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Il governo festeggia il rating sul ciglio del burrone

Il governo festeggia il rating sul ciglio del burrone

Davide Giacalone – Libero

Chi si contenta gode, ma chi s’illude implode. È stato accolto e rilanciato come positivo un pessimo giudizio di Standard&Poor’s. L’agenzia di rating conferma che l’Italia resta a un solo gradino dalla spazzatura, ci basta scendere un pelo sotto il confermato BBB­, cui siamo stati declassati all’inizio dell’anno, perché i titoli del nostro debito pubblico sprofondino all’inferno della non negoziabilità. Ed è stato festeggiato come promettente l’outlook, ovvero la previsione, “stabile”. Come se la stabilità di quel giudizio fosse l’opposto dell’instabilità, quindi di una condizione precaria. È vero il contrario: prevedono che noi si resti esattamente dove ci troviamo, senza peggiorare (cadendo nel baratro), ma anche senza migliorare. Mi è ignoto cosa ci sia da festeggiare.

Siamo stati collocati sul ciglio del burrone, progressivamente degradando il giudizio sulla nostra affidabilità, quando gli spread crescevano all’inverosimile. Considerai quella valutazione ingiusta e troppo punitiva, perché il divaricarsi dei tassi d’interesse, relativi ai debiti pubblici, non andava attribuito a una nostra colpa, ma ai difetti strutturali dell’euro, all’incompiutezza istituzionale della moneta unica e all’inerzia della Banca centrale europea. Ma da allora a oggi le cose sono cambiate, la Bce ha preso ripetutamente (e con successo) l’iniziativa, tanto che, immutate tutte le altre condizioni, gli spread si sono molto ridotti (anche se il nostro rimane costantemente e negativamente più alto di quello spagnolo). Perché, allora, siamo considerati ancora sul ciglio del burrone?

Perché tutto quel che di buono è accaduto non è dipeso da noi. La spesa pubblica per interessi si riduce, ma solo grazie alla Bce. Il prodotto interno lordo sarà positivo, quest’anno, dopo tre anni di recessione, ma la nostra crescita è inchiodata alla metà della media dell’eurozona (S&P prevede, per noi, un +0,4, quindi meno di quel che immagina il governo, sicché a una distanza ancora più marcata dagli altri europei). La svalutazione dell’euro è una buona cosa, per un Paese esportatore, ma, anche questo, un effetto di scelte fatte altrove. Per non dire del prezzo del petrolio. I tagli alla spesa pubblica restano una litania inconcludente.

La pressione fiscale cresce e crescerà, anche secondo le previsioni del governo, che a chiacchiere dice il contrario, quindi farà ancora da ostacolo alla ripresa. La Corte costituzionale ci ha messo anche la ciliegina, che poi è un cocomero capace di schiacciare la torta che il pasticcere governativo confezionò togliendo ai pensionati quel che la legge garantiva loro. Insomma, tutto quel che dentro al cortile italico fa titolare sul ritorno del segno positivo e sulla svolta economica cambia significato, visto da una prospettiva comparata: continuiamo a perdere competitività. Tutte cose che qui abbiamo avvertito per tempo, sebbene parlando al muro. In quanto alla filastrocca delle riforme, presentate come rivoluzioni, quel che ci viene detto è: fateci vedere come funzionano e quali benefici portano, altrimenti, sulla parola, restano solo parole.

Non cambio opinione con il cambio delle stagioni, né climatiche né politiche: le agenzie di rating restano l’incarnazione di un colossale conflitto d’interessi, e resta pericoloso far dipendere i mercati dal loro giudizio. Così come ribadisco che quello sull’Italia è ingeneroso. Ma osservo che quel che prima veniva letto come una bocciatura senza appello, adesso lo si legge come una promozione con lode e incoraggiamento. Non è chiaro quale sia il confine fra propaganda e illusione. Lo è, invece, il capovolgimento della realtà. Che porta male.

Basta illusioni

Basta illusioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ci risiamo. Ancora una volta chiudiamo un anno colmo di promesse – profuse a piene mani 12 mesi fa e reiterate fino all’inizio dell’autunno, quando è stato chiaro a chi non aveva voluto vedere la realtà che anche il 2014 avrebbe chiuso con il segno meno davanti – con la sola certezza di aver buttato l’ennesima occasione. Ancora una volta, la realtà dei fatti è peggiore di ogni previsione, bruciando cosi, oltre alla ricchezza, gli ultimi residui di fiducia nella ripresa, individuale e collettiva. Ma, come al solito prima di Natale e Capodanno, ci viene raccontato, proprio mentre rotoliamo senza freni nel declino, che l’anno successivo sara finalmente quello della svolta. Già, ma che credibilità può avere una simile asserzione se il gioco del posticipo all’anno successivo dell’uscita dalla recessione fa a pugni con un consuntivo di 17 trimestri, sui 28 trascorsi da inizio 2008, di pil in caduta libera?

E sì, perché sono anni che incede la litania di un imminente e prossimo ritorno agli antichi fasti: “I ristoranti sono pieni”, ha ripetuto alla noia Berlusconi; “l’Italia sta meglio degli altri”, sosteneva saccente Tremonti per tutto il periodo che, dal 2001, ha fatto il ministro dell’Economia; “l’anno prossimo arriverà la crescita”, vaticinava Monti a dicembre 2012. E se Letta vedeva “la luce in fondo al tunnel”, Renzi ha subito twittato su #lasvoltabuona. Ecco, non so se per imperizia o malafede – temo sia la prima delle due cause, il che rende più grave la cosa – ma avevano tutti torto marcio, con l’ulteriore e grave responsabilità di aver mentito agli italiani, millantando inesistenti riprese dietro l’angolo, Così, anche questo Natale sotto l’albero troviamo sia la recessione – i dati più freschi che lo certificano sono quelli di Confindustria, secondo cui chiuderemo il 2014 con un calo del pil dello 0,5 per cento e la disoccupazione (se si considera la cassa integrazione) al 14,2 per cento, con 8,6 milioni di persone a cui manca totalmente o parzialmente il lavoro – sia la garanzia che nel 2015 s’invertirà la tendenza. Le indicazioni sono prudenti – almeno questo – ma ci assicurano che già nel primo trimestre del nuovo anno registreremo un +0,2 per cento, che poi si consoliderà in un +0,5 a fine 2015, per arrivare a fine 2016 a +1,1. E comunque un po’ tutti fanno previsioni positive: Fmi +0,8 per cento, Ocse +0,2 per cento, Ue +0,6 per cento, Moody’s +0,5, Fitch +0,6,

Víene da chiedere: su che si basano? Ma soprattutto viene da dire che se anche fosse, ci sarebbe ben poco da “stare sereni”. Anzi, suonano sarcastiche le previsioni di 12 mesi prima della stessa Confindustria, quando si ipotizzava una crescita dello 0,7 per cento per il 2014 e dell’1,2 per il 2015. Come anche quelle di fine 2012, quando si annunciava la ripresa alla fine di un 2013 chiuso poi con un triste -1,9 per cento. Ma non è solo colpa dei calcoli di Confindustria se ai tanti annunci dei governi di centrodestra, alle slide di quelli di centrosinistra o all’ottimismo di maniera dei tecnici è poi seguito solo il timoroso immobilismo della politica e la perenne caduta della nostra economia. Le previsioni le hanno sovrastimate tutti. Per esempio, se un anno fa la Ue prevedeva per l’Italia +0,7 per cento nel 2014, ora stima -0,3. E se l’Ocse scommetteva su un +0,6 per cento nel 2014 e +1,4 nel 2015, oggi rispettivamente -0,4 e +0,2 per cento. E non è un caso che tra tanti numeri il più positivo (Bankitalia, +1,3 per cento) sia anche il più lontano nel tempo. Ma le cantonate peggiori, ça va sans dire, sono state quelle dei governi. Letta scrisse che quest’anno avremmo guadagnato un punto di pil (e 1,7 nel 2015, bum!), Monti azzardò l’1,3, la coppia (scoppia) Berlusconi-Tremonti addirittura l’1,6, mentre lo stesso Renzi, solo qualche mese fa, ipotizzò lo 0,8.

Purtroppo questa abitudine degli esecutivi di annunciare rose che non fìoriranno, oltre a mistificare la realtà, esclude una vera presa di coscienza della realtà e ogni possibilità di cogliere le occasioni che si presentano, che non mancano ora come non sono mancate in passato. Dopo il flusso positivo della prima metà del 2014 dovuto alla favorevole congiuntura internazionale e a un’apertura di credito al governo Renzi, i capitali stranieri sono ora tornati a scappare dall’Italia (saldo negativo di 30,3 miliardi ad agosto e di 37 a settembre) e non basteranno le rassicurazioni di Padoan rivolte in un seminario a porte chiuse a decine di grandi investitori internazionali.

Adesso, però, contrariamente agli anni scorsi, c’è da sfruttare una congerie di fattori favorevoli. Prima di tutto il dimezzamento del prezzo del petrolio, che secondo Confindustria potrebbe generare un risparmio di 14 miliardi annui e 3 decimi di punto sul pil 2015 e mezzo punto nel 2016, Poi il cambio dell’euro sul dollaro (dall’1,38 di gennaio all’1,22 odierno, -11 per cento) che ha già spinto l’export extra-europeo (+6,2 miliardi nel 2014, una performance che non si vedeva dal 1993). Quindi i tassi d’interesse, mai così bassi e destinati a rimanere tali (salvo impennate dello spread per ragioni politiche). Nel 2014 il combinato disposto di questi tre fattori ha portato vantaggi esigui rispetto alle potenzialità. Ora tocca a noi metterli a frutto. Come? Una cosa è sicura: evitare di avere già il risultato in tasca. Tanti auguri e arrivederci al 2015.

Senza sorpresa

Senza sorpresa

Davide Giacalone

Più del declassamento spaventa l’incoscienza della reazione. Il giudizio è ingiusto, ma fondato. Il nostro debito non è meno sostenibile di quello spagnolo, ma la nostra politica è assai meno lucida di quella ispanica. Se si continua a credere, e a cercare di far credere, che il debito si accudisce con gli avanzi primari, imposti a un corpo economico in recessione, allora si calca il terreno dell’inverosimile. Se si crede che la ripresa passi dallo sforamento del deficit e dall’aumento della spesa pubblica, allora siamo in piena sindrome da alcolista, che per star meglio beve un bicchiere in più.
Noi lo scrivemmo quando i giornaloni e i politicanti si compiacevano per il passaggio dell’outlook, della previsione, da peggiore a stabile. Ma che festeggiate? Un Paese in recessione non sta meglio ove si preveda che resti in quella condizione. Se fosse vero quel che hanno detto dal governo, e che a pappagallo è stato ripetuto da molti, ovvero che Standard & Poor’s ha comunque valutato positivamente le riforme (una, quella del lavoro) governative, allora il declassamento si sarebbe dovuto accompagnare a una prospettiva di miglioramento: siete meno affidabili, ma state facendo il necessario per guadagnare posizioni. Invece è stabile: perdete affidabilità e fate tante chiacchiere, per crederci dovremo vedere qualche cosa di reale e tangibile.
Ci declassano ancora perché il debito cresce, la ricchezza prodotta no, mentre la macchina Stato, a cominciare dalla giustizia, è impantanata e impantanante. Quale sarebbe l’obiezione? Che alle altre riforme stiamo provvedendo? È ridicolo, se solo si pensa che per la giustizia una delle cose previste è l’aumento dei tempi della prescrizione, il che vuole dire curare i processi lenti non accorciandone i tempi, ma allungando quelli dell’inquisizione. Il mondo legge e deduce. Il che crea un danno in parte ingiusto, perché dal punto di vista patrimoniale il nostro è fra i debiti più affidabili. Ma sapete cosa significa? Che o si mette la patrimoniale sui cittadini e le imprese o la si mette sullo Stato. Al momento si fa solo la prima cosa, aggravando la recessione, mentre si consente la straultraschifezza di RaiWay, patrimonio pubblico venduto per finanziare spesa corrente. È gravissimo, ma nessuno reagisce. I governanti addirittura si felicitano. Il mondo vede e deduce. Senza dimenticare che le agenzie di rating, in un trionfo di conflitto d’interessi e con regole finanziarie che ne sopravvalutano i responsi, distorcendo il mercato, quelle agenzie saranno pure severe, ma sempre meno degli italiani intervistati dal Censis, visto che il 60% è convinto di diventare più povero. Appunto: più si diventa poveri e meno il debito si sostiene.
Non è tanto il declassamento, quindi, a preoccupare, quanto il modo in cui si reagisce. Con il fastidio di chi non vuole essere distratto dalle proprie beghe cortilane. Ma dopo quel declassamento, ennesimo, figlio di una serie storica così lunga da essere essa stessa significativa in sé, c’è una sola cosa che divide il vascello Italia dall’onda devastante della speculazione: la diga della Banca centrale europea. Quella che noi abbiamo fatto di tutto per indebolire, facendole mancare gli argomenti per crescere di altezza, quindi per offrire maggiore protezione. Siamo qui a sofisticare sulle parole di Mario Draghi, non volendo ammettere che si tratta della sola azione fruttuosa di marca europea. Con l’aggravante, che si aggiunge all’unicità, di essere condotta da una sede che, per sua natura, è priva di legittimità democratica. Fosse solo il declassamento, non si dovrebbe far altro che stringere i denti e andare avanti. Ma viste le reazioni si vien presi dalla voglia di morderne gli svagati protagonisti.
Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Renato Brunetta – Il Giornale

Chissà perché le stesse agenzie di rating che nell’estate-autunno del 2011 erano tanto loquaci, anche oltre il lecito, visto che presso la procura di Trani è in corso una serissima indagine sui loro comportamenti, oggi tacciono? Lo scorso venerdì né Moody’s né Standard & Poor’s hanno aggiornato il loro giudizio sull’Italia. Non hanno nulla da dire o c’è dietro altro? Per Moody’s l’ultimo rating emesso è del 14 febbraio, proprio il giorno delle dimissioni del governo Letta, poi il calendario non è stato più rispettato: nessun aggiornamento il 13 giugno e nessun aggiornamento neanche il 10 ottobre. Che strano: Moody’s non si pronuncia più sull’Italia da quando c’è il governo Renzi. O in questi mesi il giudizio è cambiato talmente poco da essere irrilevante (il che vuol dire che anche l’azione di questi mesi del governo ha prodotto effetti minimi, addirittura impercettibili), oppure il giudizio è talmente grave che renderlo pubblico destabilizzerebbe non solo l’Italia, ma l’intera area dell’euro. In entrambi i casi siamo davanti a una manipolazione del mercato bella e buona, come fu manipolazione, nel senso diametralmente opposto a quello attuale, appena esposto, quella del 2011. Manipolazione che, in quel caso, portò alla caduta di un governo legittimamente eletto dal popolo, e a comportamenti speculativi i cui effetti devastanti hanno messo in ginocchio l’Europa. Ma di questo ci darà conto il tribunale di Trani. Certo, la coincidenza dell’inizio del silenzio da parte delle agenzie di rating con l’insediamento del governo Renzi desta più di qualche dubbio.

Tempesta perfetta in arrivo?
Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario della Fed. L’acquisto di titoli di Stato italiani è stata una strategia ragionevole: sono titoli meno rischiosi e con un rendimento conveniente. La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed. Con meno soldi in circolazione le scelte dei gestori saranno più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno quelli italiani se per allora il nostro Paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento.Tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015. A ciò si aggiunga che poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre 200 miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati. Ne deriva che, aumentando l’offerta di titoli sul mercato, diminuirà il prezzo e aumenteranno i rendimenti (le due grandezze sono inversamente proporzionali). Con le conseguenze che tutti conosciamo sugli spread. Se la tempesta perfetta arriva, spazza via tutto. E tutti.

È credibile la finanza pubblica?
Il documento più recente ufficiale del governo è la Nota di aggiornamento al Def, approvata dal Consiglio dei ministri il 30 settembre, che rappresenta una completa riscrittura del precedente documento di aprile, dimostrazione evidente del fallimento della linea di politica economica fin qui seguita da Matteo Renzi. Errate si sono dimostrate le scelte finora compiute, a partire dal bonus di 80 euro; errati i presupposti analitici su cui quella politica si è fondata. A dimostrazione di questo assunto basta considerare lo scarto nella previsione di crescita del Pil (dal +0,8% di aprile al -0,3% di settembre): 1,1 punti di Pil di differenza. Scarto che supera di gran lunga tutta l’esperienza storica più recente. Senza considerare il grado di realismo (basso) implicito nell’ultima previsione di -0,3%. A giustificare un simile scarto previsionale, in corso d’anno, non si è verificato alcun elemento traumatico. Al contrario si è seguito solo il trend a ribasso degli anni precedenti: -2,4% nel 2012, -1,9% nel 2013. Per ritrovare il segno più negli andamenti del Pil italiano bisogna risalire al 2010 (+1,3%) e al 2011 (+0,4%), quando il governo del paese era affidato a un’altra maggioranza.

Secondo i dati dell’Eurostat il reddito nominale dei Paesi dell’eurozona nel 2013 è stato del 4% superiore ai livelli pre-crisi. In Italia siamo invece ancora ben lontani dal raggiungere quell’obiettivo, e in termini reali la perdita di Pil resta ancora superiore ai 9 punti. Nelle previsioni per il 2015, inoltre, il nuovo Def ipotizza una crescita del Pil pari allo 0,6%. A questo obiettivo dovrebbe contribuire soprattutto la domanda interna, che subirebbe un balzo di un punto di Pil passando da -0,3%, nel 2014, a +0,7% nel 2015. Questo passaggio non è ulteriormente motivato, né si considera l’effetto di trascinamento della brusca caduta dell’anno precedente.

Nella logica del documento del governo, infine, le previsioni di crescita rappresentano il floor su cui calcolare l’impatto delle possibili riforme. Rispetto al tendenziale sarebbero destinate a determinare una crescita del potenziale produttivo pari in media allo 0,2% in tre anni. Spiccioli. L’effetto lordo delle riforme, infatti, è compensato dall’onere recato dalle misure di salvaguardia, poste a difesa del rispetto dei parametri del deficit. Misure che potrebbero scattare a partire dal 2016, per importi predeterminati fin da ora e pari a 12,6 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Con conseguente aumento della pressione fiscale, che si stabilizza a un livello superiore al 44% del Pil. Ipotesi da scongiurare.

Un sentiero impervio
L’insieme di questi dati, al di là dell’eleganza formale dei ragionamenti del governo, dimostra quanto sia ancora impervio il sentiero per uscire dalle secche della crisi. Questi dati rappresentano perfettamente il “circolo vizioso” dell’economia italiana: gli investimenti privati non crescono a causa dei ridotti margini aziendali; quelli pubblici non decollano a causa delle cattive condizioni di finanza pubblica; di conseguenza l’economia ristagna, mentre lo spiazzamento competitivo derivante dal combinarsi di una bassa produttività aziendale con un’altrettanta limitata “produttività totale dei fattori” allontana il nostro paese dal resto dell’eurozona. Per non parlare della concorrenza che deriva dalle economie emergenti. Il governo stesso si è reso conto di questi pericoli allorquando ricorda “la delicatezza della fase attuativa che ha spesso deluso in passato le aspettative degli italiani e degli investitori stranieri”. Preoccupazione assolutamente condivisibile, subito disattesa, tuttavia, dai suoi comportamenti effettivi. Del resto, lo scarto tra preposizioni teoriche e comportamenti effettivi è la vera cifra che caratterizza l’intera azione del governo.

L’attuale quadro dei conti pubblici italiani appare, pertanto, venato da profonde incertezze programmatiche e dalla profonda discrasia tra il “dire” e il “fare”. Esso è reticente nell’individuare i veri punti che sono all’origine dello shock endogeno che persiste nell’economia italiana, intimamente legato alla sua bassa produttività. È il riflesso di un quadro politico incerto, in cui persistono linee divergenti, segnato da fratture difficilmente conciliabili, che riducono la capacità operativa del governo e lo costringono a defatiganti azioni di mediazione, allungando i tempi della decisione politica. Il tutto in aperto contrasto con le esigenze di chiarezza richieste dai mercati e dalla Commissione europea, che non perde occasione per far conoscere le proprie riserve, lanciando ripetuti avvertimenti.

Si rende oggi quanto mai necessario, dunque, un più intenso dialogo intereuropeo al fine di dare a quel semestre di presidenza italiano, fin troppo scialbo, l’occasione di un rilancio. Dobbiamo sgombrare il campo dall’ipotesi che l’accento riposto sulla necessità dello sviluppo sia un alibi per continuare nelle vecchie abitudini di sempre. Al contrario, occorre rafforzare la posizione negoziale dell’Italia per costringere anche gli altri, soprattutto la Germania, a fare la propria parte. Allo stato attuale, però, l’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni del governo appaiono agli occhi degli osservatori spesso fin troppo ottimistiche. L’esecutivo, infine, si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Dopo i governi non eletti, Monti e Letta, con Matteo Renzi l’Italia si trova al suo punto minimo di credibilità economica e democratica. Tutti questi fattori, deflagranti in caso di tempesta sui mercati, rendono l’Italia il paese più debole nel contesto europeo. Continuare a fare finta che non sia così è da irresponsabili.

Limbo-rating

Limbo-rating

Davide Giacalone – Libero

Siamo entrati nel limbo-rating, fra color che son sospesi. Venerdì doveva arrivare il giudizio di Moody’s sui conti italiani e la sostenibilità del debito, ma lo hanno rimandato. Ci si dorme lo stesso, ma un filo d’inquietudine m’ha preso quando ho sentito che il ministro dell’economia è tranquillo. Considerato che hanno declassato la Finlandia (da tre a due A), far spallucce non aiuta. L’inquietudine è cresciuta quando un rating è arrivato, accolto da un coro festoso: confermato il giudizio sull’Italia. Peccato sia una previsione negativa. L’agenzia canadese Dbrs è la più generosa con l’Italia, considerandoci ancora a livello A, sebbene “A-Low”, ma l’outlook, la previsione per il futuro è infausta. Dice che andremo peggio. La preoccupazione aumenta ancora una volta sentito il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, che è sicuro del consenso che la Commissione europea accorderà alla nostra legge di stabilità. Potremmo star sereni, se non fosse che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ci avverte che la legge italiana non può essere già stata bocciata, dato che non è ancora stata scritta. Tradotto: stiamo trattando. E pensare che qualche illuso, lasciatosi affascinare dal dinamismo apparente, gli aveva suggerito di anticiparla all’estate. Macché, ci stiamo attardando, fino all’ultimo istante. Chissà che non sia anche per questo che Moody’s rinvia.

Non divinizzo certo i responsi delle agenzie, dopo avere collezionato dileggi per averne messo in luce conflitti d’interesse, scarsa credibilità e necessità di svincolare le decisioni sugli investimenti da quegli indici. Erano i mesi in cui ogni loro parola era considerata sentenza inappellabile e indicazione politica. Non dai (mitici) “mercati” o dalla speculazione: dalla sinistra. Che persi gli idoli ideologici s’era acconciata ai feticci mercanti. Non cambio giudizio, solo che i dubbi sul futuro sono quelli di cui qui scriviamo costantemente. Ci si trastulla con le parole, mentre i fatti marciano in altra direzione.

Sono mesi che si parla di tagli alla spesa pubblica, sostanza annunciata della legge di stabilità. Carlo Cottarelli ha preparato un piano, che non è stato neanche pubblicato. Il silenzio del commissario alla spending review ha accompagnato il suo ritorno al Fondo monetario internazionale, con una nomina voluta dal governo che gli chiedeva di tacere. Scambio occulto? Macché: baratto palese. Fin troppo. Alla fine, comunque, i tagli reali dovrebbero essere di 4 miliardi, altro che 10, o 20, come si vaneggiò nella calura.

Sono anni che si discute sul modello delle necessarie dismissioni per abbattere il debito pubblico, che intanto cresce per i fatti suoi, mentre i modelli sfilano ignudi di credibilità. Per passare ai fatti c’era il tempo conquistato dalle iniziative della Bce. Cosa siamo riusciti a fare? Abbiamo messo in difficoltà e attaccato la Bce. Ma non basta, perché il governo italiano stima il nostro debito pubblico al 131.6% del prodotto interno lordo, mentre il Fondo monetario internazionale lo colloca al 136.4, salvo correggersi e aggiornarlo al 136.7. Lavorano su dati diversi? Sarebbe davvero curioso.

Non siamo gli unici a fare i furbi con i conti, è che siamo fra i pochi a farlo da fessi. Il debito pubblico tedesco è all’80% del loro pil, ma fanno finta di non sapere che dovrebbero sommare anche quello della KfW (Kreditanstalt für Wiederaufbau), la Cassa depositi e prestiti di colà. E questo è niente, perché non un antipatizzante della Germania, bensì uno dei loro più validi industriali, Michael Mertin (Jenoptik), calcola che il debito pubblico “se si considera quello totale, includendo le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici e altre passività future del governo, sale al 285% del pil”. E se calcolassimo il debito aggregato, mettendo assieme quello pubblico e quello privato, sia industriale che familiare, in relazione al patrimonio finanziario, scopriremmo che i debiti italiani e quelli tedeschi non hanno significativa differenza di affidabilità. Salvo un dettaglio: la lucidità e continuità della classe dirigente. Politica e non solo.

Non siamo gli unici ad avere conti ballerini, ma proviamo gusto nel vestirli con il tutù e farli danzare al ritmo di discussioni sempre uguali e sempre oziose. Sono lustri che parliamo dell’articolo 18, lo abbiamo anche cambiato, nessuno se ne è accorto e replichiamo sempre la stessa scena. A stupire è che qualcuno ancora ci creda. Moody’s già ci colloca ai margini bassi dell’affidabilità (Baa2). Fra due settimane sarà il turno di Fitch. Prima di Natale arriverà Standard & Poor’s. La sostenibilità del debito è un problema dell’intera area dell’Euro, che si ostina a non federalizzarlo, rendendolo sicuro e meno costoso. Noi abbiamo un problema in più: credere che si possa continuare a perdere tempo.