marco leonardi

Una manovra di respiro strategico

Una manovra di respiro strategico

Marco Leonardi – Europa

I commenti alla manovra finanziaria si sono concentrati principalmente sui saldi di una manovra che ad alcuni appare coraggiosa e ad altri pare un azzardo. Vorrei invece concentrarmi sul disegno complessivo della manovra e sul progetto politico sottostante. Prima ancora che essere un insieme di poste di entrate e di uscite, la legge di stabilità è la principale proposta politica che un governo fa al paese e merita quindi di essere analizzata dal punto di vista della coerenza.

Matteo Renzi per la prima volta ha adottato un atteggiamento diverso nei confronti dell’Europa rispetto i suoi predecessori. Oggi è possibile fare una manovra che prevede 11 miliardi di debiti in più di quello che era stato previsto per via delle condizioni di crisi persistente e per via della posizione similmente critica della Francia che, nella sua legge finanziaria, va bene oltre il limite del 3 per cento del deficit. Tuttavia è da notare che l’atteggiamento di Renzi verso l’Europa è rovesciato rispetto ai tempi che lo precedono. Mentre finora i presidenti del consiglio sostenevano di dover fare a malincuore delle riforme impopolari per far fronte alle richieste dell’Europa, ora Renzi sostiene di agire non perché ce lo chiede l’Europa ma perché le riforme, anche se impopolari, servono all’Italia. In questa cornice di una nuova assunzione di responsabilità nazionale si legge meglio l’architettura e il merito dei provvedimenti della Finanziaria 2015.

L’architettura principale della legge di stabilità mantiene la promessa che tutti i tagli di spesa verranno utilizzati per ridurre in maniera equivalente le tasse e non andranno a finanziare nuova spesa. Questo punto non è affatto scontato visto che nelle passate manovre finanziarie erano previsti aumenti di tasse accanto a tagli di spesa. E visto che ancora oggi la critica principale da sinistra della manovra finanziaria è proprio che non si prevedono nuovi investimenti pubblici. La filosofia della manovra è incentrata sulla visione che i tagli di tasse (necessariamente a livello nazionale) siano il miglior volano della crescita, mentre gli investimenti pubblici sono meglio concepiti su scala europea piuttosto che nazionale (i famosi 300 miliardi di Juncker). All’interno delle riduzioni di tasse c’è lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle rendite, già iniziato con l’aumento della tassazione sulle rendite nei mesi passati.

Al di là di qualche spesa aggiuntiva come quella per l’assunzione dei precari della scuola e lo stanziamento per le forze dell’ordine, tutte le altre maggiori uscite sono riduzioni di tasse. Oltre alla conferma del bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti, che dall’anno prossimo prenderanno forma di riduzione fiscale, l’abolizione dell’Irap sul costo del lavoro (limitata al lavoro a tempo indeterminato) e la previsione di 1,9 miliardi per la decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato firmati nel 2015 per tre anni costituiscono il cuore della legge finanziaria 2015.

Il disegno della manovra non si comprende se non in un contesto collegato alla riforma del mercato del lavoro. La proposta del governo è infatti quella di passare gradualmente da un mercato del lavoro fatto principalmente di contratti a termine per i giovani ad un mercato del lavoro costituito da contratti a tempo indeterminato. Per fare questo sì è affrontato il tema spinoso dell’articolo 18 e nella legge finanziaria coerentemente con questo disegno sono presenti due misure necessarie a far funzionare il contratto a tempo indeterminato: il taglio dei contributi sociali per tre anni e il taglio dell’Irap sul costo del lavoro, non a caso entrambe le misure sono limitate ai soli contratti a tempo indeterminato.

Questo è il tratto di coerenza della manovra finanziaria: il governo scommette tutto sulla trasformazione del mercato del lavoro. Il decreto Poletti ha rilanciato le assunzioni con la liberalizzazione del contratto a termine e la semplificazione dell’apprendistato, ma certamente il contratto a termine non può essere considerato il centro della proposta politica del governo. La sfida sta nella trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato e possibilmente nell’aumento complessivo dell’occupazione.

Anche il provvedimento sul Tfr in busta paga assume un senso diverso se inteso nel progetto complessivo di trasformazione del mercato del lavoro. Se si passa a un mondo in cui la tutela del posto di lavoro non è più reale (l’articolo 18) ma è un’indennità monetaria, allora si può pensare che il Tfr sia meno necessario di prima. L’istituto del Tfr (che è un unicum italiano) nacque infatti nel contesto di un mercato del lavoro in cui il posto di lavoro era presumibilmente per sempre ma nello sfortunato caso del licenziamento non c’era altra forma di compensazione (se l’impresa non avesse avuto la cassa integrazione). Il Tfr quindi non è solo una forma di risparmio “forzoso” a integrazione della pensione ma anche il sostituto di un’indennità monetaria in caso di licenziamento. Oggi, dopo la riforma, questa indennità monetaria ci sarebbe per legge e quindi una delle due ragioni per accumulare Tfr viene meno. Se si utilizza il criterio della coerenza interna della legge finanziaria si capiscono anche il perché di alcune scelte che a prima vista possono sembrare penalizzanti. In primo luogo il governo ha deciso di sottoporre a tassazione ordinaria invece che all’aliquota agevolata il flusso di accantonamento del Tfr che il lavoratore, dal 2015 potrà chiedere gli venga messo nello stipendio anziché andare al fondo pensione o restare in azienda ai fini della liquidazione. Allo stesso modo ha deciso di innalzare il prelievo sui rendimenti del Tfr dall’11,5 al 17% (e dei fondi pensione dall’11,5 al 20%). Può essere una misura penalizzante della previdenza integrativa ma è sicuramente coerente con il progetto di trasferire parte del carico fiscale dal lavoro alle rendite finanziarie: saranno pure Tfr o fondi pensione ma pur sempre rendite finanziarie sono. In secondo luogo la deducibilità totale del costo del lavoro dalla base imponibile riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato. Ed è controbilanciata dalla cancellazione del taglio del 10% dell’aliquota Irap decisa ad aprile. L’Irap torna quindi al 3,9% (dal 3,5%) sulla componente lavoro a tempo determinato (e sui profitti e interessi passivi). Significa che il governo fa sul serio nel tentativo di promuovere il contratto a tempo indeterminato. Si è sempre detto che il miglior modo per incentivarlo è farlo costare di meno rispetto ai contratti a termine. Ecco un modo concreto per farlo.

Merita un commento anche la scelta della decontribuzione per tre anni dei nuovi contratti a tempo indeterminato. La preoccupazione è che lo stanziamento di 1,9 miliardi non basterà. Con questa somma, le aziende potrebbero assumere poco più di 300mila persone a tempo indeterminato mentre ogni anno vengono attivati circa un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato. Per questo è possibile che si metteranno dei vincoli all’utilizzo degli incentivi (tipicamente si limita la platea alle aziende che creano occupazione addizionale rispetto all’anno precedente). Senza esagerare però, perché anche i due governi precedenti avevano stabilito degli incentivi ai nuovi contratti a tempo indeterminato ma le difficoltà burocratiche per accedere agli incentivi stessi e il loro limitarsi agli occupati con livelli di istruzione bassi e ai disoccupati di lungo periodo, li hanno resi inefficaci.

Certo è che l’esperienza internazionale ci insegna che i sussidi all’occupazione sono efficaci se oltre ad essere universali sono strutturali, ma il governo anche in questo caso ha scelto degli incentivi generosi e brevi (tre anni) invece che incentivi più modesti ma strutturali. A mio parere è il segno ancora una volta che si punta tutto sul contratto a tempo indeterminato sapendo che dovrà superare la concorrenza del contratto a termine e che su questo il governo verrà giudicato a breve. Solo in un futuro più certo si potrà agire per via legislativa e limitare la facilità dei contratti a termine. Solo quando si è sicuri che è cambiata la percezione del contratto a tempo indeterminato nella testa degli imprenditori e quindi non si rischia, limitando il contratto a termine, di ostacolare la creazione di posti di lavoro.

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Michele Salvati e Marco Leonardi – Corriere della Sera

Conosceremo presto la formulazione definitiva che il governo intende dare al suo progetto di riforma della legislazione del lavoro, quel Jobs Act che ha nella sua pancia il tormentone dell’articolo 18: i giornali danno per scontata l’ipotesi di un decreto, ma staremo a vedere. Il nostro articolo precedente (Corriere, 7 settembre) poteva aver lasciato l’impressione che l’attivismo riformistico del governo fosse soprattutto indirizzato a ottenere dalla Germania un allentamento delle condizioni di austerità cui siamo sottoposti: come rifiutarsi di allentarle se facciamo i nostri compiti a casa e attuiamo una riforma così importante secondo un modello uguale o molto simile a quello tedesco?

Vorremmo rettificare questa impressione, se c’è stata: il modello tedesco è opportuno nella sostanza e presentarlo presto in Europa sicuramente rafforza la nostra posizione contrattuale, ma dubitiamo che questa o altre riforme convincano i tedeschi a modificare in tempi brevi il loro atteggiamento. I difetti del sistema della moneta unica sono così profondi, e i vantaggi immediati che esso offre alla Germania sono così importanti, che è improbabile che essa voglia mutare le sue politiche interne e il suo atteggiamento nei confronti degli attuali assetti europei, quali che siano le «riforme strutturali» alle quali i Paesi deboli si sottomettono. Se è così, ristagno e dualismo sono destinati a permanere per un lungo periodo.

Ma allora perché il modello tedesco? O addirittura, perché una revisione profonda della legislazione del lavoro? Risposta: perché comunque ci conviene. Perché in ogni caso, sia che l’austerità europea si attenui sia che persista, e persino in presenza di forti turbolenze degli assetti istituzionali dell’Unione, avere un mercato del lavoro che funziona bene è meglio di averne uno che funziona male. In un contesto globalizzato, in cui tutti i Paesi avanzati sono comunque soggetti a forti pressioni competitive, tra i loro sistemi di legislazione del lavoro quello tedesco è un buon compromesso tra flessibilità e garanzie, tipico di un Paese dell’Europa continentale con un welfare sviluppato e con sindacati forti: difficilmente sistemi anglosassoni sarebbero applicabili da noi.

È un sistema che mantiene un filtro giudiziario al licenziamento, che però non interferisce con le motivazioni economiche addotte dall’imprenditore e solo opera, e può condurre al reintegro in casi estremi, se il lavoratore e i sindacati dimostrano che le motivazioni economiche sono un pretesto che nasconde motivazioni incostituzionali. È un sistema dove esiste una indennità automatica: all’atto del licenziamento l’impresa è tenuta a offrire una indennità di un mese di salario per ogni anno di lavoro e, se il lavoratore 1’accetta, perde il diritto di rivolgersi al giudice. Ed è un sistema dove i centri per l’impiego funzionano decentemente e dove all’indennità di disoccupazione – con durata e modalità non molto diverse dalla nostra Aspi – fanno seguito misure assistenziali, molto modeste, ma di durata indefinita. Tutto si tiene nel mercato del lavoro e una riforma del solo articolo 18 serve poco se non è accompagnata da una revisione di altre parti della legislazione del lavoro e del welfare.

Pochi i punti fermi. Il primo è che l’Italia ha un tasso di occupazione, in particolare quello femminile, troppo basso per permettersi un welfare generoso: il numero degli occupati è all’incirca uguale a quello degli inattivi o disoccupati e poi gli occupati hanno i pensionati sulle loro spalle. Il primo obiettivo è dunque quello di aumentare l’occupazione, con ogni mezzo. Il secondo punto fermo è che l’Italia ha un numero abnorme di occupati in lavori autonomi, il 23%, contro un 13% di Francia e Germania: il secondo obiettivo è dunque eliminare gli impedimenti che ostacolano il ricorso al lavoro dipendente. Oggi il problema non sono gli ostacoli contro i contratti a termine, dove siamo più o meno in linea con gli altri grandi Paesi europei, ed è la Spagna il caso abnorme. Da noi il grande problema è quello delle partite Iva fasulle. Sono loro la fonte dei veri precari del XXI secolo, senza diritti né minimi salariali, privi della possibilità di accumulare contributi pensionistici e spesso costretti all’evasione: è una piaga che dev’essere eliminata.

Il terzo punto fermo è che l’occupazione si favorisce più con le politiche salariali che con l’abolizione dell’articolo 18, pur necessaria. Quando arrivò la crisi del 2007-2009 la Germania si ritrovò con un sistema di relazioni industriali in cui la metà delle imprese e dei lavoratori contrattavano i loro salari al di fuori dei contratti nazionali di categoria e con un sistema di ammortizzatori sociali chiaro e ben funzionante. La combinazione di orari e salari flessibili, di un forte legame tra salari e produttività, ha fatto uscire dalla crisi il Paese meglio di come vi era entrato. Dunque, sarebbe opportuno che nella riforma fosse compresa anche la materia contrattuale.

Un’osservazione finale e di natura politica. In via generale i lavoratori non hanno «colpa» del fatto che il loro lavoro è poco produttivo e che l’occupazione scarseggia. Le colpe sono diffuse su altri soggetti: su imprese incapaci di innovare e organizzarsi in modo efficace, su un sistema fiscale che tassa troppo e male il lavoro e l’impresa, su uno Stato e su una pubblica amministrazione inefficienti e bizantini. Che le conseguenze di queste inefficienze altrui ricadano sul lavoro genera reazioni e resistenze, ed è comprensibile che così avvenga. Ma i costi salariali sono la trazione più importante del valore aggiunto e su di essi occorre incidere se si vogliono restaurare rapidamente condizioni di maggiore competitività. Una penosa bisogna, di cui il governo può essere perdonato solo se attacca con eguale determinazione gli altri segmenti del Sistema-Paese dai quali la nostra scarsa capacità di crescita dipende.

Minori indennità e più certezza di giudizio: sì al Jobs Act alla tedesca

Minori indennità e più certezza di giudizio: sì al Jobs Act alla tedesca

Michele Salvati e Marco Leonardi – Corriere della Sera

È ricominciato nella commissione Lavoro del Senato l’iter legislativo del Jobs act, la legge delega sulle riforme della legislazione del lavoro proposta dal governo. La materia è molto ampia – va dagli ammortizzatori alle politiche attive, dalle semplificazioni normative al riordino dei contratti – ma è probabile che l’attenzione interna e internazionale si concentrerà soprattutto sulle tutele relative al licenziamento individuale. Insomma, riprenderà il tormentone sull’articolo 18, che non si è sopito neppure durante le ferie. Questa concentrazione politica e mediatica è eccessiva: altre materie sono importanti ed è poi l’insieme quello che conta. Ma siccome avverrà così, avanziamo una «modesta proposta» che potrebbe essere una buona via d’uscita per il governo. Renzi ha detto che il modello di riferimento per il mercato del lavoro è la Germania. Siamo d’accordo. Si pensi a come sarebbe efficace poter dire in sede europea, a chi rinfaccia al governo le sue resistenze in materia, che la disciplina italiana del licenziamento individuale è identica a quella tedesca.

L’articolo 18, inteso come protezione contro il licenziamento individuale senza giusta causa, esiste in tutti Paesi a democrazia avanzata, seppure con varia intensità. È poco credibile che l’Italia possa prendere a modello i Paesi anglosassoni, dove il licenziamento individuale è politicamente e culturalmente più accettato, ma non per questo senza regole. Può però «diventare come la Germania» e ci manca poco a raggiungere l’obiettivo: già la riforma Fornero aveva preso quel Paese come esempio e gran parte del percorso di avvicinamento è stato fatto. Anche in Italia è oggi obbligatorio un tentativo di conciliazione di fronte al giudice prima di andare in tribunale e la reintegrazione del lavoratore non è più necessaria in caso di licenziamento ingiustificato: nella maggioranza dei casi basta una indennità monetaria. La conciliazione obbligatoria funziona e più del 50% dei casi non arriva in tribunale, come in Germania. Nei casi che arrivano in giudizio, per la metà vincono i lavoratori e solo in pochi casi più gravi c’è la reintegrazione. Cosa manca dunque a diventare esattamente come la Germania? Anzitutto, si tratta di un problema rilevante?

I numeri dei licenziamenti ex articolo 18 in Italia sono molto bassi, meno di 10.000 all’anno. Ma questo non dimostra che l’attuale disciplina sia un problema irrilevante per le imprese, come sostengono i suoi difensori: molte imprese non si azzardano a fare licenziamenti individuali, che pure sarebbero per loro convenienti, per il timore di un possibile giudizio di reintegro. Inoltre l’indennità per il licenziamento è tra i 12 e i 24 mesi di salario, un’indennità ragionevole per i lavoratori anziani ma molto alta per chi è in azienda da poco tempo. Per «diventare come la Germania» possiamo allora limitarci a due modifiche dell’attuale disciplina, che non ci sembrano politicamente impossibili nelle attuali condizioni.

Non è necessario impedire al lavoratore di impugnare in giudizio un licenziamento individuale per motivi economici. Anche in Germania lo si può fare e nei casi di ingiustizia più grave si può ottenere anche la reintegrazione nel posto di lavoro. Si deve però ridurre l’incertezza del giudizio, perché in Germania, di fatto, l’incertezza è poca, i sindacati sono collaborativi e i giudici normalmente prendono per buone le motivazioni dell’imprenditore. In Spagna hanno risolto la questione scrivendo nella legge che, se l’azienda è in perdita, ciò costituisce di per sé una giusta causa di licenziamento. Solo se l’azienda è in perdita? Non potrebbe essere un giustificato motivo quello di adattare la forza lavoro al mutamento della situazione economica, così com’è valutata dall’imprenditore? Possibile che non ci sia un modo per ridurre l’arbitraria sostituzione della valutazione del giudice a quella dell’imprenditore?

In secondo luogo, per «fare come la Germania», è necessario ridurre l’indennità di licenziamento per i lavoratori con poca anzianità di servizio: per dare un’idea, se un lavoratore è in azienda da sei mesi l’indennità di licenziamento potrebbe essere di un mese e così via. Se è questo il contratto unico a tutele crescenti, allora ci si avvicina alla Germania, dove c’è la stessa quantità di contratti a termine dell’Italia e non ci si è mai preoccupati di un contratto unico a tutele crescenti: si possono lasciare le regole vigenti per i contratti a termine anche in Italia, con un limite di rinnovo fino a tre o cinque anni. Se è ottimista sul futuro, è probabile che l’azienda decida di stabilizzare il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato: le aziende decidono le stabilizzazioni più in riferimento alle prospettive di crescita che al costo del lavoro. Se poi quelle prospettive non si realizzassero, non si tratterebbe di un rischio intollerabile perché si potrebbe procedere a licenziamenti individuali con ragionevole certezza e a costi accettabili.

Due sole modifiche, dunque. Anzi, a rigore, una sola, perché in astratto un cambio nell’atteggiamento dei giudici e del sindacato potrebbe avvenire anche a legislazione vigente. Ma, siccome è difficile che ciò avvenga dopo una lunga storia di conflitti e sospetti, lo si può stimolare con regole che inducano giudici e sindacato ad un atteggiamento meno ostile nei confronti delle decisioni aziendali. Pietro Ichino è convinto che il suo «contratto di ricollocazione» risolverebbe il problema. Potrebbe essere. L’importante è che imprenditori onesti, che vivono in un ambiente difficile, si convincano che il giudice riconoscerà le buone ragioni economiche che li hanno indotti ad un licenziamento individuale. E solo allora saremo diventati… «come la Germania». Almeno in questo.