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L’oscuro mondo dei fondi professionali (e Poletti dorme)

L’oscuro mondo dei fondi professionali (e Poletti dorme)

Salvatore Cannavò – Il Fatto Quotidiano

La formazione professionale è decisiva. Ma come funziona è un rebus inestricabile, fatto di norme che si sovrappongono, di flussi di denaro che, di fatto, non controlla nessuno, di accordi e complicità tra sindacati e associazioni imprenditoriali. Il controllo su tutta la materia è per lo meno fragile con un ministero, quello del Lavoro, che al di là del responsabile di turno, finora non ha brillato. Quando si parla di formazione professionale può succedere, infatti, che finisca agli arresti un deputato della Repubblica come Francantonio Genovese, coinvolto nell’inchiesta sulle erogazioni pubbliche ai progetti formativi tenuti da numerosi centri di formazione professionale che erano di fatto riconducibili a lui e alla sua famiglia. Materia delicata, scottante, piena di soldi.

Nel caso della formazione interprofessionale, gestita dagli appositi Fondi – sono 21 e vengono mappati dall’Isfol – si tratta di circa 800 milioni di euro l’anno provenienti dalle imprese che li versano all’Inps in ragione dello 0,30% per ogni dipendente. L’Istituto previdenziale, a sua volta, li gira ai Fondi che li gestiscono in forma del tutto privata erogandoli ad Enti formativi di loro stretta competenza. Nonostante il prelievo “pubblico” – cosi almeno stabilì una sentenza del Consiglio di Stato – i Fondi hanno natura giuridica privata come stabilito dal Tar lo scorso dicembre. Questo li mette al riparo da diversi obblighi. Eppure i bilanci sono fondamentali. Secondo il monitoraggio effettuato nel 2012 dal Ministero del Lavoro, dal gennaio 2004 all’agosto 2011 il flusso di trasferimenti operato dall’Inps ai Fondi è stato di 3,59 miliardi di euro. A ottobre-novembre 2012 erano oltre 765 mila le adesioni da parte delle aziende e oltre 8 milioni i lavoratori dipendenti interessati. La torta è amministrata da un patto tra imprese e sindacati. Il Fondo più importante, ad esempio, Fondimpresa, che incamera una quota rilevante dei fondi complessivi – 266 milioni nel solo 2011 – nasce dall’accordo tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Il suo presidente è Giorgio Fossa, già presidente di Confindustria e nel Cda hanno un posto Cgil, Cisl e Uil. Anche il Fondo Banche e Assicurazioni è frutto dell’intesa tra l’Abi, l’associazione delle banche, quella delle assicurazioni Ania e i tre sindacati. Ma ci sono i Fondi che fanno riferimento alla Lega Coop, a Confesercenti, Confcomercio, Federmanager e alle altre sigle sindacali italiane.

Difficile mettere le mani sui bilanci. Walter Rizzetto, deputato M55 – uscito la scorsa settimana dal gruppo dei pentastellati in polemica con Beppe Grillo – oltre a presentare una interrogazione parlamentare, ha fatto un’esplicita richiesta in tal senso all’Ufficio studi della Camera dei deputati. Nemmeno questo è riuscito a mettere le mani sulla contabilità dei Fondi tranne nel caso del bilancio di FonCoop, l’importante Fondo del mondo cooperativo. Le cifre si riferiscono al 2012, anno in cui gli stanziamenti di provenienza dall’Inps sono stati pari a 28 milioni. Di questi, poco più di 23 sono stati stanziati per i “piani formativi” mentre 825mila euro se ne sono andati per “spese propedeutiche” di cui oltre 200mila euro per promozione e pubblicità varie. Oltre l milione, invece, per spese gestionali tra cui 120mila euro di compensi al direttore, circa 500mila euro di stipendi e 70mila euro per “compensi al Cda”. L’incidenza delle spese di manutenzione (6,7%) supera, seppur di poco, i limiti previsti dal decreto ministeriale che ha stabilito un`incidenza dell’8% per Fondi fino a 250mila aderenti, del 6% per Fondi con aderenti compresi tra 250mila e un milione (Fon.Coop è tra questi) e del 4% per quei Fondi con più di un milione di aderenti.

Il problema dell’opacità dei bilanci è ancora più rilevante una volta che si passa al piano inferiore. I Fondi, infatti, non costruiscono direttamente l’offerta formativa. Questa, come ricorda anche il monitoraggio ministeriale, vive con due approcci: “Per alcuni Fondi la scelta viene lasciata al mercato purché erogata da parte di organismi accredidati”. In altri casi l’ente formativo risponde a un avviso “presentando la propria offerta che una volta validata dal Fondo viene inserita in un catalogo accessibile alle imprese aderenti”. Gli enti formativi devono essere accreditati presso le Regioni e presso il Fondo interprofessionale. Ma questo, visti i casi di cronaca richiamati all’inizio, non è indice di garanzia. In realtà, per esperienza diretta di molti operatori, siamo in presenza di una zona poco controllata, in cui contano le relazioni dirette e personali. La dottoressa Patrizia Del Prete, responsabile dell’ente Consophia, che lavora in prevalenza con Fon.Ar.Com ha inviato lettera di denuncia e di segnalazione della situazione a tutti gli enti possibili, dal Ministero all’Inps: “Il problema che cerco di sollevare – dice al Fatto – è che noi siamo schiavi dei Fondi. Non abbiamo un contratto tutelato, siamo completamente ricattabili e non abbiamo mai chiarezza su chi siano realmente i nostri competitor”. Del Prete solleva anche un altro problema. Le imprese non hanno diretto accesso alla consultazione dei dati finanziari. “Tramite l’accesso informatico all’Inps si possono consultare migliaia di dati ma non quelli della gestione del bilancio per i Fondi interprofessionale, il Fondi Reports”. Il quale, come confermato da una lettera inviatele dal Ministero del lavoro, è di esclusiva pertinenza dei Fondi. Cosa succeda a quelle risorse, dunque, è poco comprensibile soprattutto alla luce di alcune decisioni governative. Il Fondo amministrato dall’Inps, infatti, èstato già “saccheggiato” dal governo Letta, prima, e dal governo Renzi, poi, per finanziare la Cassa integrazione in deroga. Nel 2013 sono stati prelevati 246 milioni che si sono ridotti a 92 nel 2014. Con la legge di Stabilità 2015, inoltre, è stato previsto un ulteriore prelievo di 20 milioni per l’anno in corso e di 120 per il 2016. Nemmeno si trattasse di un Bancomat.

Ordini, avvocati delle cause perse

Ordini, avvocati delle cause perse

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

A fine ottobre è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Codice Deontologico Forense, elaborato dal Consiglio Nazionale Forense già a febbraio del 2014 e che entrerà in vigore il 15 dicembre di quest’anno. Il Codice stabilisce le norme di comportamento che i legali devono osservare in via generale e, in particolare, nei rapporti con clienti, controparti, colleghi e altri professionisti. I contenuti in parte sono il frutto della controriforma dell’ordinamento forense del 2012, quando gli avvocati riuscirono a far approvare dal Parlamento una legge a loro dedicata. Legge che abrogava o restringeva alcune liberalizzazioni previste per tutte le altre professioni liberali.

Esaminando le norme che hanno più impatto economico del Codice, sicuramente ha una certa importanza quella sulla pubblicità. La regola è che non è possibile né fornire informazioni denigratorie, suggestive, equivoche o ingannevoli (e fin qui ci siamo), né comparative o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti all’attività professionale. Non è chiaro perché non si possano dare anche tali dati: paradossalmente, se un avvocato vincesse il premio Nobel per l’economia nonlo potrebbe svelare.

Ancora più restrittiva la disposizione che vieta di indicare il nominativo dei propri clienti anche se questi ultimi sono d’accordo. In questo caso si va contro i principi di trasparenza, in quanto il potenziale cliente potrà scoprire i conflitti di interesse solo chiedendo direttamente al professionista. E soprattutto non è chiaro perché, per capire il valore di un giurista, è più importante qualche roboante titolo tipo “specialista di diritto canonico” e non la tipologia di operazioni e cause che ha seguito e per conto di chi: non c’è dubbio che i clienti preferiscono sapere questi aspetti del curriculum per decidere chi li assiste.

Anche la pubblicità su Internet è regolata in modo cavilloso: sono utilizzabili solo siti web con domini propri senza reindirizzamento. Perché mai? Il divieto di accaparramento di clientela, poi, contiene solo restrizioni anti-concorrenziali. È proibito l’uso di agenti o procacciatori e non si capisce il motivo, visto che si tratta di figure che agevolano l’attività economica. Non si possono corrispondere provvigioni se viene presentato un cliente ad un altro avvocato, atto legittimo e che invece facilita l’indirizzamento di clienti a colleghi più competenti piuttosto che pretendere di essere tuttologi e cercare di tenerseli a tutti i costi.

Paradossale il comma 4 dell’articolo 37: “È vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo di svago e, in generale, in luoghi pubblici”. Insomma “l’utente” dovrebbe bussare alla porta dello studio legale, essere ricevuto da un avvocato in toga che gli sentenzia “Narra mihi factum, dabo tíbi ius”, ringraziare, andarsene e aspettare il responso. Ma in che mondo vive chi ha scritto questa norma? Si è appena affacciato fuori dai confini? Si rende conto di che risate si può fare il cliente che convoca la riunione presso la propria sede e si sente dire che, a causa della deontologia professionale, non si può fare o che non è possibile mandare un avvocato per qualche giorno o settimana a dare una mano ai legali interni presso gli uffici societari?

Addirittura si proibisce quella che qualunque operatore economico giudicherebbe come un servizio intelligente, innovativo e attento al cliente: è vietato offrire, infatti, senza esserne richiesto, “una prestazione personalizzata e, cioè, rivolta a una persona determinata per uno specifico affare”. Se sai fare qualcosa e hai individuato un’opportunità per una impresa, è meglio tacere. Naturalmente si ribadisce ciò che è presente anche nella controriforma del 2012, ossia il divieto di patto di quota lite (compenso determinato in percentuale a quanto si recupera nel contenzioso; uno dei modi più efficienti per dare accesso alla giustizia ai poveri ed evitare che gli avvocati inizino cause inutili).

Il governo si appresta a varare la legge sulla concorrenza che dovrebbe contenere norme per eliminare la competenza esclusiva degli avvocati per l’assistenza stragiudiziale, consentire aggregazioni multidisciplinari e la partecipazione di soci di capitale alle società di avvocati, prevedere la pubblicità dei compensi eliminando la disparità con le altre professioni, liberalizzare il patto di quota lite. Se approvate, si tratterebbe di ottime disposizioni che però fanno sorgere il dubbio se il Codice rimarrà compatibile con una riforma modernizzatrice. La risposta è semplice e non può che essere negativa.