michele serra

L’amaca

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Michele Serra – La Repubblica

Anni di tagli alla spesa pubblica non compensano il calo del Pil. È la rozza sintesi della lunga crisi italiana, che si avvita su se stessa nel titanico sforzo di rientrare nei fatidici “parametri europei”. Solo la risalita del Pil potrebbe invertire le tendenza. Ma se il Pil non risale? Noi inesperti di economia ci permettiamo di domandarsi dove sta scritto che la produzione di beni e di ricchezza sia soggetta sempre e comunque a riprendere la sua corsa verso “le magnifiche sorti e progressive”. Nella Ginestra Leopardi usò quella fortunata espressione come amaro dileggio del cieco ottimismo umano. Liquidarlo come gufo – specie oggi che Leopardi è diventato ‘quasi pop’ anche grazie al bel film di Martone – non è un’operazione agevole.

Si vorrebbe tutti essere speranzosi e di buon umore, ma il sospetto che l’uscita dalla crisi si fondi su una sorta di ‘pensiero magico’, secondo il quale se oggi piove domani è automatico che ci sia il sole, è piuttosto forte. Nel frattempo, sempre da inesperti che si inchinano all’alto magistero di chi sa bene come funzionano le cose, qualcuno a Strasburgo o nelle varie capitali europee si sta chiedendo che fare se perfino in Germania il buon vecchio Pil si rifiuta, come un somaro recalcitrante, di rimettersi in moto. Esiste un piano B?

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Michele Serra – La Repubblica

Merkel che dice “dovete fare i compiti” ai paesi europei che non riescono a rispettare il fatidico “3 per cento” sembra la parodia del compagno di scuola secchione che si vanta della propria pagella e la fa pesare agli altri. Ecco qualcosa decisamente “di destra”, non tenere conto delle difficoltà altrui, voler punire la debolezza piuttosto che capirla e soccorrerla; ed ecco qualcosa decisamente “di sinistra”, dire ai primi della classe che il loro alto rendimento non può valere come parametro universale. Semmai, e non sempre, può essere di esempio, a patto che non diventi un’ossessione.

Si capisce che Merkel conosca poco e ami pochissimo l’illustre connazionale Karl Marx, anche grazie all’uso sciagurato e criminale che ne ha fatto la Ddr. Ma il celebre assunto espresso nel finale del Manifesto, “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni’, oltre a essere il nobile succo del pensiero socialista, è anche una utile, pragmatica indicazione per ogni comunità umana, compresa quella europea. Non tutti sono in grado di rendere al meglio (pensarlo sarebbe, questa sì, pura utopia), ma tutti hanno bisogno di sentirsi ugualmente dignitosi e rispettati. Se 1’Europa avesse tenuto presente, insieme ai suoi pedanti numeretti, anche questo principio di umanità e di realismo, oggi staremmo tutti un po’ meno peggio. Essendo, anche, tutti un po’ meno di destra.

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Michele Serra – La Repubblica

L’articolo 18, ben al di là dei suoi meriti e dei suoi demeriti, è diventato il capro espiatorio dello scontro finale (inevitabile) tra il mondo del posto fisso e quello della mobilità. Che nel primo ci fossero più garanzie per chi lavora e nel secondo di meno, è perfettamente vero. Ma che il secondo possa sentirsi più garantita grazie all’articolo 18, è abbastanza falso. Lo stesso concetto di reintegro, mettendo l’accento, più che sui diritti violati, sul posto di lavoro inteso quasi come ‘luogo di residenza’, evoca un assetto del lavoro precedente 1’attuale.

È piuttosto convincente quello che scrive (sul Post) Ivan Scalfarotto: in Inghilterra il concetto di reintegro non esiste, ma in caso di licenziamento per ragioni discriminatorie la legge ha la mano molto pesante con il datore di lavoro riconosciuto colpevole. Certo, la la giustizia è veloce e la discriminazione (razziale, religiosa, politica, sessuale) è colpa grave. Da noi il lavoratore licenziato per ingiusta causa rischia di restare a casa senza stipendio e in attesa di una sentenza e di un risarcimento economico che arriveranno dopo anni. Ma mettere mano alla precarietà, alla disoccupazione, alla sottoccupazione è davvero tutt’altra materia rispetto a un provvedimento bandiera nato quando si licenziava per cacciare dalle fabbriche i sindacalisti e i comunisti. Ora dalle fabbriche è stata cacciata una generazione quasi al completo, e la vera ‘ingiusta causa’ è la fuga dei capitali dal mondo della produzione, è la morte del lavoro. Non riguarda più solamente le ‘avanguardie di classe”. Riguarda tutti.

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Michele Serra – La Repubblica

Molti storcono il naso per il ‘ricalcolo’ del prodotto interno lordo comprensivo dei proventi illeciti (prostituzione, droga, malavita), sia pure calcolati in modo presunto. Effettivamente, anche se non è quella l’intenzione, l’effetto è di oggettivo sdoganamento di attività non solo fuori legge, ma spesso violente e umilianti. Ma specie in un paese come il nostro, qualcosa ci dice che il concetto di “ricchezza nazionale” non può essere misurato solo compulsando scartoffie: e in questo senso anche il precedente Pil “pulito” non era meno discutibile di quello nuovo e “sporco.

La vita delle persone, il loro benessere, la loro salute fisica e mentale, la loro sopravvivenza alla penuria e alla crisi non sono una somma di numeri. Sono un intreccio di quantità e di qualità poco percepibili con la mera misura economica. Eppure la misura economica, così arbitraria, è ciò che regola da molto tempo, con ferrea determinazione, le scelte politiche dei governi nazionali e dell’Europa. Nessun altro criterio sembra poter fare breccia, tanto che la crisi della politica è riassumibile soprattutto nella sua totale impotenza di fronte all’economia. E dunque non è una cattiva notizia che criteri considerati aurei e intoccabili, come quelli utilizzati per calcolare il Pil, siano soggetti a possibili variazioni. È una morsa che si allenta. Un Verbo che diventa un po’ meno dogmatico.

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Michele Serra – La Repubblica

Il dibattito sull’articolo 18 ha qualcosa di nobilmente nostalgico (nei suoi difensori) e di inutilmente maramaldesco (nei suoi avversatori). È un po’ come veder qualcuno che litiga sulla scelta delle tende in un palazzo ormai ridotto in macerie. Nel frattempo il lavoro è diventato una poltiglia che gli offerenti vendono sottocosto, e nonostante questo gli acquirenti non possono più permettersi di comperare; sistema pensionistico e sistema sanitario poggiano su basi di prelievo sempre più esigue. Specie ad ascoltare le storie di molti ragazzi, anche laureati, l’impressione è di vivere una specie di lungo “anno zero” del lavoro, che non c’è, se c’è è mal pagato, se è ben pagato è di corto respiro. Bisognerebbe, tra le macerie, ripensare daccapo a diritti, doveri, tutele.

Ma per farlo ognuno dovrebbe rinunciare a qualcosa: i sindacati alla memoria gloriosa ma oramai remota del proletariato di fabbrica e di una visione di classe resa impossibile dalla trasformazione delle classi (non solo quella operaia) in un immenso coacervo di individui smarriti e di interessi frantumati; i datori di lavoro al terrore, vecchissimo anche quello, che un lavoro più garantito sia solo un impiccio e una minaccia; la politica all’illusione di limitarsi ad arbitrare, come ai tempi di Agnelli e Lama, un conflitto padroni-operai oramai largamente in secondo piano rispetto al vero conflitto di classe, che è quello tra capitale finanziario da un lato, mondo del lavoro (imprenditori compresi) dall’altro.