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Sinistra in confusione totale anche sulla banda larga

Sinistra in confusione totale anche sulla banda larga

Davide Giacalone – Libero

A perdere la memoria si rischia di far sempre gli stessi errori. Cosa che, nel campo delle telecomunicazioni, sta avvenendo. Ronald Reagan non perse lo spirito, quando gli fu diagnosticato l’Alzheimer, e disse che si trattava di una malattia promettente: ogni giorno incontri un sacco di persone nuove. Ma qui siamo all’epidemia, visto che al governo sembra non conoscano il passato e giocano a mosca cieca con il presente. Prima fanno girare l’ipotesi di un decreto legge che stabilisce la data di decesso del solo asset di valore che si trova nel patrimonio di Telecom italia, la rete fissa e le sue terminazioni in rame. Poi smentiscono con risolutezza. Quindi il decreto diventa un «piano», nel quale si leggono quali sono le mete da raggiungere. Che poi sono quelle già stabilite in sede europea, rispetto alle quali siamo indietro.

Come si recupera? a. Il governo non farà scelte tecnologiche, che competono al mercato; b. Investiremo 6 miliardi nelle reti. E che ci comprate? Perché se investite una scelta dovrete pur farla, e, nel caso in cui l’amnesia si sia fatta strada, ricordo a tutti che il governo, per il tramite della Cassa depositi e prestiti, è proprietario di una società (Metroweb) che investe nella rete in fibra ottica. Alla faccia delle scelte che spettano al mercato! Restiamo alle amnesie. Yoram Gutgeld scrive, su Il Foglio, una cosa giusta: se l’ltalia è indietro ciò lo si deve anche al fatto che non abbiamo la televisione via cavo, ovvero reti tv che potrebbero far concorrenza a quelle tlc. Vero. Ma deve essersi dimenticato il perché: non le abbiamo perché fu protetto il mercato della Rai, violando il diritto ad operare di imprenditori privati. Che esistevano, eccome. Nel 1973 Ugo La Malfa ci fece cadere un governo Andreotti, proprio perché il ministro Giovanni Gioia difendeva un monopolio già allora anacronistico.

Che fare? L’Italia è molto indietro, nella penetrazione della larga banda, ma quella che esiste è occupata solo in parte. Vogliamo la casa più grande, ma già viviamo nel tinello di quella piccola. Come si spiega? Capita perché, in questi giorni, faccio avanti e indietro con il portone d’ufficio per ritirare le CU (certificazioni uniche), e mi va anche bene, perché se sono fuori, essendo raccomandate con ricevuta di ritorno, mi tocca andarle a prendere all’ufficio postale. Per essere in regola con un adempimento fiscale, relativo a soldi già incassati e ritenute già pagate, accumulo carta. Tale carta andrà al commercialista, ma già si sa che è in parte irregolare, perché il governo ha reso noto il modello da utilizzare solo il 23 febbraio, talché molti non si sono adeguati. Il commercialista trasmetterà tutto al fisco, il quale ci darà una dichiarazione non pre­compilata, ma pre­complicata, che butteremo nel cestino, giacché non contiene la detrazione delle spese. Ecco come si spiega: un’amministrazione pubblica che non lavora in digitale.

Non a caso Gutgeld, che fa il consigliere a Palazzo Chigi, neanche sa che tutte le scuole sono già connesse in rete, mentre crede che scarseggino. E non lo sa perché le scuole ci fanno solo l’amministrazione del personale. Ecco, è lì che il governo deve lavorare, spingendo l’offerta digitale, creando interesse alla capillarizzazione delle reti e adottando i pagamenti elettronici presso le sedi proprie. Senza giocare al piccolo comunicatore. E senza coltivare sospette amnesie.

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

Maurizio Belpietro – Libero

Basta la parola, diceva Tino Scotti in un famoso spot di Carosello quando la tv era ancora in bianco e nero. Eh, si, basta la parola. O meglio, basta cambiare la parola e tutto diventa più accettabile. Da losco e brutto che era, con una parola diversa il provvedimento di un governo può diventare infatti ineccepibile e perfino bello. Ecco, si cancelli dunque il termine condono e lo si sostituisca con sanatoria, che derivando da sanare, cioè rendere sano, non fa lo stesso effetto di condono, che già da solo fa intravedere un dono. Anzi, meglio, chiamiamo la all’inglese voluntary disclosure, rivelazione volontaria, manco fosse l’annunciazione. E così, il tanto esecrato condono fiscale, ossia la madre di tutti gli orrori che a detta della sinistra favoriscono l’evasione fiscale, cambia nome e con il governo del cambiamento di verso diventa sanatoria fiscale.

A darne notizia ieri era la gazzetta dei compagni, ossia il giornale che ha tenuto a battesimo l’ascesa del presidente del Consiglio e di tutti i leader progressisti negli ultimi anni. Sulla Repubblica di Carlo De Benedetti, editore che ama a tal punto l’Italia da aver trasferito la sua residenza in Svizzera, si poteva infatti apprendere del prossimo arrivo di una sanatoria da 6 miliardi e mezzo. «Con il rientro dei capitali», titolava il quotidiano diretto da Ezio Mauro, «sconti a chi ha evaso in Italia». Magari ai lettori di Repubblica sarà saltata la mosca al naso a leggere che alla fine anche il governo del rottamatore rottama la lotta a chi ha portato i soldi all’estero, tuttavia per tranquillizzare chi aveva avuto il buon cuore di acquistarne una copia, il giornale di piazza Indipendenza precisava che sì, per i furbi ci sarebbero state sanzioni ridotte e reati cancellati – tranne che per chi ha emesso fatture false e si è macchiato di reati di mafia – ma la legge avrebbe imposto di dichiarare il nome del possessore di patrimoni non denunciati e il pagamento delle imposte.

Eh, già, ma quali imposte? n provvedimento vidimato alla Camera e ora in discussione al Senato dovrebbe imporre un’aliquota media del 37 per cento nel caso i soldi siano del tutto sconosciuti al fisco, mentre quelli su cui non si sono pagate le cedole potrebbe essere tassato con un’aliquota media del 6,75 per cinque anni. Insomma, un bei risparmio per gente che fino a ieri rischiava di vedersi requisito il patrimonio. Oggi invece con la nuova normativa in corso di approvazione, il contribuente infedele potrà tenersi il malloppo versando un po’ di soldi all’erario e senza alcun rischio penale. Considerato poi che le sanzioni applicate per il rientro di capitali all’estero che non erano stati dichiarati sono ridotte della metà e alla fine si pagherà l’1,5 per cento se le somme erano detenute in paesi appartenenti alla white list (e cioè non considerati paradisi fiscali) e del 3 per cento se invece sono depositati in banche che risiedono nei luoghi della black list (tipo quelle svizzere, dove sta l’80 per cento dei capitali all’estero) si capisce che la cosiddetta “voluntary disclosure”, ossia collaborazione volontaria dell’evasore, è assai conveniente. condono – pardon, la sanatoria consente di tenersi i soldi, versando le tasse non pagate a rate e con un’aliquota media comunque assai più conveniente di quella che si sarebbe stati costretti a pagare se si fosse dichiarato tutto al Fisco. Anche perché l’aliquota media per certi redditi (sopra i 300 mila) è pari al 45 per cento, mentre per certe aziende va oltre il 50. Insomma, se – pur con i ritocchini linguistici e i giochi di parole del politically correct – la sinistra è arrivata a varare un condono fiscale, significa che il governo sta proprio raschiando il barile nella speranza di trovare quei miliardi che gli servono per varare la legge di stabilità.

Del resto la sanatoria con l’erario non è l’unica notizia che fa intendere come il governo sia con l’acqua alla gola. È di ieri l’annuncio che dopo aver tassato i fondi pensione e introdotto la tassazione ordinaria (cioè meno favorevole per il contribuente) per il Trattamento di fine rapporto, l’esecutivo si appresta a far slittare di dieci giorni il pagamento delle pensioni, spostando la scadenza di erogazione dei vitalizi dalla fine del mese al dieci del mese successivo. La novità – che verrà introdotta a partire da gennaio – consentirà all’Inps – e dunque a Palazzo Chigi che ne ripiana le perdite – di guadagnare una decina di giorni sull’erogazione delle somme a chi si è ritirato dal lavoro, un ritardo che permetterà allo Stato di risparmiare un po’ di quattrini. In genere questi trucchi li fanno le banche, che sulla valuta di pochi giorni costruiscono parte dei loro guadagni. Adesso il gioco lo fa anche il Tesoro, il quale si abbassa al livello dei caimani dello sportello. A quando dunque l’introduzione di altre gabelle tipo quelle che gli istituti di credito sono soliti infilare nei loro estratti conto? Di questo passo per incassare la pensione presto si dovrà pagare.

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

La sinistra e lo scoglio del “fare impresa”

Mario Rodriguez – Europa

Non è per attizzare lo scontro sui massimi sistemi, le visioni del mondo, le ideologie (in accezione positiva). In un partito davvero plurale si dovrebbe preferire confrontarsi sulle conseguenze dei principi piuttosto che sui principi stessi. Ma forse il Pd non è ancora del tutto un partito plurale e allora il confronto apertosi sul Jobs Act per il suo un significato più generale, simbolico, “diciamo” di cultura politica, acquista una sua importanza. Si dice confronto sul Jobs Act ma in fondo si parla del fare impresa.

Mi pare particolarmente significativo che Matteo Renzi nella sua replica abbia fatto riferimento agli interventi di Soru, Scalfarotto e del ministro Poletti tutti centrati su una specifica visione del fare impresa e dell’imprenditore. E non a caso la polemica più significativa è stata attorno all’uso della parola “padrone” fatta da Massimo D’Alema. Lo scontro sul ruolo del fare impresa racchiude anche una questione forse ora in via di soluzione nella sinistra italiana e che ebbe già ai tempi del saggio su Proudhon, firmato da Craxi, un momento cruciale: un’altra sinistra non di ispirazione (più o meno) marxista è possibile. Quindi, non solo chi ha preso origine dal movimento comunista o socialista massimalista è titolato a usare il brand “sinistra”.

Per semplificare da un lato (chiamiamoli per comodità contrari al Jobs Act) c’è chi sostiene o teme che la nuova legge possa rappresentare il ritorno dell’arbitrio padronale nelle relazioni di lavoro, un’idea servile del lavoro, il ritorno all’800. E logicamente, per loro l’impresa è un meccanismo che spinge il “padrone” per sua stessa natura (dati i rapporti di forza) a schiacciare il lavoratore, a limitarne la dignità umana, lo aliena, lo rende merce. Anche se non lo si esplicita quella dei “contrari” è la visione residua di una concezione classista del rapporto capitale lavoro anche se impacchettata in una terminologia neo keynesiana. L’impresa è il luogo della “contraddizione insanabile”, è il motore unico o privilegiato della società, è il luogo dove si produce il valore ma anche l’emancipazione. E sotto, sotto c’è sempre l’idea che il ruolo del capitalista sia residuo, possa essere surrogato da un operatore collettivo, dallo stato. La società senza capitalisti può esistere e funzionare!

Dall’altro ci sono coloro (chiamiamoli per comodità favorevoli al Jobs Act) che vedono l’impresa come uno dei luoghi della generazione della ricchezza (non il solo), vedono il profitto come incentivo ad investire e misura di efficacia, non come meccanismo di sfruttamento abolibile; generatore di opportunità collettive (attraverso la fiscalità) e non solo come avidità egoistica individuale. Vedono l’imprenditore come soggetto socialmente meritorio oltre che utile, come contribuente e non come potenziale evasore. Come inventore, portatore di visioni e aspirazioni. Un innovatore capace di imporre un nuovo modo di soddisfare bisogni. Forza da imbrigliare in regole precise (per contrastare la naturale propensione a cercare posizioni di dominio o di rendita e spesso scorciatoie illecite) ma non tali da frustrarne le potenzialità. Più Schumpeter che Marx per intendersi.

Anch’egli, come i leader carismatici, forza da domare per utilizzarne il potenziale non da demoralizzare. Per questo i “favorevoli” pensano che sia opportuno che l’imprenditore abbia – soprattutto in momenti di crisi – maggiori certezze regolamentali e maggiori possibilità di fare le proprie scelte sui collaboratori e i lavoratori della sua impresa. Pensano che le valutazioni di un giudice – variabili di luogo in luogo, di soggetto in soggetto – non solo non siano all’altezza delle scelte da compiere ma non possano surrogare le decisioni manageriali.

Detta così una visione sembra tutta conflitto e lotta e l’altra tutta armonia e amore per il prossimo. Ovviamente non è così. Il sindacato, anche la Fiom di Landini, sa negoziare tenendo presenti le esigenze produttive e le scelte manageriali come nel caso Ducati. E Poletti, Soru e Scalfarotto sanno benissimo che il conflitto non solo non è eliminabile in qualsiasi società ma è utile, è fisiologico, aiuta a migliorare, difende i più deboli e contrasta arroganza e abuso di potere. Una visione democratica prevede la competizione, la cooperazione e il conflitto, riconosce le diseguaglianze e combatte le discriminazioni. E non si preoccupa solo della discriminazione sul luogo di lavoro come parte del conflitto di classe: mi licenzi perché sono sindacalizzato o lotto contro i padroni. Ma la combatte come un problema sociale di libertà individuale e autorealizzazione umana, di dignità. Le discriminazioni per ragioni di genere, razza, opinioni devono essere combattute ovunque e il ricorso alla tutela della legge deve essere diffuso in tutta la società affinché diventi costume generalizzato.

Per questo credo che il confronto sul Jobs Act serva per riprendere un cammino avviatosi con la nascita stessa del Pd e abortito con il rilancio della bocciofila: quello della costruzione di un partito di sinistra plurale e post ideologico a vocazione maggioritaria, non il partito di una classe (anche se quella operaia) ma della nazione. In questo forse sta l’importanza poetica e non solo prosaica del confronto della direzione pd.

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l’essenza della riforma, ma ha gettato un po’ d’acqua sull’articolo 18. Ora c’è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai “conservatori”.

Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D’Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.

Non perché evocare la “dama di ferro” sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D’Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l’uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l’annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l’art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.

Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un’opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi.

Per sedurre l’elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose. Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all’art. 18 non ha preso forma alcun partito “thatcheriano”.

Con questa sinistra la ripresa è passiva

Con questa sinistra la ripresa è passiva

Carlo Pelanda – Libero

Molti lettori, inquieti per un deludente 2014, chiedono quale sia tendenza economica più probabile per il 2015-16: recessione, stagnazione o crescita? Risponderò alla fine, prima è utile descrivere il fenomeno della “ripresa passiva”, lentissima, che è in atto, come inquadrata dal mio gruppo di ricerca. Fino a poco fa la maggioranza delle famiglie italiane temeva catastrofi. Per tale motivo ha massimizzato, chi poteva, il risparmio, riducendo i consumi. La perdita della fiducia, insieme alla restrizione del credito ed all’aumento del drenaggio fiscale, è stata, ed è, la causa principale della recessione del mercato interno a partire da metà 2011. Da qualche mese un numero crescente di famiglie sta realizzando che la catastrofe non si è attualizzata e comincia a valutare, pur ancora con prudenza, più decisioni di spesa. Da metà 2013 la recessione ha iniziato ad attutirsi non grazie ad azioni stimolative di politica economica o monetaria, ma grazie alla riduzione della paura. Per questo si può definire “ripresa passiva”. Se così, allora è probabile che, pur senza interventi stimolativi di politica economica e monetaria, il Pil italiano resti stagnante, ma non più recessivo. Questo scenario ne illumina un altro: se senza stimolazioni anticrisi il sistema economico italiano riesce a riemergere per sua robustezza intrinseca, basterebbero poche politiche giuste e mirate per metterlo su una linea di crescita forte e rapida.

Possiamo sperare che questo govemo ne sia capace? Vediamo quello che dovrebbe fare: (a) “operazione patrimonio contro debito” per ridurre il secondo di almeno 300-400 miliardi; (b) in 2 o 3 anni taglio di 100 miliardi di spesa ed almeno 70 di tasse, lasciando un margine di 30 per rispettare i vincoli di pareggio di bilancio, dando così un superstimolo all’economia, in particolare agli investimenti; (c) alleggerire i carichi fiscali del settore immobiliare e delle costruzioni che è il motore principale della crescita nel mercato interno italiano; (d) detassare i fondi di investimento per aumentare il finanziamento non-bancario delle imprese e gli investimenti esteri veicolati via fondi italiani; (e) fare un megafondo di garanzia statale per ripatrimonializzare le imprese destabilizzate dalla crisi, ma ancora vive, e dare loro accesso al credito; (f) liberalizzare il mercato del lavoro.

Tali politiche certamente porterebbero il mercato interno in forte crescita prolungata, anche considerando eventuali turbolenze globali con impatto sull’export e sulle Borse: l’Italia diventerebbe locomotiva europea, la disoccupazione sarebbe riassorbila in un triennio, il pareggio di bilancio sarebbe rispettato ed il rapporto debito/Pil scenderebbe rapidamente verso un più rassicurante 100%, forse sotto, dal 130% circa di oggi. Ma il governo Renzi farà persino fatica a flessibilizzare un po’ le norme sul lavoro e non ha nemmeno in programma le cose dette nella misura utile a dar loro efficacia stimolativa.

Non voglio essere ingiusto, ma un governo che stimola la domanda (gli 80 euro) quando la domanda stessa è depressa per mancanza di fiducia, invece di tentare stimolazioni tiscali sul lato dell’offerta per ricostruire la fiducia stessa, dimostra o incompetenza oppure un ancoraggio all’irrealismo della cultura economica di sinistra, o propensione alla demagogia, che non può far sperare troppo. Anzi fa ridere, amaramente, per tanta incompetenza.

Pertanto non è probabile che nel 2015-16 si avveri quella crescita fortissima che sarebbe teoricamente possibile liberando la forza intrinseca del sistema. Ma proprio questa forza ci permette di sperare in un effetto maggiore della svalutazione competitiva dell’euro ora pilotata dalla Bce, unica vera stimolazione, pur non tra le migliori, in atto nell’Eurozona. Pertanto scommetterei su una ripresa ancora lentissima nel 2015, ma più robusta nel 2016, sopra l’1%, in grado di almeno far galleggiare l’Italia nonostante un governo ed un personale politico-tecnico incapaci di guidare una “ripresa attiva”. Non aspettiamoci dalla sinistra cose che non può fare, concentriamoci invece sulla ricostruzione e riqualificazione del centrodestra per sostituire la sinistra stessa il prima possibile e tentare la liberazione del gigante Italia incatenato. Ma nel frattempo non affonderemo, motivo di fiducia.