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Le riforme delle pensioni? Hanno ridotto la diseguaglianza

Le riforme delle pensioni? Hanno ridotto la diseguaglianza

di Paolo Ermano*

Analizzando i dati della Banca d’Italia sulle Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane dal 1977 al 2014 è stato possibile computare l’indice di Gini per la popolazione dei pensionati (vecchiaia, anzianità e reversibilità) e confrontarla con quello della popolazione dei lavoratori. Lo scopo della ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro è quello di far emergere l’impatto del sistema pensionistico pubblico che sembra sempre più capace, grazie alle recenti riforme, di livellare le differenze di reddito all’interno della popolazione dei pensionati rispetto ai lavoratori. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista reddituale.

L’indagine

La presenza di un sistema pubblico che gestisce le pensioni di anzianità e vecchiaia rende la società più o meno diseguale? La domanda ha finora trovato poche risposte. L’anno scorso il Sole 24 Ore ha provato a misurare l’indice di concentrazione di Gini [1], la più nota misura della diseguaglianza economia, per il 2013 evidenziando come la popolazione di pensionati fosse caratterizzata da maggior diseguaglianza rispetto alla popolazione dei lavoratori. Purtroppo l’assenza di dettagli più precisi sulle modalità di calcolo utilizzate non ci ha permesso di comprendere come sia stato calcolato l’Indice di Gini da parte degli autori della ricerca pubblicata [2]. L’Istat e Banca d’Italia pubblicano studi che tengono conto dell’andamento dell’indice, non suddividendo però la popolazione indagata in sotto campioni [3].

Eppure il tema è importante per almeno tre ragioni. Innanzitutto, in Italia la spesa pubblica per le pensioni ammonta a circa €250 miliardi, di cui circa €180 miliardi sono spesi per le pensioni di anzianità, e ci si aspetterebbe che tanto denaro gestito dallo Stato sia indirizzato, fra i diversi obiettivi, anche a ridurre le diseguaglianza. Perché, se così non fosse, la gestione pubblica del sistema avrebbe una ragione in meno di esistere.

Secondo, con l’introduzione, avvenuta con la riforma Dini, del sistema contributivo nel nostro ordinamento, si sviluppa una difformità di trattamento generazionale fra vecchi e nuovi pensionati che durerà decenni, diversità che colpisce la sostanza dell’assegno pensionistico e che quindi modifica la distribuzione dei redditi della popolazione dei pensionati.

Terzo, le recenti modifiche della normativa sull’accesso alle pensioni di anzianità e vecchiaia potrebbero aver impattato sulla distribuzione dei redditi dei pensionati e conoscerne l’impatto è uno dei criteri per valutarne l’efficacia [4].

Per rispondere a questi interrogativi, il Centro Studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa preziosa e puntuale serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica [5].

Risultati

Dal grafico 1 possiamo già dare una parziale risposta ai quesiti appena avanzati.

Come si può osservare, il valore dell’indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37.

Grafico 1Ermano01

Da questa indicazione possiamo affermare che negli ultimi venti anni il sistema pensionistico relativo alla vecchiaia, anzianità e reversibilità, si è rivelato capace di ridurre la diseguaglianza della popolazione interessata in maniera significativa rispetto ai lavoratori.

Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato significativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati. Come si può osservare dal grafico 2, dal 1995 a oggi l’indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010.

Grafico 2
Ermano02

Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione.

Se questo andamento continuerà, e se la spiegazione qui avanzata si rivelerà corretta, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Se andiamo ad analizzare nel dettaglio l’indice suddiviso per sesso (grafico 3) troviamo una sostanziale parità di genere.

Grafico 3
Ermano03

L’indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l’Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. I risultati, come rappresentati nei prossimi due grafici (4 e 5), presentano l’andamento dell’indice di Gini dal 1977 al 2014 per i pensionati divisi per ripartizione geografica.

Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale. Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese.

Grafico 4
Ermano04

 

Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30.

Grafico 5
Ermano05Sembra questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

Commento

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo Governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto restituito, più o meno volutamente, alle pensioni una dimensione fondamentale per dar valore alla natura pubblica del sistema di ripartizione: quella di esser strumento di riduzione delle diseguaglianze.

Sia ben chiaro: una popolazione che dal punto di vista del reddito percepito grazie al sistema pensionistico si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’indice di Gini, come qui evidenziato, descrive un situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, che si trova ad avere un assegno più pesante rispetto al passato, sia per la popolazione dei pensionati, più omogenea dal punto di vista reddituale rispetto al passato.

Note: 

[1] Misura tra le più utilizzare per analizzare la concentrazione di una variabile (es.: reddito ricchezza) all’interno di una popolazione. L’indice assume valori tra lo 0, in corrispondenza di una equa ripartizione delle risorse disponibili fra tutti gli individui, e l’1 quando un solo individuo ottiene tutte le risorse disponibile;

[2] “Con la pensione la diseguaglianza cresce”, Sole24Ore, 29/4/2015 pp.21;

[3] Si veda: “Reddito e condizioni di vita”, Istat, vari anni; “Indagini sui bilanci delle famiglie italiane”, Banca d’Italia, vari anni;

[4] Già ci siamo occupati degli impatti sulla sostenibilità economica di queste manovre. Vedi: “Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni”, Panorama, 27 novembre 2015;

[5] Specificatamente, l’Indice di Gini è stato calcolato sul campione presente nel database della Banca d’Italia “Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane 1977-2014”. Abbiamo computato l’indice per il Reddito disponibile netto (escluso da capitale finanziario) e per il Reddito da Pensione (Tipo 1: vecchiaia o anzianità; Tipo 3: reversibilità);

Aumenta lo “spread” tra il costo del denaro al Sud rispetto al resto d’Italia

Aumenta lo “spread” tra il costo del denaro al Sud rispetto al resto d’Italia

Nonostante gli interventi straordinari della BCE e qualche timido segnale di ripresa dei prestiti concessi al complesso del settore privato, i volumi degli impieghi bancari italiani diretti alle imprese risultano tutt’al più stagnanti. Se le manovre espansive sul credito bancario non hanno, almeno per il momento, influito sui volumi, sembra invece che un positivo effetto lo stiano avendo sul costo del denaro.

I tassi d’interesse sugli impieghi mostrano – per ogni diversa tipologia di operazione, che qui comunque dobbiamo analizzare in forma aggregata – una riduzione generalizzata e quantificabile, per il 2015 rispetto all’anno precedente, in circa un punto percentuale. Sulla base di queste analisi, si potrebbe concludere che il dato incoraggiante riguarda pertanto il costo del denaro, piuttosto che la sua disponibilità.

Prendendo a riferimento le operazioni autoliquidanti e a revoca (destinate tipicamente ai fabbisogni di capitale circolante), il tasso attivo medio risulterebbe sceso, al terzo trimestre del 2015, al 5,46% su tutto il territorio nazionale, con una flessione di 86 punti base rispetto all’anno precedente e 99 rispetto al 2012.

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Sempre su base aggregata, le nuove erogazioni nel periodo per operazioni a scadenza (più propriamente destinate agli investimenti in immobilizzazioni), risultano più economiche rispetto a un anno prima per 104 punti base (scadenza inferiore all’anno) e 155 punti base (scadenza entro 5 anni).

Il costo effettivo del credito risulta dunque, nella sostanza, ritornato ai livelli del 2010 (l’anno che ha preceduto la crisi dei paesi periferici dell’Eurozona), con una riduzione per i mutui alle imprese (a medio/lungo termine) quantificabile in 48 punti base e un aumento contenuto (42 punti base) per i fidi in conto corrente e gli anticipi.mappa_02

È interessante notare che anche in questo caso le differenze tra aree regionali, già di per sé molto significative, hanno mostrato una recente tendenza all’aumento. Ciò è soprattutto vero per gli anticipi e le aperture di credito in conto corrente, che costano alle imprese del Sud ora il 2,42% in più in media rispetto al Nord (era il 2,04% nel terzo trimestre del 2014 e l’1,67% nel 2010).

Per quanto concerne le operazioni a scadenza, la tendenza è invece più complessa da analizzare e mostra una riduzione delle differenze rispetto all’anno precedente ma comunque un aumento rispetto ai livelli 2010. I mutui alle imprese meridionali costano in media tra lo 0,79% e l’1,09% in più rispetto alle imprese del nord (in base alle diverse durate), e la forbice pur drasticamente diminuita rispetto al 2014 – risulta più ampia di circa 15-16 punti base medi rispetto ai valori di cinque anni prima.01_costocreditoregioni

 

Credito. Studio Confimprenditori-ImpresaLavoro: accesso più difficile per i piccoli

Credito. Studio Confimprenditori-ImpresaLavoro: accesso più difficile per i piccoli

In testa il Trentino Alto Adige (-2,2%) e Valle d’Aosta (-5,5%). Debiti Pa in aumento: tra 6,1 e 6,4 miliardi di euro, il costo per le imprese e fino a 120 giorni di ritardi nei pagamenti

Continua ad essere difficile l’accesso al credito per le imprese italiane e a soffrire di più sono le piccole medie imprese. Lo rende noto un report realizzato da ImpresaLavoro per Confimprenditori che ha analizzato l’andamento dei prestiti suddividendo il dato delle piccole imprese da quello delle aziende di medio-grandi dimensioni.
Ne emerge un quadro molto chiaro e che segnala come l’ammontare complessivo dei prestiti alle imprese non finanziarie, nonostante i diversi interventi della Banca Centrale Europea, continui a calare.
Mediamente, nelle 20 regioni, il credito al sistema produttivo scende dell’1,3% su base annua (marzo 2015 su marzo 2014) ma questo dato è generato da un calo dell’1,2% per le imprese medio-grandi e da una stretta creditizia quasi doppia (-2,2%) per le piccole imprese. Dal punto di vista geografico la situazione è particolarmente preoccupante al Nord dove i “piccoli” subiscono un rallentamento nell’erogazione del credito che va dal 2,2% del Trentino Alto Adige al 5,5% della Valle d’Aosta, interessando anche regioni con alta concentrazione di imprese come Veneto (-3,1%), Lombardia (-3,1%) e Piemonte (-2,9%). Il rallentamento è meno marcato al Centro dove spicca il -4% delle Marche e un segnale lievemente positivo dall’Umbria (+0,2%). Situazione simile a quella del Sud dove tra i molti segni meno (Puglia: -2,2%, Calabria -2,3%) va in leggera controtendenza il Molise (+0,3%).
I DEBITI PA. Dall’analisi, realizzata sui dati contenuti nei bollettini statistici delle economie regionali di Bankitalia, emerge che il credito rappresenti un fattore importante per le piccole imprese non solo per stimolare nuovi investimenti, ma molto spesso anche e soprattutto per far fronte al ritardo con cui si vedono pagati i lavori eseguiti.
Questo fenomeno è stato ampiamente dibattuto con riferimento ai debiti della Pubblica Amministrazione: ad oggi deve ancora essere pagato al sistema delle imprese italiane un importo che, al netto degli anticipi pro soluto, varia tra i 67 e i 71,6 miliardi di euro. Ne consegue per il sistema delle imprese un costo tra i 6,1 e i 6,4 miliardi di euro: questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pa, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, stimiamo pertanto che questo costo sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).
A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2-4 miliardi di euro.
Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra Pa assume dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.
Questi dati assumono ancor più rilevanza se ricordiamo – come attesta il report “European Payment 201 di Intrum Justitia – che il 38% delle nostre imprese si dichiara disposta a effettuare più assunzioni a fronte di un miglioramento significativo dei tempi di pagamento.
I PAGAMENTI TRA PRIVATI. Non va meglio se consideriamo i pagamenti tra privati. Analizzando i dati forniti da CRIBIS, ImpresaLavoro è stata in grado di ricostruire l’andamento regionale dei pagamenti tra imprese. In termini generali la questione potrebbe risolversi così: più piccola è l’impresa e più puntuali sono i pagamenti. Sembra paradossale ma è così: chi ha più difficolta di accesso al credito, dinamiche dimensionali e quantitative più ristrette è anche chi paga quanto dovuto con più rapidità. In particolare circa un terzo delle micro e piccole imprese pagano le proprie fatture regolarmente (34,5% e 31,5%) mentre questa percentuale scende tra le medie (24,9%) e si dimezza tra le grandi, dove solo il 14,8% paga puntualmente.