Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Probabilmente quello di ieri sarà ricordato come il discorso delle Isole Tonga per l’affermazione, paradossale ma non troppo, che è più facile fare impresa in Polinesia che in Italia. Sergio Marchionne dopo il meeting di Rimini ha voluto marcare la sua presenza anche a Cernobbio e ha fatto l’en plein. E non solo per la lunga ovazione che ha salutato la fine del suo intervento. Innanzitutto ha dato sostanza e adrenalina a un’edizione del workshop Ambrosetti che rischiava di passare agli annali esclusivamente per le polemiche a distanza con il premier Matteo Renzi e le rubinetterie bresciane. Poi l’amministratore delegato della Fiat Chrysler ha avuto anche la capacità di riportare al centro della riflessione di Villa d’Este l’economia reale, laddove nei giorni precedenti avevano dominato ancora una volta gli economisti-scenaristi e gli eurocrati di Bruxelles, entrambi restii ad appassionarsi di fabbriche e di tecnologie. Mancava la voce degli imprenditori e con Marchionne è finalmente arrivata, senza lesinare sui decibel. Per completare il quadro varrà la pena ricordare che in questo settembre 2014 si discuterà in Italia di riforma del lavoro, mezza Europa vigilerà sui tempi dell’approvazione parlamentare del Jobs act e Marchionne ha detto la sua. Ha invitato la politica a ripensare profondamente il rapporto tra Stato, lavoratore e imprese senza dover per forza importare questo o quel modello straniero ma tentando di costruire una via italiana alla flexicurity.



Per tentare di capire ancora meglio l’affondo di Marchionne può avere un senso ricordare come diversi imprenditori in questo periodo cerchino di attirare l’attenzione sui mutamenti dei cicli economici dopo la Grande crisi. Mi è capitato di leggere di recente un’intervista al capo-azienda di una delle nostre multinazionali tascabili che raccontava in maniera efficace di “aziende stressate, ordini che arrivano all’ultimo o che all’ultimo vengono cancellati, continue modifiche tecniche, nuovi mercati che esplodono all’improvviso costringendoci a rivedere le strategie”. È questo in sostanza l’ambiente economico in cui si andrà operare e quand’anche la ripresa sarà arrivata avrà comunque queste caratteristiche. I cicli lunghi ce li possiamo scordare e come ieri ha sintetizzato il ministro Federica Guidi, anche lei presente a Cernobbio: «Le aziende non hanno più un portafoglio ordini a sei mesi ma a sei giorni».

Ma ci sono oggi le condizioni per una riflessione di così ampia portata, come quella delineata da Marchionne? E il governo Renzi se ne farà davvero carico a costo di aprire un nuovo fronte polemico dentro il Pd e con la Cgil? Il top manager Fiat evidentemente pensa di sì, spiega che non bisogna privilegiare la difesa statica del singolo posto di lavoro ma la persona favorendone la mobilità sociale e la formazione perché – sia chiaro a tutti – «noi non vogliamo lavoratori usa-e-getta ma persone coinvolte». Tutti concetti che ricordano molto da vicino le eresie del giuslavorista Pietro Ichino, spesso sottovalutate dal mondo confindustriale. E non a caso l’amministratore delegato di Fiat Chrysler ha voluto ancora una volta ricordare come «pur di riconquistare una libertà di contrattazione» con i propri dipendenti l’azienda avesse deciso a suo tempo di uscire da Confindustria. Chiudendo Marchionne ha aggiunto che da sei anni le attività italiane sono in perdita e nonostante ciò non è stato chiuso nessuno stabilimento o licenziato nessuno e il motivo primo è che «siamo fondamentalmente italiani». Una frase che i suoi avversari non gli abboneranno facilmente. A cominciare da Roberto Maroni che ieri sull’italianità della Fiat è stato più caustico dei sindacalisti.