Investimenti pubblici giù: crescita a rischio
IL GIORNALE del 17 febbraio 2016
L’Italia sembra prendersi cura del cuore della propria economia alle prese con la crescita mancata abbassando i livelli di colesterolo buono. Il tutto mentre il premier Matteo Renzi, nonostante la doccia gelata della frenata del Pil a fine anno, continua a vedere un Paese «in crescita». A testimoniare una strategia non esattamente lungimirante del governo sono i dati Eurostat elaborati in uno studio da ImpresaLavoro, che rimarcano come, tra l’epicentro della crisi e il 2014, l’Italia abbia lavorato con l’accetta sulla spesa pubblica per investimenti, ostacolando lo sviluppo invece di concentrare la spendíng review su settori e centri di spesa che non contribuiscono certo all’uscita dalla crisi.
Le cifre sono impietose. Nel 2009 gli investimenti pubblici ammontavano a 54,1 miliardi di euro, ma in cinque anni sono scesi di poco meno di 20 miliardi, attestandosi, nel 2014, a 35,6 miliardi. Un calo del 34,1 per cento, in conseguenza del quale solo il 2,2 del Pil italiano viene insomma speso in investimenti, in caduta libera anche rispetto al rapporto con il prodotto interno lordo: -1,2 per cento sul 2009. È vero però che il trend non è solo italiano, ed è comune al Vecchio continente. L’Eurozona ha visto una contrazione della spesa per investimenti pubblici di 62 miliardi e mezzo di euro, mentre la frenata nell’Unione europea è più contenuta (-47,770 miliardi). Ma il «taglio» italiano pesa per il 38 per cento del totale Ue e per il 30 per cento dell’area Euro, e anche il calo nel rapporto tra investimenti e Pil da noi è superiore alla media europea (-0,9 nell’Eurozona, -0,8 nell’Europa dei 28).
Nel dettaglio, in valore assoluto il colpo d’ascia agli investimenti pubblici è inferiore solo alla Spagna (-33,3 miliardi), mentre il calo della spesa in rapporto al Pil all’1,2 per cento ci vede appaiati alla Grecia. Oltre a Madrid, sul fronte della spesa pubblica per investimenti hanno fatto peggio di noi solo Cipro, Portogallo, Croazia, Irlanda, Romania, Estonia e Repubblica Ceca. Germania, Francia e Gran Bretagna, invece, ci precedono, tutte con un indice di investimenti rispetto al Pil migliore delle medie europee.
Che il punto sia decisivo per l’uscita dalla crisi lo ha rimarcato anche il presidente della Bce Mario Draghi, ricordando come la blanda ripresa finora abbia avuto proprio la banca centrale dell’Ue come unico pungolo: «Circa la metà della ripresa degli ultimi due anni – ha spiegato Draghi due giorni fa alla Commissione per gli Affari economici del Parlamento europeo – è stata dovuta alla nostra, unica, politica di stimolo. L’altra metà della crescita del Pil della zona euro è stata dovuta al basso prezzo del petrolio». Gli investimenti invece «restano deboli», ha ricordato Draghi, auspicando che «le politiche di bilancio» si preoccupino di fare la loro parte nel sostenere la ripresa «tramite investimenti pubblici e una tassazione più bassa». Il messaggio, forte e chiaro, sembra diretto a Matteo Renzi. Non si tagliano i costi burocratici e di gestione, facendo così gli interessi delle caste pubbliche, mentre si toglie respiro alle imprese. Quello che l’Italia al tempo di Renzi sta perdendo è il futuro.