celebrare l’integrazione tra creatività e tecnica. Con un motore di promozione, un piano marketing che conti su di una unica cabina di regìa: un’Agenzia Italia (esteri, commercio, turismo e cultura) – alle dipendenze della Presidenza del Consiglio – che si avvalga del braccio operativo della rete diplomatica. Serve un nuovo marketing mix; nel nuovo mondo è fondamentale non solo essere presenti a fiere, organizzare eventi, quanto piuttosto costruire una presenza multicanale del marchio Italia: nuovi media e cinematografia sono i principali strumenti con cui costruire opinioni e preferenze in capo a un soggetto unitario di promozione. Una gestione integrata del marchio Italia promette crescita: solo i settori più ancorati all’effetto Made in Italy (abbigliamento, arredo, agro-alimentare) con un +10% del valore dell’export genererebbero nei prossimi 10 anni circa 100 miliardi di entrate in più. Ben venga dunque Google – che legittimamente intravede nella costruzione di contenuti legati al Made in Italy e nel percoso di alfabetizzazione digitale degli operatori italiani un grande potenziale pubblicitario – ma Governo, sistema camerale, agenzia Ice devono credere nel lancio di un grande piano di formazione e marketing digitale del Made in Italy.