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Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

E’ una domanda fondamentale raramente posta in Italia dove, per motivi storici, le scuole private sono state per decenni essenzialmente scuole cattoliche e quelle pubbliche, invece, scuole laiche che avrebbero dovuto iniettare negli studenti i valori prima del Regno e poi della Repubblica. Sempre per ragioni storiche, la libertà non era tra i valori che avessero grande priorità né nelle scuole private né in quelle pubbliche.

Interessante vedere come alla domanda rispondono M. Danish Shakeel e Corey A. De Angeliis nel EDRE Working Paper No. 2016-9. Insegnano e conducono ricerche alla University of Arkansas, dove diversi decenni orsono ha preso avvio il movimento dei diritti civili di cui la libertà è valore essenziale. Il saggio è intitolato Who is more free? A Comparison of the Decision Making of Private and Public School Principals (Chi è più libero un confronto del metodo decisionale dei presidi delle scuole pubbliche e private).

La letteratura economica e pedagogica sulla scuola pone l’accento sui risultati degli studenti in termini di apprendimento specialmente nelle discipline matematiche e scientifiche (quelle che meglio si adattano ai confronti internazionali, come quelli pubblicati periodicamente dall’Ocse). Il metodo utilizzato è differente poiché l’accento è sui valori,segnatamente sulla libertà.

L’analisi si basa sulla School and Staffing Survey SASS (del 2011 e del 2012) e riguarda in particolare la capacità dei presidi ad incidere su decisioni importanti delle scuole a loro affidate. Sotto il profilo tecnico, tramite una serie di regressioni statistiche per studiare le differenze (su sette temi principali) in cui i presidi di scuole pubbliche e private prendono decisioni. Vengono utilizzati due modelli: uno che tiene conto del background e della caratteristiche dei presidi ed uno che invece non ne tiene conto. La conclusione è che i presidi delle scuole private hanno una maggiore sfera di azione nelle principali aree di attività. E quindi riescono meglio dei presidi delle scuole pubbliche ad inculcare principi di libertà negli allievi.

La famiglia in una società che invecchia

La famiglia in una società che invecchia

Nel contesto di un più vasto studio sulla “prassi globali per contrastare la povertà e migliorare l’equità”, la Banca Mondiale ha esaminato il tema “dell’invecchiamento e della solidarietà familiare in Europa” in un paper (Policy Research Working Paper No.7678) , diffuso, per ora, solamente in via telematica agli abbonati ai servizi dell’istituzione con sede a Washington. Il documento prende avvio dalla constatazione che “all’inizio del ventunesimo secolo”, le relazioni inter-generazionali rimangono un aspetto essenziale della crescita e della sostenibilità del modello sociale europeo.

Tramite una vasta rassegna della letteratura, vengono messi a confronto i differenti strumenti di “scambio intergenerazionale” attuati in Europa. Ne deriva una tassonomia, in base alla quale i Paesi europei sono divisi in tre gruppi: a) quelli nordici (tra cui vengono inclusi anche Francia e Belgio che hanno una strumentazione abbastanza simile a quelle degli altri della categoria); b) quelli meridionali (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) e c) quelli dell’Europa centrale ed orientale aderenti all’Unione Europea. Una conclusione di rilievo: “l’intensità delle attività dei nonni” nei Paesi dell’Europa meridionale è tale da “rappresentare un’alternativa a servizi pubblici, spesso molto carenti per la cura dei bambini. Vivere insieme è anche una strategia utilizzata dalle famiglie per aiutarsi a vicenda”.

Inoltre, nei Paesi dell’Europa meridionale, le donne dedicano maggior supporto, e maggior tempo, alla cura degli anziani e dei mariti di quanto non facciano gli uomini, i quali invece forniscono maggiori aiuti economici ai figli. “I livelli di istruzione e di reddito” inoltre sono fortemente correlati alle tipologia di supporto familiare: contrariamente alle impressioni superficiali, sono le famiglie a reddito alto e medio alto a fornire più risorse e più tempo agli anziani, ai figli ed ai nipoti, mentre “il supporto informale” è molto debole nei ceti a basso reddito.

Il documento solleva, indirettamente, molti interrogativi per quanto attiene alla politica seguita dall’Italia. Non sarebbe preferibile un sistema tributario basato su quozienti familiari per meglio permettere quel supporto intra-familiare che sembra essere una delle caratteristiche del Paese? Misure come gli 80 euro ai dipendenti a basso reddito ed i 500 euro ai diciottenni (senza differenziazione di reddito o di ricchezza) sono efficienti ed efficaci e vanno nella direzione dove sta andando il resto d’Europa o ci distanziano ancora di più dalle “buone prassi” altrui?

Come far decollare il Mezzogiorno?

Come far decollare il Mezzogiorno?

E’ molto che non si parla di Mezzogiorno, se non lamentando il progressivo degrado. Gli indicatori economici prodotti periodicamente dall’ISTAT e da istituti di ricerca documentano non solo come sta aumentando il divario tra Pil pro-capite del Sud e delle Isole ed il resto del Paese e la ripresa dell’emigrazione alla ricerca di lavoro, ma anche un vero e proprio processo di desertificazione dell’industria manifatturiera. Mentre è proprio la manifattura ad essere il tassello per lo sviluppo del Mezzogiorno. In effetti, il Sud e le Isole non sembrano avere più quella centralità nella politica economica italiana che avevano quando all’inizio degli Anni Novanta, il “rapporto Amato” produsse una serie di proposte (peraltro mai attuare) per porre il problema al centro della politica economica del Paese indicando anche azioni e strumenti specifici.

Il Quinto Rapporto della Fondazione Ugo La Malfa su Le Imprese Industriali del Mezzogiorno include non solo una dovizia di statistiche ed analisi ma anche un paper di Giorgio La Malfa (intitolato “Per Il Rilancio delle Politiche Meriodionalistiche”) con proposte specifiche di politica economica. La più interessante ed innovativa riguarda l’individuazione di pochi – essenzialmente uno per regione – poli di attrazione e di localizzazione degli investimenti che presentino e garantiscano condizioni particolarmente favorevoli ai nuovi insediamenti industriali. In particolare m questi poli di sviluppo dovrebbero avere: a) collegamenti efficaci stradali e ferroviari con porti, aeroporti e mercati di sbocco; b) disponibilità in loco di servizi come acqua, elettricità, collegamenti in banda larga, etc.; c) un sistema a tutta prova di sicurezza delle infiltrazioni della criminalità; d) una presenza di terminali di grandi aziende di credito, che dovrebbero essere poste in concorrenza tra loro in questa aree; e) collegamenti con le Università del territorio che consentano di sviluppare tempestivamente le competenze richieste e f) se possibile, agevolazioni fiscali.

Si può dire che non è un’idea nuova. Ricorda sotto molto aspetti l’approccio della unbalanced growth negli Anni Sessanta e soprattutto i lavori sui poli di sviluppo di François Perroux dell’ISEA (Istituto Studi Economia Applicata) sempre di quegli anni. In quel clima, circa cinquant’anni fa, poli di sviluppo sono stati creati nel Mezzogiorno; in quel periodo c’è anche stata una riduzione del divario tra il Sud e le Isole ed il resto del Paese. Purtroppo i ‘poli’ di allora sono adesso archeologia industriale perché non si è rimasti al passo con i cambiamenti della tecnologia, con le necessarie trasformazioni della specializzazione produttiva ed il processo di internazionalizzazione dei mercati. Perché non riprovare, tenendo conto delle nuove condizioni dell’economia internazionale?

La nemesi della libertà

La nemesi della libertà

Questa volta non trattiamo di un paper economico ma di un volume collettaneo (curato da Dean Reuter e John Yoo Liberty’s Nemesis: the Unchecked Expansion of the State pubblicato dall’editore Encounter. Sono ben 576 pagine e si può acquistare per $ 32,99. È un volume americano, che tratta di temi istituzionali ed economici tipici degli Stati Uniti, ma che si consiglia di leggere mentre ci si prepara al referendum elettorale, accoppiandolo, se possibile, ad un breve saggio di Walter Bagehot: Napoleone III. Lettere sul Colpo di Stato Francese del 1851, edito nel 1997 da Ideazione ma ancora acquistabile su internet per € 8.26.

I due libri riguardano rispettivamente la Francia delle metà dell’Ottocento e gli Usa di questi anni. Cosa hanno in comune con l’Italia e con i temi che possono interessare i lettori italiani? Ambedue illustrano come si passa da Repubblica, con garanzie repubblicane, a Monarchia. Le lettere di Bagehot lo descrivono tramite un osservatore straniero, corrispondente a Parigi, di un giornale britannico, prima di creare The Economist. I saggi raccolti da Dean Reuter e John Yoo sono lavori accademici di politologi, sociologi ed economisti sulla trasformazione strisciante del sistema istituzionale americano.

Così come il 3 giugno 1946, numerosi italiani si chiesero se, al referendum istituzionale, avesse vinto la Monarchia o la Repubblica. Nel 1787, una “delegata”, la Signora Powell pose una domanda analoga a Benjamin Franklin che rispose: La Repubblica… se riusciamo a mantenerla tale.

L’analisi, asettica, dei saggi nel volume prende l’avvio dalla Presidenza Wilson che, all’inizio del secolo scorso, iniziò a cambiare la Costituzione “sostanziale” repubblicana con una seria di autorità “indipendenti” (la Federal Reserve, la Federal Trade Commission, la US Tariff Commission e via discorrendo) che, nella realtà effettuale delle cose rispondevano alla Casa Bianca. Attenzione: il Presidente ebbe la complicità del Congresso, che in tal modo, si sgravava di compiti difficili e noiosi, nonché tali da scontentare parte dell’elettorato. La Corte Suprema ci mise del suo.

Ma, sottolineano i saggi raccolti nel volume, negli ultimi otto anni c’è stata un’accelerazione: dalla “amnistia” di Obama in materia di immigrazione clandestina all’espansione delle funzioni della Environment Protection Agency, e via discorrendo. In breve la combinazione di potere regolatorio senza limiti e di delegazione senza limiti è aggravata da una frattura tra l’Esecutivo ed il Congresso. L’analisi è dettagliata e richiede una conoscenza del sistema istituzionale americano per apprezzare il mutamento effettivo delle garanzie repubblicane negli Usa. “Se i conservatori – scrive Yoo nella conclusione – vogliono far fare marcia indietro ad un Esecutivo ed ad autorità indipendenti ormai autoreferenziali, devono cambiare fondamentale il loro approccio al diritto costituzionale ed all’Esecutivo […] l’America è benedetta da una magnifica Costituzione se riesce a riconquistarla”.   

L’Italia e la legge di Okun

L’Italia e la legge di Okun

Chi ricorda ancora la Legge di Okun? Prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962). È una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia tramite le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazionediminuirà in misura meno che proporzionale. Ne consegue che le variazioni di produzione influiscono in modo meno che proporzionale sulla disoccupazione. Questo perché, a fronte di una crescita della domanda, le imprese preferiscono chiedere ai loro dipendenti di fare straordinari piuttosto che assumere nuova manodopera ed è possibile che parte dei nuovi assunti non fossero precedentemente previsti nella forza lavoro essendo classificati come lavoratori scoraggiati. Inoltre, data tale relazione, varrà che se la crescita è inferiore al tasso normale, la disoccupazione sarà maggiore di quella del periodo precedente.

La legge di Okun è stata associata a considerazioni di tipo Keynesiano, in quanto suggerisce che per poter raggiungere il tasso di disoccupazione considerato come obiettivo di politica economica è necessario che la crescita del PIL superi quella potenziale di una determinata misura. È una “legge” particolarmente pertinente all’Italia in questa fase in cui si analizzato le implicazioni del Jobs Act.

A fine aprile, poco prima della pubblicazione dei dati INPS che hanno fatti sorgere molti dubbi sulla efficienza e la efficacia di quello che sarebbe l’architrave delle riforme economiche strutturali del Governo, la rivista telematica di ricerca economica Empirica ha messo online un lavoro di Lucan Zanin di Prometeia (The Pyramid of Okun’s Coefficient for Italy) che ha stimato i parametri cruciali per verificare la Legge di Okun in Italia in modo disaggregato, ossia per età e genere.

I dati sul tasso di disoccupazione per età e genere non sono disponibili nelle statistiche ufficiali; quindi Zanin li ha stimati sulla base delle indagini Istat delle forze di lavoro per il periodo 2014. Vengono utilizzate due misure del tasso di disoccupazione: la misura tradizionale che include i lavoratori con o senza esperienza di lavoro. Quando la Legge di Okun è stimata utilizzando il tasso di disoccupazione ristretto a coloro con esperienza di lavoro, i lavoratori giovani risentono meno del ciclo economico. Man mano che la forza di lavoro invecchia, il divario di reattività al ciclo economico diminuisce, specialmente per il segmento della forza di lavoro con più di trent’anni. Infine l’analisi statistica individua che non ci sono differenze significative di genere.

Le conclusioni sono abbastanza evidenti: non sono i ritocchi alla normativa sul lavoro o gli incentivi a breve termine a ridurre la disoccupazione, specialmente quella dei giovani, ma una crescita economica vigorosa che riporti le imprese ad assumere.

Libertà economiche e sviluppo

Libertà economiche e sviluppo

Non c’è sviluppo senza libertà economiche e tolleranza. Questo il succo di due lavori scientifici recenti scelti questa settimana per i lettori del Centro Studi Impresa Lavoro. Il primo è un saggio Leandro Prados de la Escuria della Università Carlo III di Madrid (difficile capire perché gli economisti spagnoli sono poco noti e raramente citati in Italia). Il lavoro (Economic Freedom in the Long Run: Evidence from OECD Countries 1850-2007 – Libertà economiche nel lungo termine: analisi sui Paesi OCSE dal 1850 al 2007) è apparso nella The Economic History Review Vol. 68, No. 2 pp. 435-468. The Economic History Review è una delle più prestigiose riviste di storia economica a livello internazionale.

Lo studio presta indicatori economici per le principali dimensioni delle libertà economiche per i Paesi avanzati ad economia di mercato, specificamente quelli che facevano parte dell’Ocse già prima del 1994. Negli ultimi cento cinquanta anni, le libertà economiche sono aumentante e, nei Paesi analizzati, hanno raggiunto due terzi del massimo possibile. Tuttavia, l’evoluzione non è stata lineare. Dopo una forte espansione dalla metà dell’Ottocento, la Prima Guerra Mondiale ha provocato non solo un arresto ma anche un ritorno al passato e negli Anni Trenta c’è stato un drammatico declino. Notevoli i progressi durante gli Anni Cinquanta, pur non raggiungendo i livelli precedenti la Prima Guerra Mondiale. Dopo un periodo di stagnazione, la lunga fase di espansione dall’inizio degli Anni Ottanta ha portato ai livelli più elevati di libertà economica negli ultimi due secoli.

Ciascuna delle principali tipologie di libertà economia ha avuto tendenze ad essa specifica ed il contribuito all’indice complessivo è variato nel corso degli anni. In generale, il miglioramento dei diritti di proprietà è stato l’elemento che più e meglio ha contribuito al progresso di lungo periodo della libertà economica.

Sul Journal of International Business Studies (Vol. 47 No.4, pp. 480-497) Stelio Zanakis e William Neuburry (ambedue della Florida International University) e Vasyl Taras della University of North Carolina, giungono a conclusioni analoghe in materia di tolleranza (Global Social Tolerance Index and Multi-Method Country Rankings Sentsitivity – Indice Globale di Tolleranza Sociale ed ordinamento per Paesi con metodi differenti).

Utilizando i dati delle Nazioni Unite sui “valori” nei differenti Paesi e dati di 56 Paesi (con 83.000 interviste utilizzabili) i tre economisti costruiscono un Global Tolerance Index (GTI) che incorpora varie tipologie di tolleranza (di genere, di religione, nei confronti delle minoranze e degli immigrati). L’indice fornisce indicazioni utili nel forgiare politiche. Non è una coincidenza che dove c’è più libertà c’è anche maggiore tolleranza.

Guerra di sigle e di generazioni

Guerra di sigle e di generazioni

di Giuseppe Pennisi*

Una nuova sigla entrata da qualche giorno nella galassia degli acronimi giornalistici e nel dibattito di politica previdenziale (e, quindi, di finanza pubblica): APE, ossia Anticipo Pensione. Pochi si sono accorti che nella galassia esiste già un APE, Attestato di Prestazione Energetica, come sanno tutti coloro che vogliono vendere od acquistare un immobile. Prima o poi, la “guerra” delle APE troverà una soluzione, anche in quanto la flessibilità in uscita, con pensionamento anticipato, pare ancora lontana, quanto meno per coloro che non hanno fatto lavori “usuranti” per diversi anni o che non hanno cominciato a lavorare quando erano molto giovani (nel gergo INPS “i precoci”).

Ma è, poi, realmente in atto una guerra tra vecchi e giovani, ammesso che ci sia piena sostituibilità tra lavoratori più o meno anziani sul posto di lavoro? Non sembra che ci sia. Una quindicina di anni fa, su istanza di associazioni di senior citizen, la Corte Suprema americana ha sentenziato che stabilire un’età legale di pensionamento (allora in numerose aziende USA era a 67 anni) è un’incostituzionale discriminazione contro gli anziani; da allora frotte di americani restano al lavoro quanto vogliono e quanto possono.

Non sono i soli. In questa rubrica abbiamo già ricordato come analisi internazionali dimostrino che andare troppo presto in pensione causa disturbi mentali che spesso accorciano la vita. Un team di economisti delle Università di Londra e di Amburgo (Gabriel H. Ahfelt, Wolfang Maenning, e Malte Steenbeck) ha appena pubblicato un lavoro (Après Nous Le Déluge? Direct Democracy and Intergenerational Conflict in Aeging Societies CESiffo Working Paper Series No. 5779) in cui con un’analisi quantitative in base a procedure quali quelle promosse nel volume del Centro Studi Impresa Lavoro La Buona Spesa – Dalle Opere Pubbliche alla Spending Review – Una Guida Operativa analizza un caso specifico: il maggior progetto infrastrutturale di oggi, i cui costi gravano su questa generazione di tedeschi a benefico delle future. La conclusione è che i conflitti intergenerazionali derivanti dall’invecchiamento della popolazione sono limitati ad un limitato numero di casi in cui il valore attuale netto varia molto significativamente tra classi di età. La proposta è quella di utilizzare in questi casi non lo strumento referendario ma l’analisi costi-benefici economica.

Tornando alle pensioni, di grande interesse di lavoro di Riccardo Calcagno, Flavia Coda Moscarola, Elsa Fornero pubblicato il 27 aprile come Cerp Working Paper 161/16. Eloquente il titolo “Too busy to stay at work. How willing are Italian workers “to pay” to anticipate their retirement?” (‘Troppo occupati per restare al lavoro: quanti italiani sono disposti a ‘pagare’ per anticipare la loro pensione?’). È un’analisi statistica su un campione di lavoratori italiani di almeno 55 anni e la loro ‘disponibilità a pagare’ per anticipare di un anno il pensionamento. La preferenza per una pensione anticipata (ovviamente ridotta) è marcata per le donne e per i lavoratori immediatamente colpiti dalla riforma del 2011 (quali i così detti ‘esodati’). Le donne che curano figli e nipoti, o genitori anziani, sono pronte a pagare anche un prezzo elevato per andare prima in pensione. Ciò indica che il sistema previdenziale può causare “effetti collaterali” se non accompagnato da altre misure di politica sociale, quali quelle per la cura dei congiunti.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Le dimensioni del perimetro pubblico e la crescita

Le dimensioni del perimetro pubblico e la crescita

di Giuseppe Pennisi*

È solo un’ipotesi di liberali incalliti come noi quella secondo cui le dimensioni del perimetro pubblico incidono sulla crescita dell’economia italiana? Un’autorevole rivista scientifica internazione (The European Scientific Journal Vol. 12 No.7, pp. 149-169) pubblica un saggio di Cosimo Magazzino (Università di Roma, Royal Economic Society, Italian Economic Association) e di Francesco Forte (professore emerito all’Università di Roma La Sapienza) in cui si sostiene la medesima tesi.

Cosimo Magazzino è un trentaseienne professore di econometria con vaste esperienze internazionali. Francesco Forte Forte (classe 1929) è stato chiamato nel 1961 alla cattedra tenuta da Einaudi all’Università di Torino. È stato più volte componente di Governi, nonché editorialista di numerose testate. È un liberale “delle regole” al pari di Einaudi, nonché un europeista convinto – è stato anche ministro per il Coordinamento delle politiche comunitarie. Nel suo ultimo libro, Einaudi versus Keynes (IBLibri, Torino pp.342 , € 20), un saggio che gli ha comportato  sei anni di lavoro, tratta, tra l’altro, de “la terza via di Einaudi per l’Unione Europea, fra la politica fiscale e monetaria keynesiana e quella anti-keynesiana“. Quindi, i due autori sono liberisti moderati.

Il saggio ‘Dimensioni della sfera pubblica e crescita in Italia’ (Government Size and Growth in Italy) contiene una verifica econometrica del nesso tra il perimetro della settore pubblico e la crescita, utilizzando serie storiche dal 1861 al 2008, quindi dall’unità d’Italia all’inizio della crisi da cui, forse, stiamo uscendo. L’analisi viene applicata non solo ai principali indicatori macro-economici ma anche agli effetti delle spese pubbliche, all’occupazione (e di converso alla disoccupazione ed alla riforme tributarie e di politica di bilancio nel lungo periodo. I risultati dell’analisi econometrica mostrano che non c’è una relazione lineare tra le dimensioni del settore pubblico (misurate in termini di rapporto tra spesa pubblica e Pil).

Negli ultimi vent’anni in particolare, emerge una relazione a U che suggerisce che tagli alla spesa pubblica accentuato la dinamica del Pil. Questo risultato – concludono i due autori – è in linea con gran parte della letteratura recente. Curiosamente, l’analisi indica che negli anni della Monarchia il vincolo del bilancio in pareggio ha leggermente rallentato la crescita. Quindi, diminuire la sfera del settore pubblico, ma se necessario, utilizzare, con giudizio e perizia, anche leggeri disavanzi di bilancio.

Questa analisi è valida dopo la crisi? Essenzialmente sì anche se gli effetti della recessione sono stati eterogenei. Lo documentano Andrea Locatelli, Libero Monteforte e Giordano Zevi- tutti e tre del servizio studi della Banca d’Italia- nel lavvoro Heterogeneous Fall in Productive Capacity in Italian Industry During the 2008-13 Double-Dip Recession – Bank of Italy Occasional Paper No 313. Lo studio analizza micro-dati per identificare quali settori hanno perduto più capacità produttiva a ragione della crisi (suddivisa in quattro periodi: 2001-07 (i prolegomeni della crisi); 2008-09 (la fase iniziale), 2010-11 (la leggera ripresa), 20112-13 (la seconda recessione). I risultati principali sono i seguenti: a) la perdita di capacità produttiva varie in modo significativo da settore a settore; b) la grandi imprese sono quelle che hanno avuto maggior successo nell’evitare perdite; c) la vendite nei mercati stranieri hanno sofferto nella prima fase ma si sono riprese nell’ultima; d) il Centritalia è l’area che ha ‘tenuto’ meglio.

I due lavori, anche se hanno obiettivi differenti, hanno un nesso: le imprese prosperano o reggono bene le crisi se sfera pubblica non è invadente.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Uno studio importante di Marco Guerrazzi dell’Università di Pisa fornisce interessanti risposte ad un domanda di vecchia data: se la formazione in impresa sia più o meno pertinente di quella in centri di addestramento pubblici, in Italia per lo più regionali o sponsorizzati dalle Regioni. Il testo integrale del lavoro (in inglese) è nell’ultimo fascicolo dell’autorevole International Journal of  Training and Development con il titolo The Effects of Training on Italian Firm’s Productivity: Microeconomic and Macroeconomic Perspectives.

In Italia, l’analisi dell’offerta di formazione professionale e la determinazione del suo impatto sulla produttività del lavoro assumono caratteristiche distintive rispetto ad altri paesi europei. Da una parte, a dispetto di una struttura dei salari piuttosto compressa che dovrebbe consentire alle imprese di recuperare i costi sostenuti per la formazione sotto forma di retribuzioni inferiori, gli imprenditori italiani non sono incoraggiati nel finanziamento di tale tipo di attività. Negli ultimi anni, questa particolare attitudine ha assunto una certa persistenza nonostante una tendenziale perdita di competitività del sistema produttivo che, al contrario, avrebbe dovuto suggerire con una certa urgenza l’adozione di interventi attivi miranti ad invertire la rotta. Inoltre, da un punto di vista squisitamente quantitativo, l’impatto della formazione professionale sulla produttività misurato a livello di singola unità produttiva in Italia è decisamente inferiore rispetto a quello rilevato in altre realtà nazionali.

Al fine di approfondire queste peculiarità del panorama industriale italiano, l’indagine ISFOL-INDACO e l’indagine ISTAT-CVTS4 sono state utilizzate in maniera congiunta per valutare, rispettivamente, l’effetto della formazione professionale sulla produttività di un ampio campione di imprese e l’impatto di tale attività sui tassi di crescita osservati all’interno dell’Unione Europea. In questo modo, sul piano positivo, diventa possibile spiegare per quale motivo le imprese italiane sono il fanalino di coda nelle classifiche internazionali sulla fornitura di formazione. In aggiunta, sul piano normativo, un’analisi di questo genere può fornire un valido supporto per l’adozione di misure volte a contrastare l’insoddisfacente performance dell’intera economia osservata negli ultimi vent’anni.

L’indagine INDACO ha scandagliato oltre 7.000 imprese private con almeno sei dipendenti o più. Queste unità produttive, in larga misura concentrate nel settore della manifattura, impiegavano all’incirca 750.000 lavoratori. In questo campione, le imprese formatrici erano oltre il 50% e al loro interno, in media, la quota di lavoratori formati ammontava al 28% circa. Questi valori non sono troppo distanti da quelli forniti dall’indagine CVTS4, la quale, con riferimento al 2010 e per l’intero territorio nazionale, stimava una quota del 56% per quanto riguarda le imprese formatrici e il 36% per quanto concerne i lavoratori formati.

Da un punto di vista operativo, l’accostamento dei dati sulle imprese censite da INDACO con i corrispondenti riferimenti contabili contenuti nel database ASIA ha consentito di ricavare campione di oltre 4.000 unità produttive – con una distribuzione sul territorio nazionale piuttosto fedele a quella dell’intera popolazione di riferimento – per la quali erano disponibili dettagliate informazioni riguardo ai valori di bilancio e alle caratteristiche di impresa Utilizzando tecniche di stima semplici, è emerso immediatamente che la formazione professionale misurata sia sul margine estensivo (percentuale di lavoratori formati), sia sul margine intensivo (ore medie di formazione per addetto), ha determinato un effetto positivo statisticamente significato sulla produttività aziendale misurata, alternativamente, come ricavi e valore aggiunto per addetto. Questo primo risultato è stato ulteriormente approfondito e raffinato tenendo conto che, generalmente, le imprese di più grandi dimensioni hanno una maggiore propensione alla formazione rispetto a quelle più piccole. In breve, a parità di altre condizioni, un aumento unitario delle ore medie di formazione per addetto è in grado di aumentare i corrispondenti riferimenti dei ricavi e del valore aggiunto di oltre un euro. Di conseguenza, in tutti quei casi in cui il costo della formazione aggiuntiva può essere spalmato una forza lavoro di una certa ampiezza, investire in questa direzione può risultare conveniente per le imprese.

Orientando l’analisi verso una visione aggregata dei sistemi economici, e di quelli europei in particolare, una spiegazione di questo fenomeno può essere fornita esaminando l’impatto che la formazione professionale esercita sui tassi di crescita dell’intera economia. Esiste, infatti, una recente letteratura empirica e teorica secondo la quale la formazione, al pari di altre attività intangibili, è in grado di esercitare un impatto positivo sul PIL che tale impatto può essere formalmente contabilizzato (growth accounting). Questo ovviamente implica che i paesi nei quali le imprese sono meno inclini ad investire in formazione professionale hanno performance macroeconomiche che tendono ad essere meno soddisfacenti.

Con riferimento all’anno preso in considerazione dall’indagine INDACO esaminata in questo lavoro, una riprova di questa relazione può essere facilmente ottenuta mettendo in relazione i tassi di crescita del PIL osservati all’interno dell’Unione Europea nel 2009 con le rilevazioni sulla formazione contenuti nell’indagine CVTS4. Al riguardo, si veda il diagramma: mette chiaramente in rilievo che nel 2009, anno critico della Grande Recessione, i paesi europei nei quali la forza lavoro occupata è stata maggiormente coinvolta dalle imprese in attività di formazione hanno subito una riduzione del PIL meno pronunciata rispetto a quelli nei quali le imprese sono state meno attive in tale direzione. All’interno di questo scenario, l’Italia presentava una percentuale di lavoratori formati al di sotto della media europea (il 36% contro il 37%) e, parallelamente, è evidente che l’economia italiana nel suo complesso ha sofferto una perdita di PIL ben superiore a quella sofferta dai paesi europei più importanti come la Germania, la Francia e la Spagna.

Figura 1: L’impatto della formazione professionale sulla crescita economia

grafico1

Fonte: Elaborazione su dati CVTS4 e EUROSTAT

In linea con quanto recentemente raccomandato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dalla Commissione Europea,  qualche forma di incentivo alla formazione in impresa può essere d’aiuto. In effetti, è verosimile che se le imprese nel loro complesso potenziassero l’erogazione di formazione professionale, l’impatto sulla produttività di questa formazione addizionale sarebbe maggiore in ogni singola unità produttiva. Dall’altra, un incremento della formazione potrebbe rendere il sistema economico italiano meno vulnerabile rispetto al verificarsi di shock macroeconomici avversi. In altre parole, un aumento della formazione potrebbe contrastare gli effetti recessivi causati dalla caduta della domanda aggregata che abitualmente caratterizzano le situazioni di crisi economica.

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

C’è relativamente poca attenzione nei confronti delle pubblicazioni di ricerca della Direzione Analisi-Economica Finanziaria del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanza. La serie di paper, iniziata quando la Direzione era guidata da Lorenzo Codogno (ora alla London School of Economics), prosegue ora che ne è a capo Riccardo Barbieri Hermitte. Sono lavori di policy non solo di ricerca pure; per questo meritano di essere letti e discussi.

Di pregio il lavoro di Gianfranco Becatti, Germana Di Domenico, Giancarlo Infantino, intitolato “Un’assicurazione europea contro la disoccupazione: contesto, analisi e proposte di policy” . È il paper NT numero 1/2015. In breve lo studio sottolinea come  la crisi degli ultimi anni abbia mostrato che gli shock asimmetrici possono compromettere la stabilità e la performance economica dell’area dell’euro, con implicazioni negative anche di natura sociale. La politica di bilancio può svolgere un ruolo chiave nell’arginare tali effetti, ma, ad oggi, l’architettura europea non prevede meccanismi di stabilizzazione automatica.

In tale contesto, si è recentemente sviluppato un interessante dibattito circa l’opportunità di dar vita ad un nuovo strumento comune di assicurazione contro la disoccupazione, che si è arricchito di molteplici contribuiti scientifici. Nella nota si argomentano le diverse ipotesi tecniche avanzate in merito al disegno di un tale meccanismo a livello europeo, riportandone i potenziali vantaggi ma anche le aree di criticità ed evidenziando le direttrici lungo le quali potrebbe muoversi un’Europa più integrata, fiscalmente e socialmente, con il necessario consenso politico.

La proposta di un’assicurazione europea contro la disoccupazione – a mio giudizio- dovrebbe essere proposta dal Governo italiano in tandem con la generalizzazione del sistema previdenziale contributivo (in gergo europeo NDC, Notional Defined Contribution) che è stato applicato inizialmente in Italia ed in Svezia nel 1995 e successivamente adottato da numerosi Stati neocomunitari. Ciò renderebbe non solo più uniforme i meccanismi sociali dei singoli Stati dell’Unione Europea ma faciliterebbe risposte “europee” a shock asimmetrici.