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I tagli e l’aritmetica del consenso

I tagli e l’aritmetica del consenso

Alberto Mingardi – La Stampa

Negli Anni Sessanta, l’economista statunitense Milton Friedman, durante un viaggio in Asia, venne portato a vedere i lavori di costruzione di un canale. Friedman constatò sorpreso che c’erano pochissime ruspe in cantiere e gli operai si aiutavano solo col badile. Non doveva meravigliarsi, gli spiegò uno zelante funzionario, quella «grande opera» faceva parte di un programma per aumentare l’occupazione. Par di vederlo, Friedman, che alza un sopracciglio e dice: «Pensavo doveste costruire un canale. Se volete creare posti di lavoro, dovreste dare a queste persone dei cucchiai, non dei badili».

Si dirà che il mondo è cambiato: è tempo di spending review. Ma come si fa a ridurre le spese, se non è cambiata la mentalità delle pubbliche amministrazioni? L’ultimo Documento di Economia e Finanza ha riacceso i riflettori sui tagli al servizio sanitario nazionale. Nell’estate scorsa, governo e Regioni si erano accordati, col cosiddetto Patto per la Salute, sull’ammontare delle spese per questo comparto nel triennio 2014­-2016. Più di recente, la legge di stabilità ha previsto un aumento del contributo a carico delle Regioni per il contenimento della spesa pubblica. Potendo scegliere dove tagliare, le Regioni hanno deciso di aumentare la sforbiciata ai servizi sanitari. In pochi si sono lamentati. È vero che quasi l’80% del budget dei governi regionali è impiegato per la sanità, ma è difficile immaginare che non si possano limare le uscite anche in altri settori. E nella sanità, che cosa hanno scelto di tagliare le Regioni?

Potremmo pensare che la «spending review» fosse il momento buono per mettere mano a un riordino della rete ospedaliera. Se ne parla da anni: sono molti i piccoli ospedali che potrebbero essere accorpati, recuperando efficienza. La moltiplicazione dei nosocomi serviva alla salute dei partiti: l’idea di avere un ospedale vicino rassicura gli elettori. Ci sono però buoni motivi per «concentrare» risorse e persone in strutture più grandi: la probabilità di morire nel corso di un intervento chirurgico è minore in un ospedale in cui se ne fanno molti, di interventi di quel tipo. Le Regioni non hanno scelto di rivedere la rete ospedaliera: al contrario, hanno annunciato tagli, e importanti, all’acquisto di beni e servizi e all’ospedalità privata.

È una decisione assennata? Le ruspe costano di più dei badili, ma aumentano la produttività degli operai e accorciano i tempi di realizzazione del canale. Fuori di metafora, ogni tanto un farmaco può ridurre le giornate da trascorrere a letto. Ogni tanto un macchinario può aiutare ad individuare per tempo una malattia, consentendo il ricorso a terapie meno debilitanti. Ogni tanto acquistare prestazioni dagli ospedali privati (che col 15% della spesa coprono il 24% dei ricoveri) significa spendere in modo più efficace i soldi di tutti.

Al contribuente, non interessa che i suoi quattrini finiscano nelle tasche della pubblica amministrazione o di fornitori «esterni»: interessa che «comprino» una sanità d’eccellenza. Se le Regioni preferiscono rivedere gli acquisti che gli stipendi, è perché gli scanner per la risonanza magnetica non votano, ma i percettori di un salario statale invece sì. I tagli lineari non piacevano a nessuno. Pareva incredibile che la politica non sapesse scegliere cosa fare e cosa ridurre. Ma quando la politica sceglie, l’impressione è che lo faccia secondo l’unica aritmetica che conosce: l’aritmetica del consenso.

Centrali d’acquisto, i tagli promessi da Renzi su un binario morto

Centrali d’acquisto, i tagli promessi da Renzi su un binario morto

Stefano Caviglia – Panorama

Se il buongiorno si vede dal mattino, la spending review di Matteo Renzi viaggia sotto i peggiori auspici. È dal 24 aprile 2014, con la presentazione del «decreto competitività e giustizia sociale», che il governo promette di ridurre il numero abnorme di centrali di acquisto dello Stato, delle Regioni e (soprattutto) dei Comuni italiani. Ma è proprio quel primo passo che non riesce a compiere. Il testo del provvedimento, lo stesso del bonus degli 80 euro, fissava l’inizio delle operazioni al primo luglio: delle circa 32 mila stazioni appaltanti della Pubblica amministrazione (responsabili di circa 130 miliardi di acquisti di beni e servizi), era la promessa, ne sarebbero soprawissute al massimo 35, compresa la Consip, la centrale di acquisti nazionale posseduta dal ministero dell’Econornia. I Comuni non capoluogo di provincia sarebbero stati obbligati ad acquistare attraverso una di queste (oppure tramite aggregazioni ad hoc con altre amministrazioni) qualunque bene, servizio o lavoro pubblico. Sono passati più di sette mesi e non solo lo spettacolare taglio non s’è visto, ma la sua stessa eventualità è messa pesantemente in discussione. L’idea di ridurre le centrali di acquisto provoca infatti reazioni di sdegno nella potentissima associazione dei Comuni italiani. «Quella norma rischia di causare il blocco degli appalti in tutto il Paese», tuonò l’Anci al momento dell’approvazione del decreto, ottenendo uno slittamento dell’applicazione al primo gennaio 2015.

Ora che il tempo è scaduto, l’offensiva si sposta in Parlamento. Alla Camera una pioggia di emendamenti si è abbattuta sul Milleproroghe, il decreto che ogni anno mantiene in vita per il tempo necessario i provvedimenti in scadenza. Chiedono quasi tutti di far slittare di sei mesi o di un anno la norma sulla riduzione delle stazioni appaltanti, forse nella speranza che si perda nei corridoi del Parlamento o che sia travolta da una fine anticipata della legislatura. La palla è ora nel campo del governo, che entro la metà di febbraio dovrà decidere se rinviare per la seconda volta l’entrata in vigore della legge oppure mantenere la promessa fatta agli italiani. L’esecutivo, a quanto risulta a Panorama, è in grande imbarazzo: da un lato ci sono le pressioni sempre più forti dei Comuni, dall’altro il fatto che un nuovo rinvio comporterebbe un prezzo da pagare in termini di credibilità, anche perché la razionalizzazione delle stazioni appaltanti equivale a una discreta fetta dei tagli tante volte annunciati. Alla voce «Iniziative su beni e servizi», le famose slides dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli avevano stimato una riduzione di spesa di 800 milioni di euro nel 2014 e di 2,3 miliardi nel 2015. In tutto fa più di 3 miliardi, che nella migliore delle ipolesi già non sono più interamente disponibili (siamo a febbraio) e nella peggiore stanno per svanire del tutto insieme a tanti altri risparmi e alle diininuzioni di tasse cui dovrebbero essere destinati.

Il discorso delle centrali di acquisto, infatti, è solo la punta dell’iceberg. Dei tagli promessi dal governo, almeno di quelli più importanti, non se n’e fatto finora neanche uno. Difficilmente arriveranno risorse dalla riduzione dei trasferimenti alle imprese (un miliardo era previsto da Cottarelli nel 2014 e 1,6 miliardi nel 2015) o dalla cessione delle aziende municipalizzate in perdita (100 milioni nel 2014 e altrettanto nel 2015). Non si vede nulla all’orizzonte neppure per quel che riguarda la riorganizzazione delle forze di polizia (800 milioni nel 2015) ne dalla soppressione di enti o agenzie (100 milioni nel 2014 e 200 nel 2015). Solo il taglio delle retribuzioni di presidente e consiglieri del Cnel produrrà qualche risparmio, ma non certo nella misura attesa, visto che l’iter legislativo della chiusura del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e ancora in corso. Poi ci sono voci ormai mitiche come la digitalizzazione della Pubblica amministrazione che, sempre nei piani di Cottarelli, nel 2015 avrebbe dovuto dare più di 1 miliardo. È ancora valida quella previsione ora che l’ex commissario è stato accompagnato alla porta da Renzi? Bisogna essere molto ottimisti per rispondere in modo affermativo.

Alla fine restano solo i vecchi arnesi della riduzione di spesa tradizionale, come i tagli lineari nei ministeri, da cui si prevede di ottenere quasi due miliardi, e quelli dei trasferimenti a Regioni, Province e Comuni, che infatti hanno fatto fuoco e fiamme riguardo alla Legge di stabilità. Tocca a loro il salasso più pesante: 3,5 miliardi in meno alle Regioni e 2,2 ai Comuni. E qui si tocca un altro tasto dolente. Se gli unici risparmi si fanno chiudendo il rubinetto dei trasferimenti agli enti locali, si può parlare di riduzione degli sprechi? Lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio (ex presidente dell’Anci) ha riconosciuto in un’intervista alla Repubblica che il 2015 sarà un anno durissimo per i Comuni. E se per compensare quel che manca sindaci e presidenti di Regione aumentano le tasse? Queste voci compongono quasi la metà della manovra 2015 con cui il governo ha cercato di non lasciar vedere troppo lo scarto fra la montagna delle promesse e il topolino dei risparmi reali. Sulla carta i tagli di spesa previsti dalla Legge di stabilità ammontano a 16 miliardi, quattro in meno dei 20 annunciati alla fine dell’estate. Ma il vero problema è la loro incertezza. Per ottenere il via libera della Commissione europea ai conti dell’Italia, il governo si è protetto con la clausola di salvaguardia che prevede dal gennaio 2016, in caso di mancato rispetto delle previsioni, l’aumento dell’Iva al 12 per cento per i beni che oggi pagano il dieci e al 24 per quelli soggetti al 22. Ulteriori aumenti sono previsti nel 2017 e nel 2018. Se i conti dello Stato sono al sicuro, le nostre tasche molto meno.

Per capire come stiano davvero le cose, del resto, basta dare un’occhiata ai numeri generali della Legge di stabilità. Lungi dal diminuire, la spesa pubblica nel periodo fra il 2013 e il 2015 è prevista in aumento da 827,2 a 838,8 miliardi, per arrivare addirittura a 860,3 nel 2017. È vero che queste cifre sono condizionate dal fatto che Bruxelles ha imposto di contabilizzare il bonus degli 80 euro come aumento di spesa anziché come riduzione fiscale, ma anche senza questa penalizzazione nel
2015 la spesa diminuirebbe di appena 6 miliardi, per poi ritrovarsi di nuovo in crescita di altri 20 miliardi nel 2017.

Dei tagli non parla più nessuno

Dei tagli non parla più nessuno

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Che fine ha fatto quella «revisione della spesa» di cui tanto si è parlato nell’ultimo anno? E che doveva fungere da leva per risanare il settore pubblico sul versante delle uscite, in base a criteri di efficienza ed equità? Purtroppo ha fatto una brutta fine. Con le dimissioni del Commissario Carlo Cottarelli, lo scorso ottobre, il processo si è bloccato. Sull’apposito sito Internet compaiono solo scarne e obsolete informazioni. Nella scorsa primavera, la spending era diventata la regina dei talk show. L’omissione del sostantivo (review, ossia revisione, ristrutturazione) avrebbe dovuto insospettire. Molti politici consideravano infatti i risparmi futuri come un tesoretto a cui attingere per nuove spese. Clamoroso il tentativo di finanziare il pensionamento con le regole pre-Fornero di alcune categorie di insegnanti attraverso, appunto, la spending. I materiali prodotti da Cottarelli non sono mai stati discussi apertamente. In un’intervista televisiva quasi imbarazzante, il Commissario si è limitato a menzionare come «sprechi» le solite siringhe calabresi (che costano più di quelle lombarde) e le sedi estere di alcune Regioni.

Nella legge di Stabilità i tagli ci sono, è vero (per circa 15 miliardi di euro). Ma sappiamo come sono stati definiti: un tira e molla fra i vari ministeri e fra governo centrale e Regioni. Non c’è da stupirsi se questa vicenda ha rafforzato i dubbi dell’Europa. Nelle sue valutazioni sulla legge di Stabilità, Bruxelles ha espresso preoccupazioni, tanto più che la Commissione aveva fornito precise indicazioni su come impostare buone spending reviews. L’ingrediente principale è un forte investimento politico da parte dei governi, con una chiara definizione degli obiettivi e un mandato preciso alle strutture coinvolte. Poi servono buoni dati, analisi accurate, coordinamento organizzativo, trasparenza, comunicazione pubblica, monitoraggio e valutazione ex post, integrazione permanente di tutti questi elementi nel ciclo annuale di bilancio. Queste sono le condizioni perché una revisione della spesa possa avere successo. Quasi tutte, purtroppo, sono clamorosamente mancate nella spending di casa nostra. È comprensibile che i declassamenti di rating e i rimproveri di Angela Merkel diano fastidio. E sarebbe ingeneroso non riconoscere a Matteo Renzi un serio impegno per le riforme. La superficialità con cui è stata gestita la partita dei tagli da inserire nella legge di Stabilità è però difficilmente comprensibile. Ed è soprattutto un errore a cui il governo deve al più presto rimediare.

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Paolo Russo – La Stampa

La legge di stabilità rischia di falciare i servizi sanitari delle regioni più virtuose e i treni dei pendolari. Il contributo richiesto ai governatori è ancora di 2 miliardi, anche se si tratta per abbassare l’asticella a 1,5-1,2 miliardi. Un taglio «fai da te», perché il governo non indicherebbe alcuna misura per conseguire il risparmio, ma lascerebbe mani libere alle Regioni. Libere per modo di dire, visto che 1’80% dei loro bilanci è assorbito dalla sanità e la restante parte in larga misura dal trasporto regionale. Messa così la sforbiciata altro non sarebbe che un taglio lineare, destinato a mettere con le spalle al muro proprio chi in sanità la spending review l’ha già fatta. Per indorare la pillola potrebbe non essere iscritta a deficit la spesa per investimenti, mentre un aiutino alle Regioni arriverebbe dalla conferma anche per il 2015 del 5% di taglio dei prezzi dei dispositivi medici.

Per risparmiare quei 2 miliardi il menù sanitario esiste già. È quello del Patto per la salute, sottoscritto appena a fine luglio da governo e Regioni che contiene misure per 10 miliardi di risparmio in tre anni. Quel Patto prevede prima di tutto la centralizzazione degli acquisti, sconosciuta a larga parte delle Asl del Sud. Poi la razionalizzazione della rete ospedaliera, con la chiusura e il riaccorpamento dei reparti sottoutilizzati o con performance scadenti. Tutte misure largamente applicate dalle regioni a Nord del Lazio. Dietro l’angolo potrebbe esserci l`aumento di ticket. A fine novembre i tecnici di Stato e Regioni sforneranno la proposta che riduce il numero degli esenti per rendere meno salato il contributo chiesto per visite specialistiche e accertamenti diagnostici.