pierluigi magnaschi

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Renzi è solo un disinvolto boyscout o sta cambiando la politica e il Paese?

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

Renzi ha fatto macroscopici errori. Basti prendere la riforma del Senato. Aveva in mano una carta clamorosa, quella dell’abolizione completa, pura e semplice, del Senato stesso e l’ha sprecata puntando invece su una sua trasformazione pasticciata che non taglia i costi e, nei fatti, mortifica la democrazia. Ma, accanto agli errori, Renzi ha anche cambiato la politica, dentro e fuori il suo partito. Dentro e fuori anche dal perimetro della politica politicante. E lo ha fatto in un periodo di tempo incredibilmente breve, rispetto ai tempi brontosaurici della politica italiana. Renzi infatti ha conquistato il suo partito da solo un anno ed è al governo da soli sette mesi.

In un paese normale (ma l’Italia, sinora, non lo è stato) la classe dirigente politica apicale viene costantemente rinnovata, dall’andamento delle elezioni. Chi viene sconfitto dal voto, non viene immediatamente riciclato ma torna all’attività privata. Siccome però, in Italia, l’attività politica non è, di solito, una fase della propria vita professionale, ma soltanto l’intera e sola vita professionale di un leader politico, se quest’ultimo soccombe, non può essere mandato a casa perché, non sapendo fare nient’altro, finirebbe ai giardinetti, magari anche in relativa giovane età. La classe dirigente politica italiana è quindi a esaurimento. Non potendoci pensare gli elettori a darle il benservito, è solo la mano di Dio che, a un certo punto, ma per tutti, interviene dicendo: stop.

In un paese normale, l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, che aveva dato una bella salassata a tutta la nomenclatura comunista occidentale, avrebbe mandato a casa la vecchia classe comunista. Da noi invece quella terribile e illuminante vicenda è passata come l’acqua sulle piume di un’anatra. Il successivo crollo del Muro di Berlino, avvenuto 25 anni fa, ridusse, comprensibilmente, ai minimi termini il Partito comunista francese (Pcf), che pure era stato il secondo più importante partito comunista in Europa occidentale (dopo il solo Pci). Da noi invece il crollo del Muro si è concluso con il cambio del nome del Pci avvenuto alla Bolognina da parte dell’allora segretario Achille Occhetto che infatti, paradossalmente, ma non tanto, fu poi l’unico a essere stato rottamato. A capo del Pci, nelle sue successive diverse sigle, sono rimasti, senz’alcun imbarazzo, gli uomini che si erano formati alla scuola di partito sui sacri testi marxisti, ritenuti per buoni.

Renzi ha dovuto battersi contro questo enorme moloch organizzativo, fatto non solo di parlamentari ma anche di sezioni, di sindacato (Cgil), di coop e soprattutto di enti locali, di Asl, di municipalizzate, di patronati. Una ragnatela immensa di interessi, di consuetudini, di condizionamenti e di posti di lavoro. Il successo di Renzi, che oggi sembra ovvio, ha dell’incredibile. E il fatto che, successivamente, non sia stato divorato dal Pd (che ha tentato di reagire ma non aveva più fiato in corpo) è ancor più inspiegabile. Il merito di questo cambiamento epocale, che è stato radicale ed ormai è anche irreversibile, è tutto e solo di Renzi che, coscientemente o meno, ha colto il momento. Il corpaccione Pd (a gestione Pci, perché questa è la realtà anagrafica del partito) era diventato torpido, indebolito com’era dalla troppa lunga consanguineità, dovuta al mancato ricambio della classe dirigente. Non a caso la sinistra Dc, dai Prodi alle Bindi ai Fioroni, per intenderci, (che ci si era insinuata nel Pd) aveva accettato l’ospitalità della nomenclatura e si era accontentata dello strapuntino offerto da chi aveva in mano le redini del partito.

Ma Renzi ha fatto altro e di più. Ha osato riportare i sindacati alla fisiologia che compete loro, in una società pluralistica, mettendo in riga anche il sindacato che è sempre stato l’azionista di maggioranza del suo partito: la Cgil. Un sindacato che, durante gli anni del centrismo imperante, bastava che accennasse di voler fare (non, facesse) uno sciopero generale, per indurre il governo a dimettersi immediatamente dallo spavento. Era lo stesso sindacato che, in occasione delle Finanziarie, pretendeva di sedersi a fianco del governo per determinarne le scelte. Per rendersi conto del salto di qualità fatto da Renzi e della sua radicale rottura rispetto alle prassi del passato, basti pensare che col governo Ciampi (non secoli fa, dunque) le trattative dei sindacati con il governo durarono per ben 41 giorni. Ciò voleva dire, sul piano simbolico (e, in politica, i simboli sono quasi tutto), che il sindacato, se era in grado di bloccare per 41 giorni l’attività del governo, aveva preso, di fatto, il governo per il collo come se fosse un pollo e lo avrebbe lasciato andare solo quando avesse ottenuto tutto quanto il sindacato voleva ottenere da esso. Ora, se il sindacato (che rappresenta solo i suoi iscritti; che, tra l’altro, sono enormemente gonfiati) ha la meglio sul governo, che rappresenta invece la maggioranza di tutti gli elettori, ciò significa che è stata alterata (nei fatti, in concreto e in profondità) la fisiologia democratica specificamente dettata dalla Costituzione tanto lodata a parole, quanto violata, e per così lungo tempo, nei fatti.

Con i sindacati, Renzi ha subito detto che essi sono degli organismi corporativi (nel senso che rappresentano degli interessi settoriali; legittimamente, intendiamoci bene) e che quindi non hanno nessun titolo per voler cogestire, con il governo, la politica economica che, sempre ai sensi della Costituzione, è di esclusiva competenza del governo stesso. Inoltre, al pari di altri grossi organismi di rappresentanza economica, anche i sindacati confederali hanno il diritto di essere informati dal premier sulle intenzioni del governo. Cosa che è regolarmente avvenuta: Renzi ha convocato le organizzazioni sindacali alle 8 del mattino (uno scandalo, a Roma) e ha finito l’incontro un’ora dopo, a palese e pubblica dimostrazione che si trattava di un incontro per fare una comunicazione, non certo di un incontro per intavolare una trattativa.

Lo stesso atteggiamento, Renzi lo ha assunto anche nei confronti della Confindustria che aveva nutrito, con gli anni, nei confronti del sindacato, e in particolare nei confronti della Cgil, una sorta di sindrome di Stoccolma che è la sindrome che si impadronisce dei sequestrati quando, in occasione dell’assedio della polizia per liberarli, i sequestrati stessi finiscono per solidarizzare nei confronti di chi li tiene prigionieri, contro la polizia che vuole liberarli. La sindrome è inevitabile ma non per questo può essere accettata. Questa complicità (al posto della salutare conflittualità fra sindacati e datori di lavoro) era infatti il frutto rancido della passata concertazione quando sindacati e imprenditori, quando non riuscivano a mettersi d’accordo, chiedevano (e ottenevano) di far mettere dal governo, la parte che mancava, affinché potesse essere raggiunta l’intesa.

Insomma Renzi, forse senza accorgersene completamente, in questo è molto boyscout, ha tirato già in Italia il Muro di Berlino di un passato che, da noi, non riusciva a passare. Non so che cosa riuscirà a fare in futuro. Ma sicuramente, in sette mesi, sfidando un potere decrepito, ha fatto ciò che nessuno politico era mai riuscito a fare nei precedenti settant’anni.

Leggi balorde ed enti locali scoppiati si oppongono ai nuovi posti di lavoro

Leggi balorde ed enti locali scoppiati si oppongono ai nuovi posti di lavoro

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

Gli economisti la fanno facile. Apri lì, chiudi là. Il grafico parla chiaro. La correlazione spiega tutto. Il risultato finale però è che, con il denaro quasi a costo zero (ma solo per le banche), nessuno assume più nessuno in Italia. È vero che l’articolo 18 non ispira fiducia. Che il codice del lavoro, in pratica, non esiste e, in ogni caso, le norme che ci sono, hanno una complessità tale da non essere traducibili in inglese, una lingua fattuale, non bizantina come quella che usano i nostri burocrati ma che, in ogni caso, è anche la lingua degli affari, qualsiasi sia la nazionalità dei contraenti. Ma è soprattutto vero, e questo è il punto, che in Italia non c’è un pensiero di massa favorevole all’investimento e quindi alla creazione di nuovi posti di lavoro che producono più ricchezza di quanta ne distruggano.

Fin che i posti di lavoro (veri o falsi) li poteva creare la filiera pubblica (Stato ed Enti locali) il guaio della non creazione di nuovi posti di lavoro era ugualmente presente ma era poco percepito. Ma adesso che la pubblica amministrazione non può più assumere, o sta assumendo con il contagocce, il problema è diventato drammatico come ben illustrato, sinteticamente, dai livelli stellari della disoccupazione giovanile che, in alcune aree del Sud, raggiunge il 70%.

Dagli anni 70 in poi (e lo Statuto dei lavoratori ne è un esempio; ma non certo il solo; né il più pericoloso per l’occupazione) è prevalsa, nel nostro paese, la cultura anti-industrialistica, come risultato del matrimonio fra il movimentismo sessantottardo, il comunismo impermeabile alle dure repliche della storia e il sinistrismo cattolico (diventato, nel frattempo, ateo) ma basato sempre sulla certezza che, alla fine, interverrà la provvidenza a sistemare le cose nate male e costruire peggio. Questo mix ha prodotto una mentalità legislativa devastante che si è tramutata in leggi e regolamenti incomprensibili e che spesso rasentano la demenza, che però sopravvivono al mutato clima intervenuto nel Paese e che spesso impediscono ai burocrati avveduti (ce ne sono) di evitare di creare ostacoli allo sviluppo.

Con norme stupide, anche un burocrate intelligente opera da stupido. Un esempio? Il Politecnico di Milano decide di impartire in inglese l’insegnamento per la laurea specialistica, ambito nel quale i testi di riferimento sono già al 90% in questa lingua. Ebbene, un professore in arretrato sui tempi ricorre al Tar. E il Tar gli dà ragione. Da qui l’accusa che quel magistrato del Tar è uno stupido. No, non è stupido. Ha solo obbedito (come deve) a una legge, quella sì stupida, che, essendo del 1933, in piena epoca fascista, esprimeva un momento in cui il mito italico era stato ingigantito da Mussolini. Il guaio, in questo caso, non è quindi del Tar ma del legislatore (che si dice, da 70 anni, democratico e antifascista) ma che non ha provveduto a cancellare questa norma, appunto, fascista.

Il Corriere della Sera di ieri, in un ottimo articolo da Londra di Michele Farina, ha bene illustrato il calvario di un’imprenditrice inglese innamorata del Salento, nel tentativo di realizzare a Nardò, «in una zona semi-abbandonata con la spazzatura in giro» un resort basato sull’ecoturismo e legato a Slow Food. Un resort che fosse «qualcosa di bello da cui guadagnassero tutti». Per realizzare questo obiettivo, aveva stanziato 70 milioni di euro che però non hanno potuto essere spesi per l’ignavia della Regione (ma non dell’amministrazione comunale e persino dei sindacalisti locali che, onore al merito, si sono immediatamente schierati a sostegno del progetto). Subito è partito «un ricorso al Tar», dice l’imprenditrice inglese. «Il Tar ci ha dato ragione. Ma, subito dopo, è arrivato l’appello. Adesso siamo al Consiglio di stato. Ma la sentenza potrebbe arrivare fra due anni. Non si sa». L’imprenditrice intanto chiede un incontro con la Regione Puglia: «Mi ha accompagnato», spiega, «anche il mio partner nel progetto, Ian Taylor, broker nel petrolio. In Regione ci hanno concesso mezz’ora. Mezz’ora per rispondere a una domanda: Possiamo parlarne? Cosa possiamo fare? La risposta è stata: Forse».

L’imprenditrice coinvolta in questo caso, Allison Deighton, è moglie di Lord Paul Deighton, sottosegretario al tesoro britannico, ex top manager di Goldman Sachs. «Mio marito», dice la Deighton, «era contrario. Oltretutto, il suo lavoro è attirare gli investitori in Gran Bretagna. Adesso lo so anch’io: investire in Italia mette paura». Anche se lo fai per amore dell’Italia, anzi del Salento. Una prece. Per noi. Per i nostri figli e nipoti. Altro che riforma del Senato.

L’art. 18 è come un pallone di pezza per i bambini la sera d’estate

L’art. 18 è come un pallone di pezza per i bambini la sera d’estate

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

L’articolo 18 (che garantisce l’inamovibilità dal posto di lavoro di qualsiasi dipendente privato che non sia dirigente) risale allo Statuto dei lavoratori che, concepito in pieno ’68, venne poi approvato il 20 maggio 1970. Esso quindi rappresenta un mondo che, piaccia o no, non esiste più. Per dare, sinteticamente, l’idea di che mondo era, basti ricordare che, allora, era proibito importare in Italia persino un’auto giapponese. I confini nazionali erano impermeabili e le guardie di frontiera li vigilavano in armi. L’euro era ancora da venire. La Cina era un paese dove la gente moriva di fame a milioni. Il Medio Oriente (salvo periodiche tensioni con Israele) era presidiato stabilmente da feroci satrapie ossequienti al potere delle multinazionali anglo-americane del petrolio. Il mondo, nel suo complesso, era poi diviso a mezzadria fra gli Stati Uniti e l’Urss che si neutralizzavano a vicenda con l’equilibrio del terrore.

Oggi l’articolo 18, espressivo di quel mondo, è sopravvissuto a quel mondo che non c’è più. È rimasto un tabù. Che infatti raggiunge un doppio obiettivo negativo. Da una parte non difende i lavoratori e, dall’altra, allontana gli investimenti. Se l’articolo 18 difendesse i lavoratori ma, nel contempo, tenesse lontani gli investimenti, ci potrebbe essere un dibattito fra i vantaggi e gli svantaggi della sua sopravvivenza. Ma, visto che non difende i posti di lavoro esistenti, e, nel contempo, con il suo puro valore simbolico di carattere dissuasivo, compromette quegli investimenti che potrebbero contribuire a creare nuovi posti di lavoro, si capisce che il dibattito sulla sopravvivenza o meno dell’articolo 18 è puramente ideologico e non è più basato sull’analisi del dare e dell’avere.

Perché l’art.18 non difende il posto di lavoro? Primo, perché quasi metà degli occupati nel settore privato, lavorando in società che hanno meno di 15 dipendenti, non godono dalla sua protezione. Questi ultimi infatti (nell’indifferenza di tutti, sindacati in primis) sono licenziabili immediatamente, senza sostanziose indennità e senza giusta causa. Poi ci sono i dipendenti delle aziende più grosse, nei quali l’art. 18 dovrebbe operare ma che, a causa della crisi, hanno delocalizzato in altri paesi la produzione oppure hanno semplicemente chiuso l’azienda. Anche questi dipendenti, che sono centinaia di migliaia, art. 18 o no, hanno perso il posto di lavoro. Poi ci sono i giovani al di sotto dei 40 anni per i quali l’art.18 non opera perché essi sono stati assunti in base a forme contrattuali contorte che hanno salvato le capre dei sindacati con i cavoli degli imprenditori. Infatti queste assunzioni sono avvenute solo a condizione che si accettasse, per questa categorie di persone, la non copertura dell’art.18, confermando così che sindacati e parte della sinistra, che fingono di essere stretti in difesa dell’art.18, sono disposti, nei fatti, pur di tenere in vita il tabù dell’art. 18 (e sperando che i giovani non se ne accorgano), a far pagare le conseguenze della flessibilità più estrema solo alle classe giovanili per le quali, sempre per lo stesso motivo, si sta preparando anche un avvenire pensionistico miserrimo.

La difesa ad oltranza dell’art. 18 è quindi puramente formale perché la sua protezione, come si è visto, agisce solo su una larga minoranza dei dipendenti privati. Una minoranza, inoltre, che si sta restringendo a vista d’occhio con il passare del tempo, creando disparità di trattamento socialmente e politicamente inaccettabili. In compenso, l’art.18 è diventato come il pallone di pezza che i bambini di un tempo si contendevano nelle partite nel cortile durante le sere d’estate. Viene periodicamente gettato in campo, e politici, sindacalisti, opinionisti, incapaci di risolvere i problemi, si accapigliano fra di loro secondo schemi e ragionamenti arrugginiti perché sono di mezzo secolo fa. L’art. 18 infatti non è più un problema da analizzare lucidamente nei pro e nei contro ma solo una bandiera da strappare all’avversario.

Visto che l’art. 18 tutela oggi solo una minoranza di lavoratori privati (perchè la mondializzazione non consente di ingessare nessuna impresa) bisognerebbe pensare di garantire, a tutti, il diritto di essere indennizzati automaticamente, con somme e parametri contrattualmente prestabiliti, in caso di perdita del posto di lavoro. In tal modo, da una parte, il lavoratore dispone di una somma per far fronte alle necessità insorgenti fra un’occupazione e la successiva e, dall’altra, si rende costosa per gli imprenditori la decisione di interrompere un rapporto di lavoro, introducendo, a loro danno, un’onerosità che penalizza l’eventuale soggettività che, non bisogna nascondercelo, è sempre possibile. Non solo, per evitare di fare un salto nel buio (anche se non è questo il problema) si potrebbe introdurre questa nuova normativa in un’area abbastanza ampia (chessò l’Italia settentrionale) e per un periodo di tempo significativo (tre anni). Dopo, a esperimento concluso, si potrebbe decidere definitivamente, con ragione di causa. Purtroppo nessuno degli attuali difensori (putativi) dell’art. 18, vuol rischiare di vedere come andrebbe a finire. Perché, se si scoprisse che l’art. 18 punisce, più che avvantaggiare, tutti i lavoratori privati, verrebbe meno una bandiera che, fin che c’è, si può agitare con più risultati demagogici che non con un ragionamento.

In Rai non vale il contratto di lavoro

In Rai non vale il contratto di lavoro

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

La Rai è una repubblica a parte. Il dg Gubitosi, che è un gran manager (e lo ha ampiamente dimostrato in aziende che si lasciavano gestire) fa quel che può. Ma è più legato di Laocoonte. I lacci che deve sopportare, non se li è certo inventati lui. È la politica che glieli ha imposti e che adesso deve toglierglieli. A lui o a chicchessia dovesse succedergli. Riuscire a gestire un azienda con quegli impedimenti sarebbe infatti un miracolo. E i miracoli, si sa, non sono degli uomini. La Rai, del resto, è diventata un falansterio che non obbedisce più nemmeno alla logica. Adesso, per esempio, mentre tutti possono constatare che l’ente è oberato di personale in eccesso, la Rai sta bandendo un concorso per assumere un centinaio di nuovi giornalisti, nonostante che il Tg1 abbia in servizio 160 giornalisti, il Tg2 150, il Tg3 130, Rai news 190, i Tg regionali 700 e così via.

In un’azienda normale, oberata di personale a tal punto, si farebbe cassa integrazione (come succede anche ad Alitalia, per non parlare di decine di migliaia di altre aziende di cui non si conosce nemmeno il nome perché non ne parla nessuno). In un’azienda generosa, si terrebbero, con i denti, i posti di lavoro esistenti. Ma in nessuna azienda al mondo, di fronte a un eccesso di personale di questo tipo, si provvederebbe ad assumerne dell’altro. Questo succede in Rai senza che nessuno alzi il ciglio di un’obiezione.

Ma c’è un altro aspetto che dimostra l’extraterritorialità della Rai. Il contratto nazionale di lavoro giornalistico viene disapplicato. Esso prevede (al pari di ciò che succede per i tutti i dirigenti degli altri settori economici) la licenziabilità senza giusta causa (ma con lauto indennizzo, predeterminato) del direttore e del vicedirettore di qualsiasi testata. Questa norma viene applicata da tutti i media italiani. Ma non in Rai, dove il direttore (o vice) esonerato, resta a disposizione, conservando però retribuzione e benefit e dedicandosi, al massimo, a piccole attività paravento. In tal modo il parco dei generali si arricchisce per stratificazione. Il sindacato dice che la non applicazione del contratto si giustifica perché i direttori vengono cambiati quando cambia il governo. Se ciò fosse vero vorrebbe dire che sono i partiti che comandano direttamente la Rai, che è ciò che i sindacati della Rai negano con convinzione.

Del titolo V non parla nessuno

Del titolo V non parla nessuno

Pierluigi Mascagni – Italia Oggi

Il governo Monti aveva introdotto delle sanzioni a carico delle amministrazioni regionali che, per dolo o per colpa grave, portavano al default i loro enti. Fra queste sanzioni c’era lo scioglimento dei consigli regionali e l’incandidabilità per dieci anni dei presidenti delle Regioni. Senza sanzioni sono infatti molto improbabili i comportamenti corretti. Se dando posti di lavoro illeciti agli amici non se ne pagano poi le conseguenze, è evidente che questi amministratori continueranno nel loro andazzo dissipatorio. È vero che, operando in questo modo, essi mandano in fallimento i loro enti. Ma siccome un ente pubblico di fatto non può fallire, questi amministratori disinvolti sanno che arriverà sempre e comunque l’aiuto dello Stato per ripianare i bilanci (ci si può permettere, forse, di chiudere gli ospedali perché non ci sono più soldi nelle casse regionali?). E ciò consentirà loro di andare avanti nell’andazzo preferito che è lo spreco ai fini clientelari.

Purtroppo la Corte costituzionale, con sentenza 219 del 2013, rilevando un eccesso di potere da parte della Corte dei conti, ha cassato quelle misure e ha persino annullato l’obbligo della relazione di fine mandato che avrebbe il merito di mettere, nero su bianco, le responsabilità finanziarie del governo regionale uscente. Riscrivendo il titolo V della Costituzione si dovrebbe porre fine a questa limitazione, a beneficio della correttezza amministrativa. Tutti i politici preferiscono però usare milioni di parole sull’Italicum o sul Porcellum mentre non riservano alcuna attenzione alla dissipazione pubblica che sta alla base dell’insostenibilità dei nostri conti pubblici.

Pertanto il minuzioso rapporto di 247 pagine redatto dall’ispettore della Ragioneria dello Stato Antonio Ricchio, che inchioda alle stesse responsabilità le amministrazioni regionali calabresi Lojero e Scopelliti (quando c’è da sprecare soldi non c’è differenza tra il centrosinistra e il centrodestra) resta solo un’esortazione senza conseguenze. I mille dipendenti assunti illecitamente dalla Regione Calabria fanno marameo. Così capita con gli aumenti a raffica dei dipendenti della Regione Calabria, in deroga al blocco delle retribuzioni che hanno consentito a un funzionario di arrivare, nel 2013, a una retribuzione di 735mila euro l’anno.