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La crisi frena gli immigrati. Mandano meno soldi a casa

La crisi frena gli immigrati. Mandano meno soldi a casa

La Gazzetta dello Sport

Crisi per tutti, pure per ciò che chiamiamo «rimesse». Il frutto di lavoro e sacrifici, le somme che i lavoratori stranieri in Italia spediscono verso i Paesi di origine spesso attraversi piccole finanziarie: negli ultimi dieci anni hanno raggiunto la vertigine di 60 miliardi di euro. Eppure, a leggere un’analisi del Centro Studi «ImpresaLavoro» su elaborazione di dati Bankitalia, si scopre che anche questo settore è in sofferenza.

Nel dettaglio, esplorando la ripartizione anno per anno, ecco che le difficoltà complessive del sistema Italia portano a ridurre le rimesse spedite da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) e giù fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%), il livello più basso dal 2007. Utile anche allargare il campo alla geografia dell’immigrazione in Italia: gli immigranti che hanno trasferito più risorse in patria li trovi in Lombardia (un miliardo e 119,4 milioni), poi ci si trasferisce nel Lazio (985,1 milioni) prima di risalire al nord: Toscana (587,1 milioni), Emilia-Romagna (459,7 milioni), Veneto (426,3 milioni).

«ImpresaLavoro» ha dovuto navigare in un mare magnum di dati e numeri: nello studio elaborato, contempla cittadini di 176 nazionalità differenti venuti da queste parti per lavorare. Quanto alle diverse nazionalità, si scopre che il flusso maggiore di denaro è partito dall’Italia direzione Romania: 876 milioni guadagnati qui e spediti in patria. E dopo i lavoratori romeni, immancabili, i cinesi (819 milioni). Più distanziate, le comunità del Bangladesh (360), delle Filippine (324), del Marocco (250), del Senegal (245), dell’India (225), del Perù (193), dello Sri Lanka (173) e dell’Ucraina (144).

Immigrazione, ecco chi invia più soldi ai Paesi di origine

Immigrazione, ecco chi invia più soldi ai Paesi di origine

Simona Sotgiu – Formiche

Il naufragio del peschereccio partito dalla costa libica con a bordo 950 migranti – numero riferito dai superstiti messi in salvo dalla Marina Militare e sbarcati a Catania – ha riaperto per l’Italia e l’Europa il dibattito su cosa sia necessario fare per impedire il ripetersi di tragedie di questa natura. La realtà, però, si scontra con il cordoglio, l’indignazione: un barcone con 200 migranti è naufragato, infatti, davanti alla costa orientale di Rodi, in Grecia, il 20 aprile.

E mentre si dibatte su quali interventi dovrebbero attuare Europa e Italia per limitare le stragi in mare, il Centro Studi Impresa Lavoro ha elaborato le cifre delle rimesse che i lavoratori stranieri inviano nei rispettivi Paesi di origine. Pochi quelli africani nelle classifiche.

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La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

Repubblica.it

La crisi colpisce anche le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia: negli ultimi 10 anni le somme dirette verso i paesi d’origine dei migranti hanno raggiunto i 60 miliardi di euro, ma il trend rilevato da un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia mostra chiari segnali di sofferenza.

Osservando la ripartizione per anno, infatti, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%), il livello più basso dal 2007.

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Nuova stangata sulla casa e crolla il prezzo del mattone

Nuova stangata sulla casa e crolla il prezzo del mattone

Tobia De Stefano – Libero

«Non esiste nel modo più categorico che ci sia un aumento delle tasse». Renzi ci prova. Rassicura. E anche nell’ultima intervista nel giorno di Pasqua, in vista del prossimo varo del Def, sparge ottimismo sulla pressione fiscale. Eppure non passa giorno senza che arrivi un dato economico che confuta la tesi del premier. L’ultimo riguarda il bene più amato dagli italiani, il mattone, e sottolinea che pure nel 2014 le tasse sulla casa sono aumentate di un altro 10 e passa per cento.

Secondo le elaborazioni del centro studi liberale «ImpresaLavoro», il peso delle principali imposte di natura patrimoniale (legate cioè alla proprietà o possesso, indipendentemente dal reddito generato) sugli immobili è passato dai 24,6 miliardi del 2013 ai 27,5 dello scorso anno. Analizzando i numeri nel dettaglio si possono notare almeno tre tendenze tuttora in atto. Innanzitutto la relazione inversamente proporzionale tra la pressione fiscale e il valore degli immobili. Più cresce la prima più si riduce il secondo. Nel 2013 il valore complessivo degli immobili di proprietà delle famiglie italiane era pari a circa 5.500 miliardi (in calo rispetto ai 5.900 miliardi del 2011) e per il 2014 si prevede un altro dato negativo: ­3,9% a quota 5.300 miliardi di euro. Quindi la mappatura fiscale.

Negli anni, infatti, la graduale riduzione delle transazioni immobiliari ha comportato un calo del gettito Iva (che dal 2011 al 2014 si è dimezzato) e delle imposte di registro, ipotecarie e catastali. Mentre le nuove imposte hanno aggravato e non di poco la pressione fiscale sulle famiglie italiane proprietarie di un immobile. Qualche esempio? La sostituzione della Tarsu (ultimo anno di applicazione 2012) con la Tares, che nel 2014 è diventata Tari ha comportato un ricarico linale complessivo sui soggetti passivi di circa 2 miliardi all’anno. Oppure la Tasi. La sua introduzione, nel 2014, ha generato un gettito aggiuntivo di 4,6 miliardi. Insomma, visto come sono andate le ultime novità c’è di che preoccuparsi per le prossime.

La «Local tax» per unificare Imu e Tasi e la riforma delle rendite catastali. C’è il rischio concreto di ritrovarci di fronte a un altro salasso. Tanto che l’ufficio studi di «ImpresaLavoro» avverte: «Gli effetti della futura riforma delle rendite, ancora non delineata nelle sue caratteristiche essenziali, dovrebbero essere valutati accuratamente al fine di prevenire conseguenze indesiderate di tipo sperequativo, nonché di un ulteriore possibile incremento sostanziale e generalizzato del gettito connesso».

Tasse record sulla casa – Panorama

Tasse record sulla casa – Panorama

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Gianni Zorzi* – Panorama

Il peso delle tasse sul mattone ha sfondato la quota record di 50 miliardi di euro, di cui 38 a carico delle famiglie. È quanto emerge da un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale il totale delle imposte gravanti a vario titolo sugli immobili in Italia (a carico sia dei soggetti privati sia di professionisti e imprese) è cresciuto rapidamente in questi ultimi quattro anni, passando dai 38 miliardi del 2011 agli oltre 50 del 2014. Sulle sole famiglie, il rincaro complessivo è stato nel periodo di 7,2 miliardi (da 31 a 38,2), con una crescente incidenza delle imposte di tipo patrimoniale (da 16,1 a 27,5).

L’aumento è dovuto in particolare a tre ragioni: l’introduzione anticipata dell’Imu a partire dal 2012 in sostituzione dell’Ici e di una parte dell’Irpef prelevata sugli immobili; la sostituzione della Tarsu con la Tares, divenuta successivamente Tari, con un ricarico finale complessivo pari a circa due miliardi annui; l’introduzione della Tasi (2014), per un gettito complessivo di 4,6 miliardi, destinato a sostituirsi alla mancata riscossione dell’Imu sulle abitazioni principali, sostanzialmente abolita dal 2013. Risulta quindi evidente che con l’introduzione anticipata dell’Imu la composizione stessa del prelievo fiscale sugli immobili si sia notevolmente modificata, con una quota ben più elevata (a partire dal 2012) della componente di tipo patrimoniale, non collegata quindi alla produzione di reddito immobiliare ma esclusivamente dalla proprietà o dal possesso delle abitazioni.

Secondo i rapporti dell’Agenzia delle Entrate, che citano espressamente i dati Ocse,l’Italia sarebbe passata, su un campione di 29 Paesi, dal quindicesimo al nono posto tra il 2011 e il 2012 per livello complessivo di tassazione sugli immobili, con un’incidenza sul Pil cresciuta dall’1,7 al 2,5 per cento. Il panorama descritto dai dati internazionali è comunque molto variegato: si va da uno 0,3 per cento del Pil in Estonia al 4,2 del Regno Unito (sulla base di dati che includono anche il prelievo sulla ricchezza netta e le transazioni finanziarie).

Se si considera la sola componente riferita alla tassa di proprietà sugli immobili (per l’Italia quindi l’Imu), e cioè l’unico elemento di tipo esclusivamente immobiliare e confrontabile in via omogenea con gli altri Paesi, dal 2011 al 2013 l’Italia ha messo a segno un sostanziale raddoppio in termini nominali (più 107,4 per cento), l’aumento nettamente più elevato tra i paesi Ocse: il secondo Paese per incremento della tassa di proprietà sugli immobili tra il 2011 e il 2013 è l’Ungheria, con il più 82,4 per cento in termini nominali. L’Italia ora risulta sesta nel campione europeo per la pressione fiscale sugli immobili in rapporto al Pil dopo Regno Unito, Francia, Islanda, Danimarca e Belgio e prima della Spagna e di altri 19 Paesi tra cui la Germania.

C’è poi una anomalia che riguarda la competenza delle imposte sugli immobili. L’Italia ha scelto negli ultimi anni di introdurre per la prima volta una componente accentrata nella tassa sulla proprietà della casa. La tendenza è inversa a quella di altri Paesi, come la Francia, che hanno operato una forte decentralizzazione del prelievo a favore degli enti locali, e con il dato di 25 su 34 Paesi Ocse che prevedono una (sostanziale) esclusiva pertinenza locale di questo tipo di imposte, supportati da fondate ragioni di efficienza.

L’aumento delle tasse complessive sugli immobili si è accompagnato al calo dei prezzi delle case, producendo quindi un aumento ancor più marcato in termini di incidenza delle imposte sul valore delle proprietà oggetto di tassazione. Il valore complessivo degli immobili di proprietà delle famiglie italiane era pari a circa 5.500 miliardi nel 2013, in calo di oltre il 7 per cento rispetto al picco del 2011, quando si sfioravano i 5.900 miliardi. Ipotizzando che nel 2014 i prezzi siano ulteriormente scesi, il valore complessivo del patrimonio immobiliare delle nostre famiglie si ridurrebbe quindi, secondo la nostra stima, a non più di 5.300 miliardi. Su questa discesa dei valori una parte di responsabilità può attribuirsi senz’altro al fisco. Da un lato, con le dovute cautele può essere stimata in una forbice tra il 5 e il 10 per cento la diminuzione dei prezzi dovuta al livello delle imposte in senso proprio. Dall’altro, l’incertezza e instabilità delle regole stesse, che secondo diversi osservatori potrebbe essere alla base anche di un minore interesse degli investitori istituzionali, specialmente esteri.

Nonostante questo, il sistema risulta ancora oggi destinato a ulteriori modifiche, legate per un verso ad una nuova riforma ipotizzata per le tasse locali, apparentemente non stabilizzatesi nella mente del legislatore, e per l’altro verso alla più volte annunciata riforma delle rendite catastali, destinata a modificare la base imponibile della gran parte delle 11 principali imposte che colpiscono proprietari e possessori di immobili in Italia. Gli effetti della futura riforma delle rendite, ancora non delineata nelle sue caratteristiche essenziali, dovrebbero essere dunque valutati accuratamente al fine di prevenire conseguenze indesiderate di tipo sperequativo, nonché di un ulteriore possibile incremento sostanziale e generalizzato del gettito connesso.

*docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e consulente per l’area Finanza di “ImpresaLavoro”

Da bene rifugio a bene incubo – Massimo Blasoni*

Questa modalità di tassazione è particolarmente odiosa perché non consente alcuna scelta al cittadino: la casa è infatti un bene di cui non è possibile disfarsi in tempi rapidi, che rappresenta un investimento di lungo periodo e la cui tassazione non dovrebbe quindi essere soggetta a cambiamenti così radicali in tempi così stretti. Con questa politica il bene rifugio per eccellenza degli italiani è stato via via trasformato in un bene incubo. A tal punto che oggi, per chi ha un reddito fisso, è diventata una vera iattura ricevere in eredità un appartamento che non si riesce né a vendere né ad affittare: non ti resta che pagarci sopra le tasse, ed essere trattato dal fisco come un benestante.

* presidente del centro studi ImpresaLavoro

Blasoni: «Ecco come attacco la burocrazia con una pagina»

Blasoni: «Ecco come attacco la burocrazia con una pagina»

Fabrizio Boschi – Il Giornale

Tanto in Italia se non fai così non ti considera nessuno. E allora l’unico modo per farsi sentire è quello di comprarsi una pagina di giornale e cercare di scherzare su una cosa serissima. Per questo Massimo Blasoni, imprenditore friulano nato a Udine, già soprannominato «l’imprenditore anti burocrazia», ha fatto pubblicare su Giornale e Fatto quotidiano, un «Gioco dell’oca» un po’ particolare dove l’oca, attraversando le 28 caselle della burocrazia italiana, arriva in fondo servita su un piatto con contorno di patate. La cosa brutta, che non è affatto un gioco, è che ciò che Blasoni scrive in quelle 28 tappe è tutto vero e l’oca arrosto rappresenta ogni singolo cittadino italiano.

Le caselle in cui si cade, lanciando i dadi, parlano di tasse e burocrazia. Si parte con la «Pazienza» dove in Italia per recuperare un credito è più difficile che in Grecia o Romania. Il tempo medio, infatti, supera i cento giorni. Poi c’è la «Mattonata» dove rispetto al 2011 la produzione di un costruttore è crollata del 29,3%. Un settore che Blasoni conosce bene visto che nel 1996 ha fondato il gruppo «Sereni Orizzonti Spa», il terzo gruppo in Italia nel settore della costruzione e gestione di residenze socio­sanitarie per anziani. Un giro di affari da 80 milioni che dà lavoro a l.500 persone. Nel 2014 ha fondato ImpresaLavoro, un centro studi che promuove il dibattito sui temi dell’economia e del lavoro.

«La mia voleva essere una provocazione» spiega Blasoni. «Ormai si è rotto il patto di fiducia fra imprese e Stato. C’è più burocrazia in Italia che in quasi qualunque altro Paese, terzo mondo compreso. Invito tutti a giocare, temo però che a vincere sia sempre lo Stato». Sì certo, si potrebbe pensare che Blasoni abbia scoperto l’acqua calda. Eppure, sebbene siano problemi ormai detti e ridetti, i cittadini continuano a soffrire e i governi a fregarsene. Un esempio delle balle renziane: la patetica scommessa a Porta a Porta che entro settembre 2014 avrebbe pagato tutti i debiti della pubblica amministrazione (ovvero beni e servizi forniti allo Stato e mai pagati). Sì, quelli del 2013. Nel frattempo quel debito si è riformato ed è arrivato a 75 miliardi. Ma Renzi e Padoan non ne fanno parola. Poi c’è il bluff del bonus degli 80 euro pagati con l’Imu imposto retroattivamente dal governo sui terreni agricoli.

Hai voglia a tirare i dadi. Dove caschi, caschi e sempre male ti va a finire. In Italia per un permesso di costruzione ci vogliono 233 giorni. In Danimarca 64 e in Germania 96. «Mi ci vuole più tempo ad ottenere concessioni edilizie che a realizzare le opere», lamenta Blasoni. L’Italia è anche il Paese dove gli adempimenti che servono per pagare le tasse sono tra i più complessi e costosi. Preparare i documenti per far fronte agli oneri fiscali porta via 269 ore che costano 7.559 euro all’anno. E poi qualcuno ancora si scandalizza se la gente ruba.

Ti piace perdere facile?

Ti piace perdere facile?

Il Friuli

“Ti piace perdere facile? Tasse e burocrazia: un gioco dell’oca in cui vince sempre lo Stato”. È questo il titolo provocatorio di una pagina che il Centro studi ImpresaLavoro, fondato a Udine dall’imprenditore e politico Massimo Blasoni, ha pubblicato questa mattina su alcuni quotidiani nazionali.

Lo schema proposto è in effetti proprio quello di un inedito gioco dell’oca, che alla fine della partita finisce arrosto, nel quale ciascuna casella descrive una condizione di particolare svantaggio per quanti decidono di fare impresa nel nostro Paese. Si parte dalla casella 1 (“In Italia recuperare un credito è più difficile che in Grecia e Romania.

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Il peso della burocrazia per pagare le tasse: oltre 7500 euro ad azienda

Il peso della burocrazia per pagare le tasse: oltre 7500 euro ad azienda

Il Messaggero

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda media spende ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.

I numeri
Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.

Vincere in questa classifica è tutt’altro che prestigioso e per una volta riusciamo a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con “solo” 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Superiamo anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come il nostro in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutti gli adempimenti. È pur vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi del nostro: ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.

«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

Sanguisughe di Stato, pure una tassa sulle tasse

Sanguisughe di Stato, pure una tassa sulle tasse

Antonio Signorini – Il Giornale

Tasse che non accennano a diminuire. A partire dalla Local tax, che il governo si appresta a varare senza fare risparmiare un centesimo ai cittadini. Poi, tasse che servono ad alimentare una macchina burocratica che a sua volta fa sprecare tempo e denaro a chi crea ricchezza per il paese. Il centro studi ImpresaLavoro ha calcolato che essere in regola con il fisco costa carissimo ai cittadini italiani. Un’azienda media spende 7.559 euro all’anno per sbrogliare le complicazioni burocratiche del fisco. Un macchina alimentata dalle stesse tasse e che contribuisce a rendere il paese più povero.

Caso unico in Europa. Solo da noi un’azienda deve dedicare in media 269 ore di lavoro all’anno per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Lavoro dei dipendenti sottratto all’attività produttiva. Il Paese più vicino al nostro in termini di tributo al grande fratello fiscale è la Germania con 218 ore. In Francia il fisco richiede solo 137 ore all’anno. Segno che anche una burocrazia mastodontica come quella dell’Esagono, non grava necessariamente sui cittadini. Ci battono solo la Bulgaria, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, dove però il costo del lavoro è molto più basso del nostro e quindi la perdita per le imprese è ridotta.

Di inversioni di rotta in vista non ce ne sono. Il 730 precompilato è ancora da testare. E la giungla di tributi è sempre quella. Per non parlare di un alleggerimento della pressione fiscale. La Local tax è nata come semplificazione e come riduzione delle imposte locali. Ma in pochi ci credono. «Innanzitutto cerchiamo di introdurla, poi vedremo di fissarla perché sia conveniente per tutti», ha spiegato ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Tradotto, la nuova imposta locale che sostituirà Imu, Tasi e Tari non farà risparmiare nessuno. Sarà l’ennesimo cambio di nome per le tasse che gravano sul mattone. Sigla diversa, stessi salassi.

Per eventuali tagli alle imposte più odiate dagli italiani non resterà che aspettare tempi migliori, tanto che associazioni come Confedilizia si stanno battendo per l’invarianza di gettito. Cioè per evitare un ulteriore stangata (la terza ondata di aumenti di imposte sulla casa dopo quelle di Monti e di Letta). Ipotesi per nulla scontata visto che ieri, proprio Confedilizia, grande sponsor della Local tax, ha cambiato idea e ha chiesto al governo di fermarsi. «Se la Local tax si limiterà solo a rendere più facilmente pagabile lo stesso gravame impositivo, è forse meglio passare oltre», ha spiegato il presidente Corrado Sforza Fogliani. «Gli italiani, per passare da un incubo alla speranza, hanno bisogno di un alleviamento, non di una conferma sia pure indiretta dell’attuale peso di imposte sulle loro case». La prospettiva è invece quella di fare passare in un’ «unica» soluzione 26 miliardi di euro direttamente nelle casse dei Comuni italiani, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. Sono quelli di Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), dell’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), dell’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), della tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), dell’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e dell’imposta di scopo (14 milioni di euro). Cambieranno nome, ma le cifre resteranno quelle.

Sempre che non aumentino.

La pratiche fiscali costano 20 euro al giorno

La pratiche fiscali costano 20 euro al giorno

Filippo Caleri – Il Tempo

Non solo fisco esoso e rapace. In Italia le imprese sopportano un costo esoso anche solo per restare in regola e per portare a termine le decine di adempimenti chiesti dall’amministrazione fiscale. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, una azienda media spende, infatti, ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le aziende sono costrette a sostenere.

Un numero che è emerso dall’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali e quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.

Per una volta l’Italia riesce a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con «solo» 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Il Paese supera anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come quello italico in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutte la pratiche relative al fisco. È anche vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi di quello applicato in Italia – spiega il rapporto della Fondazione – ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.

«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

Mentre si pagano costi pesanti per pagare le tasse. Queste ultime non accennano a diminuire. E l’eventuale sostituzione di una serie di tasse comunali con la «local tax» porterebbe in un’«unica» soluzione 26 miliardi di euro nelle casse dei Comuni italiani. A calcolarlo è l’Ufficio studi della Cgia, l’associazione degli artigiani di Mestre, che ha elencato le principali imposte/tasse comunali e i relativi gettiti che potrebbero essere sostituiti dalla nuova «tassa unica» che i sindaci dovrebbero applicare a partire dal 2016. Ebbene, tra Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), l’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), l’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), la tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), l’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e l’imposta di scopo (14 milioni di euro), il gettito totale si aggira sui 26 miliardi di euro.