La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”
Mario Rodriguez – Europa
Non è per attizzare lo scontro sui massimi sistemi, le visioni del mondo, le ideologie (in accezione positiva). In un partito davvero plurale si dovrebbe preferire confrontarsi sulle conseguenze dei principi piuttosto che sui principi stessi. Ma forse il Pd non è ancora del tutto un partito plurale e allora il confronto apertosi sul Jobs Act per il suo un significato più generale, simbolico, “diciamo” di cultura politica, acquista una sua importanza. Si dice confronto sul Jobs Act ma in fondo si parla del fare impresa.
Mi pare particolarmente significativo che Matteo Renzi nella sua replica abbia fatto riferimento agli interventi di Soru, Scalfarotto e del ministro Poletti tutti centrati su una specifica visione del fare impresa e dell’imprenditore. E non a caso la polemica più significativa è stata attorno all’uso della parola “padrone” fatta da Massimo D’Alema. Lo scontro sul ruolo del fare impresa racchiude anche una questione forse ora in via di soluzione nella sinistra italiana e che ebbe già ai tempi del saggio su Proudhon, firmato da Craxi, un momento cruciale: un’altra sinistra non di ispirazione (più o meno) marxista è possibile. Quindi, non solo chi ha preso origine dal movimento comunista o socialista massimalista è titolato a usare il brand “sinistra”.
Per semplificare da un lato (chiamiamoli per comodità contrari al Jobs Act) c’è chi sostiene o teme che la nuova legge possa rappresentare il ritorno dell’arbitrio padronale nelle relazioni di lavoro, un’idea servile del lavoro, il ritorno all’800. E logicamente, per loro l’impresa è un meccanismo che spinge il “padrone” per sua stessa natura (dati i rapporti di forza) a schiacciare il lavoratore, a limitarne la dignità umana, lo aliena, lo rende merce. Anche se non lo si esplicita quella dei “contrari” è la visione residua di una concezione classista del rapporto capitale lavoro anche se impacchettata in una terminologia neo keynesiana. L’impresa è il luogo della “contraddizione insanabile”, è il motore unico o privilegiato della società, è il luogo dove si produce il valore ma anche l’emancipazione. E sotto, sotto c’è sempre l’idea che il ruolo del capitalista sia residuo, possa essere surrogato da un operatore collettivo, dallo stato. La società senza capitalisti può esistere e funzionare!
Dall’altro ci sono coloro (chiamiamoli per comodità favorevoli al Jobs Act) che vedono l’impresa come uno dei luoghi della generazione della ricchezza (non il solo), vedono il profitto come incentivo ad investire e misura di efficacia, non come meccanismo di sfruttamento abolibile; generatore di opportunità collettive (attraverso la fiscalità) e non solo come avidità egoistica individuale. Vedono l’imprenditore come soggetto socialmente meritorio oltre che utile, come contribuente e non come potenziale evasore. Come inventore, portatore di visioni e aspirazioni. Un innovatore capace di imporre un nuovo modo di soddisfare bisogni. Forza da imbrigliare in regole precise (per contrastare la naturale propensione a cercare posizioni di dominio o di rendita e spesso scorciatoie illecite) ma non tali da frustrarne le potenzialità. Più Schumpeter che Marx per intendersi.
Anch’egli, come i leader carismatici, forza da domare per utilizzarne il potenziale non da demoralizzare. Per questo i “favorevoli” pensano che sia opportuno che l’imprenditore abbia – soprattutto in momenti di crisi – maggiori certezze regolamentali e maggiori possibilità di fare le proprie scelte sui collaboratori e i lavoratori della sua impresa. Pensano che le valutazioni di un giudice – variabili di luogo in luogo, di soggetto in soggetto – non solo non siano all’altezza delle scelte da compiere ma non possano surrogare le decisioni manageriali.
Detta così una visione sembra tutta conflitto e lotta e l’altra tutta armonia e amore per il prossimo. Ovviamente non è così. Il sindacato, anche la Fiom di Landini, sa negoziare tenendo presenti le esigenze produttive e le scelte manageriali come nel caso Ducati. E Poletti, Soru e Scalfarotto sanno benissimo che il conflitto non solo non è eliminabile in qualsiasi società ma è utile, è fisiologico, aiuta a migliorare, difende i più deboli e contrasta arroganza e abuso di potere. Una visione democratica prevede la competizione, la cooperazione e il conflitto, riconosce le diseguaglianze e combatte le discriminazioni. E non si preoccupa solo della discriminazione sul luogo di lavoro come parte del conflitto di classe: mi licenzi perché sono sindacalizzato o lotto contro i padroni. Ma la combatte come un problema sociale di libertà individuale e autorealizzazione umana, di dignità. Le discriminazioni per ragioni di genere, razza, opinioni devono essere combattute ovunque e il ricorso alla tutela della legge deve essere diffuso in tutta la società affinché diventi costume generalizzato.
Per questo credo che il confronto sul Jobs Act serva per riprendere un cammino avviatosi con la nascita stessa del Pd e abortito con il rilancio della bocciofila: quello della costruzione di un partito di sinistra plurale e post ideologico a vocazione maggioritaria, non il partito di una classe (anche se quella operaia) ma della nazione. In questo forse sta l’importanza poetica e non solo prosaica del confronto della direzione pd.